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Cope e la concezione ortogonale della macroevoluzione

2. La legge del parallelismo e la macroevoluzione La scuola americana affonda le sue radici negli studi tassonomici che

2.2 Cope e la concezione ortogonale della macroevoluzione

Il 19 ottobre del 1866 Edward Drinker Cope presentò all’American Philo- sophical Society una comunicazione sulla famiglia dei Ciprinidi giungendo a conclusioni molto vicine a quelle di Hyatt. Le tesi del paleontologo furono

pubblicate due anni più tardi nel saggio On the Origin of Genera (1868), pri- mo compendio teorico delle argomentazioni anti-darwiniane che ricorreran- no per anni nella tradizione statunitense.

Per Cope, la principale fragilità del ragionamento di Darwin risiedeva nel presupporre che livelli tassonomici diversi fossero soggetti alla stessa leg- ge del cambiamento. Agli occhi del sistematico, i generi presentavano tratti distribuiti secondo criteri indipendenti da quelli che agiscono a livello di specie1. La selezione naturale offriva senza dubbio una spiegazione efficace

alla conservazione dei tratti che garantiscono l’adattamento nelle specie. Tut- tavia i caratteri che definiscono generi o famiglie raramente sono adattativi e invocare la selezione naturale per spiegarne l’origine rappresentava un vero e proprio non senso (E.D. Cope 1868).

Come Hyatt, Cope individuò la vera causa della macroevoluzione nell’on- togenesi. L’origine di nuovi generi fu ricondotta alla comparsa di nuovi stadi embrionali, i quali, in un secondo momento, potevano subire adattamenti “trasversali” capaci di presentarsi anche più volte nel corso delle traiettorie macroevolutive. Il vero motore dell’evoluzione era dunque lo sviluppo, duran- te il quale l’organismo, senza un preciso scopo adattativo, acquisiva o perdeva tratti seguendo il piano disposto dal Creatore. Tale tesi manteneva saldo il legame con la tradizione “formalista”, secondo cui gli adattamenti rappresen- terebbero semplici deviazioni dal Bauplan fondamentale (P.J. Bowler 1977; Gould 2002, p. 350). Lo stesso Agassiz encomiò Cope per aver chiarito meglio di chiunque altro la distinzione epistemologica e ontologica fra tratti generici e specifici:

Sono felice di constatare che tu abbia riconosciuto l’appartenenza di caratteri specifici e generici a diverse categorie di struttura. Credo di non ricordare un servigio migliore alla zoologia del rimarcare questa differenza eppure credo tu sia il primo naturalista ad accorgersene (Agassiz - Cope 5/2/1869, HCLSC).

Almeno in questa fase, la legge dell’accelerazione rappresentava il perno dell’intera spiegazione evoluzionistica di Cope. A differenza di Hyatt, per il paleontologo di Filadelfia il cambiamento nei tempi di sviluppo poteva tutta- via svolgersi in due modi: accelerando nel caso vi fossero tratti da aggiungere o rallentando di fronte a una perdita di tratti. Se dunque Hyatt considerava la

degenerazione filetica come conseguenza dell’accelerazione universale, Cope riconduceva la regressione evolutiva al rallentamento nello sviluppo. Forse, fu anche in virtù di questa differenza che egli tentò più volte di rivendicare l’originalità della propria teoria rispetto a quella del collega di Boston (E.D. Cope 1896a, pp. 7–8). La sua formulazione e quella di Hyatt rappresentavano esiti separati di uno stesso ragionamento (Packard 1903, p. 722)2.

L’evoluzione era dunque un percorso scandito da aggiunte e perdite nei percorsi di sviluppo grazie ai quali gli organismi raggiungevano livelli ge- nerici successivi. La natura di tali balzi ontogenetici restava tuttavia vaga e lo stesso Cope offrì pochi chiarimenti a riguardo. Nel saggio del 1868, le modi- ficazioni di livello generico sono descritte come il raggiungimento di soglie, definite “expression point”, simili alle transizioni chimico-fisiche fra stati della materia (Cope 1868, p. 270). L’uomo stesso aveva preso parte a questa marcia progressiva, e il suo tratto maggiormente distintivo, l’intelligenza, poteva es- sere considerato come il frutto di un unico e straordinario salto ontogenetico.

