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Innanzitutto, una parte della dottrina17 afferma che «i due interventi, che ovviamente si muovono su piani differenti, sono apparsi, subito, non perfettamente consonanti, essendo stata rilevata una certa volontà del legislatore di correggere se non di porre nel nulla le conclusioni alle quali è giunta la giurisprudenza: e, nei confronti del legislatore, è stata mossa la critica di aver voluto rendere più difficile la tutela in sede giurisdizionale, vuoi per valorizzare la scelta di liberalizzazione necessariamente insita nella estensione del regime della d.i.a. o della s.c.i.a., vuoi per ridurre le possibilità di intervento del giudice nei confronti della pubblica amministrazione. La sensazione, indubbiamente, è conseguenza del tenore della nuova disciplina normativa: ma, a ben vedere, in realtà, il contrasto è soltanto apparente e la linea tracciata dall’Adunanza plenaria, favorevole ad una miglior tutela del cittadino nei confronti della pubblica

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l’Adunanza plenaria n. 15 del 2011: un contrasto soltanto apparente, in www.giustamm.it. Ma dello stesso parere è anche R. FERRARA, La segnalazione certificata di inizio attività e la tutela del terzo: il punto di vista del giudice amministrativo, commento all’Ad. pl. n. 15/2011, in Dir. proc. amm., 2012, 193 ss.

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amministrazione, e perciò costituzionalmente corretta, non viene smentita».

Successivamente a queste precisazioni, ci si concentra sull’elemento di novità, dal quale è derivata la turbativa all’equilibrio raggiunto in seguito all’Adunanza plenaria, e dato proprio dal d.l. n. 138/2011.

Per prima cosa la dottrina in commento sottolinea come «[…] in ordine alla definizione giuridica degli istituti di liberalizzazione non vi è alcun contrasto fra la legge e l’Adunanza plenaria»18.

Dopodiché si focalizza l’attenzione sulla seconda parte dell’art. 6 del d.l. n. 138/2011 ove si afferma che, l’unica azione possibile riconosciuta agli “interessati” nei confronti del comportamento dell’Amministrazione conseguente all’esercizio da parte del cittadino delle facoltà riconosciutegli dalla liberalizzazione, è il ricorso all’azione avverso il silenzio, disciplinata all’art. 31 del codice del processo amministrativo; in tal senso, spiega la dottrina, « la volontà della legge di individuare questa e soltanto questa come possibile forma di reazione del terzo nei confronti del comportamento dell’Amministrazione è sottolineata dalla legge di conversione, che ha previsto che questo sia l’unico rimedio esperibile, avendo introdotto l’avverbio “esclusivamente” laddove la disposizione prevedeva che il

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cittadino potesse utilizzare l’azione avverso il silenzio: il cittadino perciò può utilizzare esclusivamente questa azione»19.

Tuttavia, a parere della dottrina in esame, «qui il dettato normativo è, effettivamente, in contrasto con quanto ritenuto dall’Adunanza plenaria, poiché l’Adunanza plenaria, dopo avere ampiamente ricostruito la disciplina legislativa in tema di d.i.a. e di s.c.i.a. ha espressamente escluso che possa ritenersi utile, per la tutela giurisdizionale del terzo, il ricorso avverso il silenzio dell’Amministrazione»20

.

Infatti, come ricorda la medesima dottrina, la plenaria «esclude la possibilità di ricorrere utilmente al rimedio nei confronti del silenzio-rifiuto poiché, in primo luogo, questo rimedio postula la sopravvivenza del potere rispetto al decorrere del termine assegnato per la conclusione del procedimento, cosa che nella fattispecie della d.i.a. o della s.c.i.a. non sussiste; in secondo luogo, poiché per quanto concerne la s.c.i.a. e la d.i.a. il decorrere del termine comporta la preclusione dell’esercizio del potere inibitorio ordinario, con conclusione negativa del procedimento per il terzo; in terzo luogo, poiché la tutela del silenzio nei confronti della possibilità di esercitare l’autotutela non sarebbe da un lato tempestiva, dall’altro praticabile poiché l’autotutela presenta dei profili discrezionali incompatibili con il rito sul silenzio; infine, poiché sarebbe possibile, in taluni casi, che

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l’Adunanza plenaria n. 15 del 2011: un contrasto soltanto apparente, cit.

