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Altra parte della dottrina75, contesta l’equiparazione dell’inerzia dell’amministrazione all’implicito diniego, in quanto «non sembra consentire un’efficace risoluzione dei problemi di tutela del terzo».

E non viene considerata decisiva a tal fine, «nemmeno la possibilità, riconosciuta al terzo di esperire un’azione di condanna ad ottenere il provvedimento inibitorio, quantomeno quando oggetto del giudizio sia un atto tacitamente formatosi. Desta inoltre perplessità ammettere l’adozione di misure cautelari in assenza dell’esercizio d’un potere che l’amministrazione può ancora esercitare»76

.

Prima di procedere ad analizzare nel dettaglio gli aspetti critici menzionati, la dottrina in commento decide di formulare preliminarmente alcuni rilievi, che tenderebbero ad escludere che la

74. Cass., Sez. I, 03/03/2001, n. 3132, in www.diritto.it.

75. E. ZAMPETTI, D.I.A. e S.C.I.A. dopo l’Adunanza plenaria n. 15/2011:

la difficile composizione del modello sostanziale con il modello processuale, in Dir. Amm., 4/2011, 810 ss.

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tutela del terzo possa sempre concretizzarsi in un’azione innanzi al giudice amministrativo.

Il primo rilievo riguarda l’art. 133, comma 1, lettera a), del codice del processo amministrativo.

La dottrina, (non mancando di evidenziare che, successivamente alla Adunanza plenaria, l’art. 133, comma 1, lettera a), n. 3, è stato modificato dal d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195, devolvendo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di “silenzio di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3, e provvedimenti espressi adottati in sede di verifica di segnalazione certificata, denuncia e dichiarazione di inizio attività, di cui all’art. 19, comma 6-ter, della legge 7 agosto 1990 n. 241”, laddove l’originaria formulazione dell’art. 133, comma 1, lettera a), n. 3, si limitava a devolvere indistintamente alla giurisdizione esclusiva le controversie in materia di “dichiarazione di inizio di attività”) afferma che la ricostruzione operata dalla plenaria «consente d’ipotizzare che non sempre la giurisdizione amministrativa sia così pacificamente invocabile»77.

«Richiamando l’art. 133, comma 1, lettera a), c.p.a. per affermare la giurisdizione amministrativa sulla controversia sottopostale» ricorda la dottrina in questione, «la Plenaria precisa che l’impugnazione proposta dal terzo sarebbe nel caso di specie

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finalizzata a «far valere l’interesse legittimo leso dal non corretto esercizio del potere amministrativo di verifica della conformità dell’attività dichiarata rispetto al paradigma normativo, nella specie rappresentato dal divieto di aggravio della servitù ai sensi dell’art. 1067 del codice civile». Ancora più chiaramente, in altra parte della sentenza, si afferma che oggetto del giudizio non sarebbe l’accertamento sulla «sussistenza o insussistenza dei presupposti di legge per svolgere l’attività in base a DIA,» bensì l’accertamento sulla «sussistenza o insussistenza dei presupposti per l’adozione dei provvedimenti interdittivi doverosi, e quindi, la fondatezza dell’interesse pretensivo all’uopo azionato dal terzo». Queste precisazioni» si sostiene, «servono a dimostrare che nel caso di specie la controversia non «riguarda quindi un rapporto meramente privatistico» ma si «appunta su un rapporto amministrativo che ha come fulcro il corretto e tempestivo esercizio del potere amministrativo di controllo circa la conformità dell’attività dichiarata al paradigma normativo» »78.

Dunque, prosegue la medesima dottrina, «muovendo da tali premesse la sentenza conclude che «il contenzioso ha come oggetto l’esercizio di un potere pubblicistico finalizzato alla tutela di interessi pubblici, in coerenza con il disposto dell’art. 7, comma 1, del codice del processo amministrativo, che assegna alla giurisdizione del giudice

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amministrativo la cognizione delle controversie concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo», anche se subito dopo, richiamando il principio della doppia tutela, riconosce comunque al terzo la possibilità di contestare la violazione della servitù anche innanzi al giudice ordinario agendo direttamente nei confronti dell’autore della DIA79

»80.