Questa concezione comportava tuttavia una serie di complicazioni teori- che. A differenza dalla concezione filogenetica darwiniana, dove nuovi gruppi tassonomici nascevano tramite divergenza graduale da una specie originaria, per Cope un nuovo genere non rappresentava altro che l’insieme di tutte le specie che avevano raggiunto lo stesso gradino dello sviluppo. Di fatto, ogni genere rappresentava un insieme di linee filetiche parallele, in ciascuna delle quali potevano manifestarsi salti ontogenetici simili seguendo il piano prede- terminato da Dio (Bowler 1977, p. 280). Almeno al livello macroevolutivo, tale visione filogenetica riproponeva la nozione di ramificazione e divergenza, poiché ogni serie di generi, per quanto costituita da linee indipendenti, rap- presentava un ramo del piano creativo. Almeno da questo punto di vista, la visione filogenetica di Cope manteneva una certa continuità concettuale con il modello darwiniano.

Si trattava, tuttavia, di una somiglianza poco più che superficiale, proprio perché, se da un lato Darwin aveva considerato microevoluzione e macro- evoluzione parte dello stesso explanandum, Cope, difendendo la distinzione tipologica fra caratteri generici e specifici, aveva separato nettamente i due livelli d’analisi. Nel suo modello evolutivo, le specie potevano letteralmente

2 Hyatt scrisse a Darwin nel 1872: «My relations with Prof. Cope are of the most friendly character;

and although fortunate in publishing a few months ahead, I consider that this gives me no right to claim anything beyond such an amount of participation in the discovery» (C.R. Darwin 1887a, p. 339).

transitare fra i generi senza perdere i propri caratteri specifici (Cope 1868, p. 300). Tale concezione fu illustrata negli anni successivi con il seguente schema:

A

1

A

2

A

3

B

1

B

2

B

3

C

1

C

2

C

3

In questa rappresentazione, A, B e C descrivono tre diversi livelli generici mentre gli esponenti indicano le varie specie interne ai generi. A fronte di somiglianze specifiche separate da differenze generiche fondamentali (come ad esempio nella serie immaginaria A1 B1 C1) Cope, invece di teorizzare

un’acquisizione separata dello stesso carattere specifico in generi diversi, con- cluse che una specie di un genere (A1)potesse discendere da una di un altro

genere inferiore (B1) e che dunque le diverse specie di un genere (A1 A2 A3)

non condividevano necessariamente un’origine comune ( J.J. Murphy 1879, p. 201). Nell’Origin of Genera questo modello viene applicato più volte. Il genere di lucertole Celestus, scriveva Cope, conta al suo interno varie specie. Molte di esse, fra cui C. phoxinus di Haiti, presentano una forte somiglianza con le specie appartenenti al genere Panolopus (più di quanto siano somi- glianti fra loro le stesse specie di Celestus), se non fosse che fra esse esiste un salto generico fondamentale, e cioè la perdita delle dita.

Interpretazioni di questo tipo mostrano, in tutta la loro distanza dalle concezioni filogenetiche moderne, quanto i metodi e i vincoli operativi della sistematica dell’epoca incanalarono le osservazioni di Cope. Letta in chiave evoluzionistica, la distinzione ontologica fra caratteri generici e specifici die- de vita a una visione ortogonale dell’evoluzione fatta di gradini verticali e adattamenti locali (Gould 1977, 2002). Ciò non riguardava semplicemente i generi, ma anche i livelli tassonomici più elevati. Cope sostenne infatti l’esi- stenza di «serie omologhe», ovvero categorie tassonomiche che, al di sopra del livello generico, presentavano rapporti interpretabili gerarchicamente secon- do la legge del parallelismo (Cope 1866, pp. 101–102, 1868, pp. 280–281). Ciò avveniva ad esempio fra scimmie Platirrine e Catarrine, dove le prime presentavano uno stadio embrionale dell’osso timpanico che veniva superato dalle Catarrine. Generalmente, scriveva Cope nelle ultime pagine del suo saggio, condizioni di sviluppo inferiore erano più diffuse nelle aree tropicali. Ne era ad esempio dimostrazione la diffusione di mammiferi non placentati

nell’emisfero australe, o i cervi sudamericani che, a differenza dei corrispettivi settentrionali, presentavano palchi più semplici (Cope 1868, pp. 294–298).

2.3. La normalizzazione della cenogenesi: prodromi di una concezione