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l’Amministrazione, anziché adottare provvedimenti ripristinatori, adotti soltanto provvedimenti sanzionatori di natura pecuniaria, di per sé incompatibili con le esigenze di tutela del terzo»21.

«Per questa ragione,» si afferma, «l’Adunanza plenaria sceglie un’altra strada, e cioè la strada di ritenere che il silenzio dell’Amministrazione al termine della fase procedimentale dedicata alla verifica della correttezza della d.i.a. o della s.c.i.a. sia da configurare come silenzio significativo, significativo appunto della volontà di non provvedere, che comporterebbe il formarsi di un silenzio-diniego sulla istanza del terzo»22.

Sarebbe proprio quest’ultima ricostruzione l’aspetto della decisione dell’Adunanza plenaria meno convincente.

A parere della dottrina in questione, «La prima replica che può muoversi, infatti, a questa ricostruzione è che il provvedimento silenzioso negativo si forma soltanto, evidentemente, se vi è un soggetto che ritiene di aver titolo, viceversa, all’esercizio del potere inibitorio; altrimenti, nello schema della legge non è prevista l’adozione di alcun provvedimento né si saprebbe, a questo punto, a chi giovi un provvedimento con il quale l’Amministrazione neghi l’esercizio del potere inibitorio: colui che ha presentato la d.i.a. o la s.c.i.a., infatti, proprio per la natura della posizione dedotta in giudizio e dello schema procedimentale utilizzato dal legislatore, non ha alcun

21. C.E. GALLO, L’articolo 6 della manovra economica d’estate e

l’Adunanza plenaria n. 15 del 2011: un contrasto soltanto apparente, cit.

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bisogno di alcun provvedimento negativo sull’esercizio della attività inibitoria, poiché la possibilità di svolgere l’attività consentita sta nell’aver presentato la dichiarazione di inizio attività o la s.c.i.a. che dir si voglia. Si avrebbe, a questo punto, un provvedimento negativo che si forma soltanto per l’ipotesi in cui un soggetto, in realtà esterno al rapporto diretto con l’Amministrazione, sollecita il suo intervento: conclusione questa, ovviamente, insostenibile»23.

« Del resto,» prosegue la dottrina, «lo stesso Consiglio di Stato dimostra la propria incertezza in ordine alla configurazione del silenzio in questo modo laddove riconosce […] che il provvedimento tacito negativo manifestato attraverso il silenzio sarebbe equiparato dalla legge “ad un, sia pure non necessario, atto espresso di diniego dell’adozione del provvedimento inibitorio”. È difficile immaginare che vi sia un silenzio che corrisponde ad un atto negativo non richiesto: se l’atto negativo non è richiesto, il silenzio, semplicemente, non è significativo, perché non corrisponde ad alcuno schema normativo di esercizio del potere come necessario»24.

E ciò sarebbe ancora una volta dimostrato da quanto affermato successivamente dalla plenaria laddove distingue il silenzio-assenso dalla fattispecie di liberalizzazione.

23. C.E. GALLO, L’articolo 6 della manovra economica d’estate e

l’Adunanza plenaria n. 15 del 2011: un contrasto soltanto apparente, cit.

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Questo sarebbe il profilo della decisione dell’Adunanza plenaria che a parere della dottrina in esame lascerebbe maggiormente perplessi.

A seguire la stessa dottrina procede col valutare «se siano convincenti le repliche che l’Adunanza plenaria oppone all’utilizzabilità dell’istituto del silenzio-rifiuto e […] se l’utilizzazione di questo istituto possa essere utile nell’ottica che l’Adunanza plenaria persegue di ampliamento dell’efficacia della tutela del terzo»25

.