«La pronuncia» sostiene la dottrina, «ha sicuramente il merito di avere meglio precisato l’oggetto dell’accertamento che il giudice amministrativo è chiamato a compiere al cospetto di controversie relative ad attività intraprese in base a DIA. Con maggiore coerenza rispetto alle indicazioni della sentenza n. 204/2004 della Corte costituzionale, l’oggetto dell’accertamento viene adesso individuato nella sussistenza o insussistenza dei presupposti per l’esercizio del potere interdittivo e non più, come in precedenza affermato in alcune pronunce81, nella sussistenza o insussistenza dei presupposti di legge per intraprendere l’attività in base a DIA. La precisazione» sottolinea la dottrina in esame, «è probabilmente destinata a rilevare soltanto sul piano descrittivo, ma intanto evita che possa anche solo ipotizzarsi una

79. Cfr. Adunanza plenaria n. 15 del 2011, cit. Dopo aver esposto le argomentazioni a favore della giurisdizione amministrativa, la sentenza tiene infatti a precisare che «è pur vero che il ricorrente avrebbe potuto contestare direttamente all’autore della DIA la violazione della servitù, ma ciò, in base al noto principio giurisdizionale della doppia tutela, non esclude che egli possa avere invece interesse - legittimo in senso tecnico – a pretendere l’intervento repressivo dell’amministrazione in una più ampia e più efficace prospettiva di tutela degli interessi pubblici coinvolti».

80. E. ZAMPETTI, D.I.A. e S.C.I.A. dopo l’Adunanza plenaria n. 15/2011:

la difficile composizione del modello sostanziale con il modello processuale, cit.

81. Si fa, ad esempio, riferimento alla nota sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 9 febbraio 2009, n. 717 cit.

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cognizione del giudice amministrativo svincolata dal concreto esercizio del potere ed esclusivamente incentrata sulla verifica di meri presupposti di legge»82.

Ad opinione della dottrina in questione, tuttavia, se questo rappresenta un elemento di chiarezza apportato dalla sentenza, «non convince pienamente ritenere sussistente la giurisdizione amministrativa a fronte di una causa petendi che di fatto prospetta la lesione del diritto di proprietà, sebbene sub specie di aggravamento della servitù che su quel diritto insiste. Da quanto può evincersi dalla sentenza della plenaria e dalla decisione di primo grado, l’impugnativa del terzo lamenta la violazione dell’art. 1067 del codice civile, assumendo che la realizzazione delle opere oggetto della DIA determinerebbe un aggravamento della servitù convenzionale gravante sul suo bene, e di conseguenza una lesione del suo diritto di proprietà. Trattasi quindi di una causa petendi che attiene a profili squisitamente civilistici e che riflette il diritto del proprietario di non vedersi limitato nel godimento della proprietà per effetto di comportamenti altrui che aggravino diritti di servitù convenzionalmente costituiti»83.

Per spiegare meglio la questione, la dottrina in esame prende come modello di riferimento, il generale potere autorizzatorio- concessorio dell’amministrazione.

82. E. ZAMPETTI, D.I.A. e S.C.I.A. dopo l’Adunanza plenaria n. 15/2011:

la difficile composizione del modello sostanziale con il modello processuale, cit.

83. E. ZAMPETTI, D.I.A. e S.C.I.A. dopo l’Adunanza plenaria n. 15/2011:

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Essa sottolinea come «muovendo dal significato giuridico della clausola di salvezza dei diritti dei terzi, comunemente apposta alle concessioni edilizie, parte della giurisprudenza84 ha più volte affermato che l’amministrazione, all’atto di autorizzare un intervento edilizio, non è in generale tenuta ad accertare l’esistenza di eventuali terze pretese fondate su norme civilistiche o su limiti negozialmente imposti, dovendo piuttosto circoscrivere il suo potere di controllo agli aspetti specificamente urbanistici ovvero alle norme poste per la preminente tutela dell’interesse pubblico alla corretta edificazione ed utilizzo del territorio. Non pare allora coerente con tali affermazioni» prosegue la medesima dottrina, «configurare in capo al terzo leso dal provvedimento ampliativo un interesse legittimo a che l’amministrazione si faccia carico di verificare se i lavori da assentire violino dei limiti negozialmente imposti, quali potrebbero risultare anche quelli derivanti da una servitù convenzionale. Per contro, l’interesse legittimo del terzo sussiste pacificamente con riferimento agli accertamenti dell’amministrazione che abbiano ad oggetto la compatibilità dell’intervento con le norme urbanistico-edilizie specificamente poste a tutela dell’interesse pubblico. In base a tali rilievi sembrerebbe pertanto necessario, proprio in ragione del principio di doppia tutela invocato anche dalla plenaria, che il terzo si rivolga al giudice ordinario in tutte quelle ipotesi in cui la causa

84. In tal senso ad esempio Cons. di Stato, Sez. IV, 26/05/2006, n. 3201, in

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petendi della sua azione sia incentrata sulla violazione di norme poste prevalentemente a tutela del suo diritto di proprietà e, al giudice amministrativo, nelle diverse ipotesi in cui la violazione riguardi norme che, in quanto poste a preminente tutela dell’interesse pubblico, devono necessariamente guidare il potere di controllo dell’amministrazione»85

.

Afferma la dottrina in esame: «alle medesime conclusioni in ordine al riparto di giurisdizione potrebbe probabilmente pervenirsi anche in applicazione della teorica delle norme di azione e delle norme di relazione86»87.

«Come noto,» prosegue la medesima dottrina, «distinguendo le norme in, norme di azione e norme di relazione, la teorica in esame reputa le prime dettate dalla prevalente considerazione dell’interesse pubblico in quanto propriamente dirette a disciplinare l’esercizio dei pubblici poteri, mentre le seconde dettate per disciplinare i rapporti tra cittadino e amministrazione. Da tale distinzione si fa derivare il criterio per individuare quando di volta in volta ci si trovi di fronte ad un diritto soggettivo ovvero ad un interesse legittimo. Se la posizione giuridica del privato riceve la sua qualificazione da una norma d’azione, essa avrà la consistenza di un interesse legittimo, come tale

85. E. ZAMPETTI, D.I.A. e S.C.I.A. dopo l’Adunanza plenaria n. 15/2011:

la difficile composizione del modello sostanziale con il modello processuale, cit.

86. Elaborata da E. GUICCIARDI (Giustizia amministrativa, Padova, 1957) e portata ad ulteriore svolgimento da A. ROMANO (Giurisdizione amministrativa e

limiti della giurisdizione ordinaria, Milano, 1975).

87. E. ZAMPETTI, D.I.A. e S.C.I.A. dopo l’Adunanza plenaria n. 15/2011:

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tutelabile solo in funzione di un preminente interesse pubblico che con essa venga leso; se la posizione giuridica del privato riceve invece la sua qualificazione da una norma di relazione, essa avrà la consistenza di un vero e proprio diritto soggettivo, come tale autonomamente tutelabile rispetto alle sorti dell’interesse pubblico: nel primo caso, giudice competente a conoscere della lesione dell’interesse pubblico, e con esso dell’interesse legittimo del privato, sarebbe il giudice amministrativo; nel secondo caso, il giudice ordinario»88.