La dottrina in esame fa notare che «La prima ragione che l’Adunanza plenaria individua come ostativa all’utilizzazione dell’istituto del silenzio-rifiuto è che detto istituto «postula, sul piano strutturale, la sopravvivenza del potere al decorso del tempo fissato per la definizione del procedimento amministrativo». Si tratta» secondo questa dottrina, tuttavia, «di un’affermazione che è rapportata all’id quod plerumque accidit, ma che non è, di per sé, strutturalmente connessa alla dinamica del potere ed al suo rapporto con l’esercizio della funzione giurisdizionale. Poiché, infatti, da un lato l’esercizio del potere è normalmente immanente nell’Amministrazione pubblica e, dall’altro, il giudicato di accoglimento ha un effetto retroattivo, non può in via di principio escludersi che il riconoscimento da parte del giudice della illegittimità del silenzio dell’Amministrazione comporti per questa la necessità di riesercitare il potere, ora per allora, in virtù di

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quell’effetto retroattivo del giudicato che è normalmente riconosciuto»26.

Inoltre, sostiene la medesima dottrina: «[…] non mancano neppure in giurisprudenza applicazioni di questo concetto pure in presenza di un termine perentorio per l’esercizio del potere: il riferimento è a quella giurisprudenza, ormai lontana, formatasi in relazione all’annullamento degli atti negativi di controllo del comitato regionale di controllo sugli enti locali che ammetteva, annullato l’atto negativo di controllo per una determinata ragione, che l’organo di controllo potesse riesercitare il proprio potere, al limite giungendo ad un nuovo annullamento per motivi diversi, pur in presenza di un termine perentorio per l’esercizio del potere stesso ormai scaduto»; di conseguenza, «non può dirsi, perciò, che sia strutturalmente incompatibile con l’esercizio del potere a termine perentorio l’utilizzazione dell’istituto del silenzio. E ciò a maggior ragione vale nella fattispecie di attività liberalizzate, poiché, in questo caso, per definizione l’attività liberalizzata prosegue dopo la scadenza del termine per l’esercizio dei poteri inibitori o in sé o in quanto permane la modificazione della situazione di fatto che l’attività ha provocato»27

. Ritenuto non convincente, è pure il secondo argomento addotto dall’Adunanza plenaria, in base al quale l’utilizzazione del meccanismo del silenzio non sarebbe possibile, considerato che il

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l’Adunanza plenaria n. 15 del 2011: un contrasto soltanto apparente, cit.

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decorso del tempo, nel caso di specie, non configurerebbe una mera inerzia nell’esercizio del potere, bensì produrrebbe un esito negativo della procedura.

«Non vi è, infatti,» a parere della dottrina in esame, «alcun esito negativo della procedura nel caso di non utilizzazione dell’Amministrazione dei suoi poteri inibitori, per il semplice fatto che è mancato l’esercizio del potere: vi è, semplicemente, la scadenza di un termine per l’esercizio del potere, non una conclusione fittizia del procedimento. Se vi fosse una conclusione fittizia del procedimento vi sarebbe un silenzio diniego, cioè un silenzio significativo, il che non è previsto dalla legge, come la stessa Adunanza plenaria riconosce»28.

Ci si concentra, poi, sulla terza ragione che induce l’Adunanza plenaria a negare la possibilità di ricorrere allo schema del silenzio inadempimento, ovvero il fatto che, se lo si rapporta all’esercizio del potere di autotutela lo schema non potrebbe operare, in quanto non sarebbe tempestivo e non consentirebbe comunque un intervento efficace del giudice a fronte di un potere discrezionale come è il potere di autotutela.

Il primo argomento si presterebbe a questa critica: se il ricorso all’istituto del silenzio fosse ritenuto inefficace ai fini della tutela del terzo, questo varrebbe, secondo la dottrina in questione, sia per il rimedio del ricorso avverso il silenzio-inadempimento, sia per il

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rimedio del ricorso avverso il silenzio significativo, poiché, in entrambi i casi, la possibilità di intervento del giudice in sede di sentenza di cognizione sarebbe la stessa, e non sarebbero i tempi più brevi del giudizio sul silenzio a garantire una tutela efficace; in ogni caso, questi termini, per quanto brevi, porterebbero ad una pronuncia comunque successiva all’esaurimento del termine di legge, assegnato all’amministrazione per provvedere.