«Calando la teoria nelle nostre relazioni,» sostiene la dottrina in esame, «si può osservare che, al di là della generale difficoltà di distinguere nella pratica una norma d’azione da una norma di relazione, laddove la posizione del terzo pregiudicata da un provvedimento ampliativo ricevesse qualificazione da una norma di relazione ( quale potrebbe essere nel nostro caso l’art. 1067 c.c.), il terzo pregiudicato dalla concessione dovrebbe rivolgersi al giudice ordinario. Diversamente, si dovrebbe rivolgere al giudice amministrativo nei casi in cui la propria posizione ricevesse qualificazione soltanto da norme d’azione (quali ad esempio potrebbero essere le norme poste a preminente tutela del concreto interesse pubblico alla corretta edificazione del territorio)»89.

88. E. ZAMPETTI, D.I.A. e S.C.I.A. dopo l’Adunanza plenaria n. 15/2011:

la difficile composizione del modello sostanziale con il modello processuale, cit.

89. E. ZAMPETTI, D.I.A. e S.C.I.A. dopo l’Adunanza plenaria n. 15/2011:

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La dottrina in commento riporta, poi, una critica mossa alla suddetta ricostruzione, in base alla quale non sempre sarebbe agevole distinguere le due tipologie di norme90 e che, comunque, sarebbe difficilmente compatibile con il principio di effettività della tutela affermare la giurisdizione ordinaria anche nelle ipotesi in cui il terzo abbia tempestivamente impugnato innanzi al giudice amministrativo il provvedimento ampliativo, sia pur deducendo la violazione di norme poste prevalentemente a tutela del suo diritto di proprietà.

Proseguendo il proprio ragionamento, la dottrina in commento ammette che «un’interpretazione estensiva del principio di doppia tutela potrebbe in effetti anche indurre a mantenere la giurisdizione in capo al giudice amministrativo. Quali che siano i vizi dedotti si farebbe sempre questione dell’esercizio d’un potere che, autorizzando un intervento edilizio altrimenti non praticabile, avrebbe leso la posizione giuridica del terzo»91.

Tuttavia, sostiene la stessa dottrina, «alle stesse conclusioni non pare potersi pervenire con riferimento alle ipotesi in cui l’attività asseritamente lesiva per il terzo venga intrapresa in base al modello

90. E’ la critica nei confronti della teorica delle norme di azione-relazione (così ad esempio F. SATTA, Giurisdizione ordinaria e cognizione diretta del

provvedimento, in Riv. Trim. dir. proc. civ., 1965, 575 secondo il quale l’anzidetta

teorica «non aiuta più delle altre formule precedentemente elaborate a distinguere quando, in un caso concreto, vi sia giurisdizione ordinaria o giurisdizione amministrativa, ovvero diritto soggettivo o interesse legittimo, essendo lasciato all’interprete attributire alla norma la qualificazione di azione o di relazione, così come le precedenti dottrine lasciavano a lui il compito di valutare l’intensità della tutela»; analogamente, M. S. GIANNINI, La giustizia amministrativa, Roma, 1960, 90 ss.

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della DIA, secondo il quale, come noto, l’attività non deve essere preventivamente autorizzata dall’amministrazione in quanto già direttamente consentita dalla legge. Mancando qui il provvedimento autorizzatorio, l’interesse legittimo del terzo si correla unicamente al potere inibitorio ovvero repressivo-sanzionatorio, successivo alla presentazione della DIA, ed il terzo dovrà limitarsi a contestare i presupposti per l’esercizio di quel potere. Tra i quali» si afferma, «sia che si mutuino i limiti del generale potere autorizzatorio sia che si consideri nello specifico la disciplina recata nell’articolo 19 cit., difficilmente può annoverarsi il dovere di verificare la sussistenza di pretese di terzi fondate su norme civilistiche o limiti negozialmente imposti. Ne deriva che se il terzo, come sembra accadere nel caso di specie, modella la propria azione su presupposti in realtà estranei all’esercizio del potere inibitorio o repressivo-sanzionatorio, unico potere al cospetto del quale vanta un interesse legittimo92, vuol dire che ciò che sta contestando non è il potere, ma l’attività del privato direttamente consentita dalla legge nella misura in cui arreca lesione al proprio diritto93. E’ per questo che in tali specifiche ipotesi, assimilabili al caso oggetto della Plenaria, la giurisdizione dovrebbe essere del giudice ordinario e non del giudice amministrativo. Fermo

92. E’ questa, afferma E. ZAMPETTI, la posizione anche della Adunanza plenaria quando afferma: «il terzo pregiudicato dallo svolgimento dell’attività denunziata è titolare di una posizione qualificabile come interesse pretensivo all’esercizio del potere di verifica previsto dalla legge»

93. L’Autore su ciò, invita a confrontare i rilievi di L. FERRARA, Dia (e

silenzio assenso) tra autoamministrazione e semplificazione, in Dir. amm., 2006,

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restando che il terzo, in virtù del principio di doppia tutela invocato dalla Plenaria, potrebbe sempre rivolgersi al giudice amministrativo contestando l’esercizio del potere inibitorio, ovvero repressivo- sanzionatorio, in relazione ai suoi specifici presupposti94»95.

Successivamente all’analisi sulla giurisdizione, la dottrina in esame si concentra sulla ricostruzione operata dall’Adunanza plenaria relativamente al decorso del termine assegnato all’amministrazione per l’esercizio del potere inibitorio, da intendere, a parere del giudice amministrativo, come conclusione tacita, negativa del procedimento amministrativo finalizzato all’adozione del divieto.

A detta di questa dottrina, tuttavia, l’equiparazione dell’inerzia all’implicito diniego di esercitare il potere inibitorio non convincerebbe sotto più profili.

«Un primo profilo» sottolinea la dottrina in commento, «richiede il confronto con il modello generale del silenzio significativo. Presupposto perché possa configurarsi il silenzio assenso o il silenzio rigetto è che il privato abbia formulato un’istanza

94. Con specifico riferimento ai profili esaminati, l’Autore sostiene che « la nuova formulazione dell’art. 133, comma 1, lettera a), n. 3, come introdotta dal d.lgs. n. 195/2011, confermi che il giudice amministrativo può conoscere solo delle controversie che riguardano l’esercizio del potere esercitato dall’amministrazione a fronte di una dichiarazione di inizio attività o di una segnalazione certificata di inizio attività. La previsione secondo cui al giudice amministrativo sono devolute le controversie in materia di “silenzio di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3, e provvedimenti espressi adottati in sede di verifica di segnalazione certificata, denuncia e dichiarazione di inizio attività, di cui all’art. 19, comma 6-ter, della legge 7 agosto 1990, n. 241” rivela chiaramente la volontà di circoscrivere la giurisdizione amministrativa alle ipotesi in cui venga in rilievo l’esercizio (o il mancato doveroso esercizio) del potere».

95. E. ZAMPETTI, D.I.A. e S.C.I.A. dopo l’Adunanza plenaria n. 15/2011:

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all’amministrazione finalizzata alla soddisfazione di uno specifico interesse. Se tale istanza non viene formulata l’amministrazione non è tenuta a provvedere, così che nemmeno può porsi la questione di equiparare l’inerzia al provvedimento esplicito che si sarebbe dovuto adottare. Rimanendo nel campo del silenzio rigetto, gli esempi riguardano le ipotesi del ricorso gerarchico (art. 6, d.P.R. n. 1199/1971), del diritto di accesso (art. 25, comma 4, l. n. 241/1990), della sanatoria per accertamento di conformità (art. 36 d.P.R. n. 380/2001). In tutti questi casi» si sottolinea, «la legge riconosce all’inerzia mantenuta dall’amministrazione sull’istanza del privato il valore d’un provvedimento di rigetto della domanda. La domanda del privato si configura quale elemento costitutivo della fattispecie (del) silenzio significativo, coerentemente al principio, logico prima ancora che giuridico, secondo cui l’oggetto della decisione implicita deve coincidere con l’oggetto della richiesta. Per contro, la disciplina recata nell’art. 19 l. n. 241/1990 non contempla alcuna richiesta del privato finalizzata all’esercizio del potere inibitorio. Attraverso la dichiarazione d’inizio attività, il denunciante si limita a comunicare all’amministrazione l’intenzione di svolgere una determinata attività, senza che tale comunicazione sia accompagnata da un’istanza volta a sollecitare l’esercizio del potere inibitorio. L’esercizio del potere di controllo, e quindi dell’eventuale potere inibitorio» prosegue la dottrina, «è imposto dalla legge, nel caso in cui venga accertata l’insussistenza dei requisiti per intraprendere l’attività. Vero è che il