Per quanto attiene, invece, alla considerazione per cui il potere di autotutela sia un potere discrezionale rispetto al quale non è utilmente esercitabile l’istituto del silenzio, viene mossa la seguente critica: l’esercizio del potere di autotutela non sarebbe interamente rimesso ad una scelta discrezionale dell’amministrazione; la dottrina in esame, infatti, sottolinea come l’esercizio del potere di autotutela sia doveroso sussistendone i presupposti, anche se la valutazione finale in ordine al potere di autotutela presenta dei margini di opinabilità il che, riferito alla pubblica amministrazione, significa ammettere dei margini di discrezionalità amministrativa.

Sottolinea la dottrina in questione: «quello che il terzo può comunque pretendere è che l’autotutela venga valutata, e che la valutazione finale sia immune dai vizi che possono colpire un atto discrezionale. Sostenere che l’esercizio di autotutela sia totalmente discrezionale non è esatto, anche se la giurisprudenza amministrativa continua ad attestarsi in questi termini, questa volta riducendo drasticamente la possibilità di tutela di colui che non abbia reagito

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entro i termini di impugnazione ma voglia comunque presentare un’istanza di riesame»29

.

Non ugualmente convincente risulterebbe essere anche la quarta obiezione sollevata dall’Adunanza plenaria circa il fatto che il rito del silenzio potrebbe non essere tempestivamente efficace poiché l’Amministrazione in determinati casi è abilitata dal legislatore ad adottare provvedimenti non ripristinatori ma sanzionatori pecuniari.

A parere della dottrina in esame, «se in determinati casi il legislatore ritiene che possa essere adottato soltanto un provvedimento sanzionatorio pecuniario e non un provvedimento ripristinatorio, il problema non è più di carattere processuale, ma è di carattere sostanziale: in questi casi, il legislatore ha ritenuto che l’interesse pubblico possa essere tutelato mediante una semplice sanzione pecuniaria ed il terzo non può dolersi di alcunché, a meno che non critichi la scelta dell’Amministrazione in ordine all’individuazione del rimedio effettivamente applicabile»30.

Relativamente a tali complessive considerazioni, la dottrina in commento sostiene, quindi, che «le ragioni che l’Adunanza plenaria ha individuato come ostative all’utilizzo dell’istituto del silenzio-rifiuto non sono convincenti»31.

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«Stanti i rilievi che si sono mossi sul punto alla decisione dell’Adunanza plenaria,» si sottolinea, «non può pertanto ritenersi che la scelta del legislatore di individuare il rimedio di cui all’art. 31 del Codice del processo come l’unico esperibile sia scorretta»32.

La dottrina in esame procede, poi, a «valutare se effettivamente il ricorso alla tutela avverso il silenzio sia così negativo per il ricorrente»33.

Essa, tenendo conto delle considerazioni fatte e facendo ricorso al criterio ermeneutico di economicità, «che impone di attribuire ad ogni disposizione il massimo significato utile possibile», giunge alla conclusione per cui «il legislatore, consapevole degli argomenti adottati dall’Adunanza plenaria a sostegno della propria impostazione, abbia ritenuto che il rito del silenzio, applicato ai poteri inibitori dell’amministrazione a seguito di d.i.a. o di s.c.i.a., può condurre ad una pronunzia che, sia pure temporalmente successiva alla scadenza del termine per l’esercizio del potere inibitorio stesso, comporta per l’amministrazione la necessità di valutare la sussistenza dei presupposti per intervenire in via inibitoria ordinaria e cioè non in via di autotutela; in questa fattispecie, perciò, indipendentemente da qualificazioni d’ordine generale, il legislatore, avendo prescritto il ricorso al rimedio avverso il silenzio, ha ritenuto che detto rimedio sia utile, e cioè comporti per il privato ricorrente vittorioso la possibilità di

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pretendere che l’Amministrazione eserciti i suoi poteri inibitori anche se il termine procedimentale ordinario per il loro esercizio sarebbe scaduto. In altre parole, la sentenza sul ricorso ex artt. 31 e 117 del Codice del processo rimette in termini l’amministrazione per l’esercizio del potere inibitorio anche se il termine per l’esercizio del medesimo è già scaduto»34.