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terzo potrebbe anche sollecitare l’esercizio del potere inibitorio, ma in tal caso non è scontato che l’amministrazione sia tenuta a rispondere alla sollecitazione, anche in base all’orientamento giurisprudenziale che reputa il terzo estraneo alle dinamiche del potere inibitorio. La possibilità che sia il terzo a richiedere l’esercizio del potere inibitorio non viene peraltro presa in considerazione della Plenaria e non è pertanto idonea a giustificarne le conclusioni»96.

La dottrina continua il suo ragionamento, puntando l’attenzione sul fatto che «l’equiparazione dell’inerzia ad un diniego implicito non può a priori giustificarsi nemmeno ritenendo perentorio il termine per l’esercizio del potere inibitorio. […] è noto che una parte della giurisprudenza97 formatasi in materia di ricorsi amministrativi non

96. E. ZAMPETTI, D.I.A. e S.C.I.A. dopo l’Adunanza plenaria n. 15/2011:

la difficile composizione del modello sostanziale con il modello processuale, cit.

97. L’Autore ricorda che «la formulazione dell’art. 19, l. n. 241/1990 anteriore alla riforma del 2005 precisava espressamente, al contrario di quanto accade per la formulazione della norma come modificata nel 2005, la perentorietà del termine per l’esercizio del potere inibitorio-conformativo. Anche a seguito degli interventi legislativi del 2005, parte della giurisprudenza continua tuttavia a reputare perentorio il termine per l’esercizio del potere inbitorio e a ritenere conseguentemente la tutela del terzo possibile soltanto nei confronti del potere repressivo-sanzionatorio (così ad esempio T.A.R. Campania, Napoli, Sez. IV, 22/02/2006 – 27/03/2006, n. 3200, in www.giustizia-amministrativa.it). Parte della dottrina reputa invece che, a seguito della riforma del 2005, il termine per l’esercizio del potere inibitorio-conformativo non debba più considerarsi perentorio in ragione della previsione dell’articolo 19 secondo cui “è fatto comunque salvo il potere

dell’amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela ai sensi degli articoli 21-quinques e 21-nonies” (v. A. TRAVI, La d.i.a. e la tutela del terzo: fra pronunce del g.a. e riforme legislative del 2005, in Urb. app., 2005, 1337;

W. GIULIETTI, Attività privata e potere amministrativo. Il modello della

dichiarazione di inizio attività, Torino, 2008, 187; F. GAFFURI, La denuncia di inizio attività dopo le riforme del 2005 alla l. n. 241/1990: considerazioni sulla natura dell’istituto, in Dir. amm., 2007, 400; secondo tale prospettiva,

successivamente alla scadenza del termine di trenta giorni, l’amministrazione potrebbe ancora esercitare il potere inibitorio-conformativo rispondendo tuttavia ai presupposti dell’autotutela, nella considerazione dell’affidamento del dichiarante). Perplessità sull’esercitabilità del potere inibitorio senza limiti di tempo sono espresse da E. SCOTTI, Denuncia d’inizio attività e processo amministrativo: verso nuovi