«Volendo,» prosegue la medesima dottrina, «può trarsi dalla scelta del legislatore un’ulteriore conseguenza, anche se, per il vero, questa non strettamente necessaria: e cioè che anche nei confronti del potere di autotutela, sia riconosciuta la posizione giuridicamente rilevante del terzo e cioè la posizione di interesse legittimo a che il potere di autotutela sia esercitato. Il rito sul silenzio, infatti, a tenore dell’art. 6 del d. l. n. 138 del 2011, convertito in legge n. 148 del 2011, si applica anche con riferimento all’autotutela, posto che l’autotutela in tema di d.i.a. e di s.c.i.a. è menzionata sempre nel medesimo art. 19 della legge n. 241 del 1990, nel quale l’art. 6 si inserisce»35

.

«Ma questo non è l’unico profilo da valutare, poiché», si sottolinea, «la decisione dell’Adunanza plenaria, come è noto, individua un’ampia gamma di tutela per il privato sia durante la pendenza del termine per l’esercizio del potere inibitorio sia dopo che il termine per l’esercizio del termine inibitorio è scaduto. Quest’ampia possibilità di tutela è rapportata al contenuto della sentenza che il

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giudice amministrativo può pronunciare e che, ricostruito soprattutto con riferimento al disposto dell’art. 34 del Codice del processo, consente di immaginare una possibile azione di accertamento con conseguente condanna dell’amministrazione ad adottare tutti i provvedimenti utili, affinché l’azione di accertamento risulti efficace per il ricorrente e cioè per la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio. È facile, però, a questo punto osservare come,» continua la dottrina in esame, «nello stesso schema di ragionamento seguito dall’Adunanza plenaria, sul punto assolutamente corretto, la tutela di condanna prevista all’art. 34, primo comma, lettera c) del Codice, sia una tutela che si può accompagnare all’azione avverso il silenzio: in questi termini si esprime espressamente l’Adunanza plenaria [...] laddove specifica, dopo avere ribadito che «la domanda di condanna può essere proposta solo contestualmente ad altra azione», che «la domanda tesa ad una pronuncia che imponga l’adozione del provvedimento satisfattorio non è ammissibile se non accompagnata dalla rituale e contestuale proposizione della domanda di annullamento del provvedimento negativo (o del rimedio avverso il silenzio ex art. 31)» »36.

Afferma dunque la presente dottrina: «e in effetti è così: è proprio nell’art. 31, anzi, che la possibilità per il giudice di pronunziarsi sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio è

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ammessa, anche allorché, ed è questa l’ipotesi ordinaria dell’azione avverso il silenzio rifiuto, si è in presenza di un’azione di mero accertamento dell’inadempimento della pubblica amministrazione. L’utilizzazione, cioè, del rimedio avverso il silenzio non riduce la possibilità di tutela del cittadino rispetto a quanto è possibile ottenere nell’azione di impugnazione, ma la equipara totalmente»37

.

«Il Codice, come del resto già il legislatore dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990,» si afferma, «non ha immaginato una riduzione della tutela: è la giurisprudenza che si è rifiutata di utilizzare, sino ad ora, le possibilità di intervento che il legislatore viceversa ha da tempo configurato. Ne consegue che se si fa ricorso, così come impone il legislatore dell’art. 6 del d.l. n. 138 del 2011 convertito in legge n. 148 del 2011, al rito avverso il silenzio di cui agli artt. 31 e 117 del Codice del processo, tutte le conclusioni che l’Adunanza plenaria raggiunge con riferimento alla possibilità per il giudice di intervenire in modo puntuale onde prescrivere all’Amministrazione di attivarsi anche prima della scadenza del termine per l’esercizio dei poteri inibitori o dopo la scadenza di detto termine sono pacificamente utilizzabili. Si capisce che occorre che, ancora una volta, nell’azione avverso il silenzio il giudice ammetta, come del resto è espressamente previsto dall’art. 117 del Codice del processo, la possibilità di conoscere nel giudizio sul silenzio anche i provvedimenti sopravvenuti, cosa che, in passato, la

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giurisprudenza ha escluso, ma senza nessuna valida ragione giustificatrice (l’esigenza di celerità del rito in camera di consiglio sul silenzio era chiaramente inconferente, poiché la celerità del rito non