4. L’evoluzione ortogenetica negli anni dell’eclissi del darwinismo
4.1 Scott, Osborn e l’omoplasia come “omologia latente”
Prima ancora di avanzare ipotesi sui fattori responsabili del cambiamento evolutivo, Cope e Hyatt avevano mostrato che l’evoluzione di diversi grup- pi tassonomici, sia vertebrati che invertebrati, aveva seguito un andamento parallelo e, apparentemente, lineare. Per Scott e Osborn fu dunque necessa-
rio ripartire da questo explanandum e, in particolare, dal tema del paralleli- smo. L’omoplasia era un fatto incontestabile che dominava la storia evoluti- va e Cope era stato fra i primi naturalisti a sottolinearne la centralità (H.F. Osborn 1909, p. 8). In mancanza di prove sperimentali dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti, e considerando la scarsa plasticità di molte strutture ossee, la cinetogenesi non poteva tuttavia esserne la causa, il che rendeva necessario elaborare una diversa soluzione teorica.
La ricerca di una terza via fra neo-darwinismo e neo-lamarckismo si ma- terializzò sottotraccia nei lavori di Scott e Osborn degli anni ’90. Già nel 1891, Scott avrebbe evidenziato l’errata polarizzazione fra omoplasia e omo- logia, ripristinando il significato originario della formulazione di Lankester (Gould 2002). Vi era una distinzione sostanziale fra parallelismo e conver-
genza, ovvero fra «l’acquisizione indipendente di strutture simili in forme
strettamente imparentate» e le somiglianze in organismi non direttamente imparentati che «arrivano a essere più simili di quanto lo fossero i loro pro- genitori» (W.B. Scott 1896, p. 185). Escludendo la selezione naturale e le variazioni ontogenetiche ereditarie, quale meccanismo poteva determinare la comparsa di strutture simili in gruppi distinti? Scott, che nel suo viaggio di formazione in Europa aveva studiato a Heidelberg alla scuola dell’anato- mista Karl Gegenbaur, trovò la risposta nei lavori del paleontologo tedesco Wilhelm H. Waagen (1841-1900) (Scott 1894).
W.H. Waagen (1869) aveva evidenziato la direzionalità delle sequenze fossili e, soprattutto, il loro procedere in modo apparentemente indipendente rispetto alle circostanze ambientali. Esaminando l’evoluzione parallela del- le ammoniti fra India ed Europa ipotizzò che in questi organismi esistesse una tendenza a variare gradualmente verso una data direzione a prescindere dalle condizioni ambientali (Bowler 1983, p. 163). Nel corso degli anni, la nozione di variazione lineare sarebbe stata messa a tema da numerose auto- rità scientifiche in Germania. Nel 1893, lo zoologo Wilhelm Haacke (1855- 1912) ricondusse la direzionalità delle variazioni alle stesse caratteristiche strutturali del germoplasma e, in particolare, alle combinazioni possibili fra le sue unità geometriche fondamentali (Gemmaria). Haacke definì tale pro- cesso come “ortogenesi”, termine che lo zoologo Theodor Eimer (1843-1898) avrebbe reso popolare pochi anni più tardi (P.J. Bowler 1979).
Il fermento in Germania intorno al concetto di variazione lineare cataliz- zò l’attenzione di Scott. Forse i lavori di Waagen avevano rivelato una terza via per conciliare direzionalità filetica e variazionale preservando l’immagine
L’evoluzione ortogenetica negli anni dell’eclissi del darwinismo
di un’evoluzione graduale e smarcandosi dalle difficoltà del funzionalismo. L’idea che esistesse una qualche «predestinazione» nel materiale ereditario sarebbe stata ipotizzata di lì a poco anche da Osborn (1895, p. 433), il quale optò inizialmente per l’espressione «variazione potenziale». Seguendo i passi di Scott, Osborn disambiguò termini quali “parallelismo”, “omologia”, “con- vergenza” e “omoplasia”. Nella categoria di analogia dovevano essere incluse tutte quelle somiglianze dovute ad adattamenti funzionali che insorgeva- no sia in gruppi filogeneticamente separati (convergenza), sia, come aveva chiarito Scott, in quelli lontanamente imparentati (parallelismo). Rispetto a questi fenomeni, l’omoplasia di Lankester rappresentava una forma di somi- glianza analogica favorita dalla condivisione di strutture omologhe e da un piano ereditario condiviso. Del resto, lo stesso zoologo inglese aveva ricolle- gato l’omoplasia all’interazione fra forze ambientali e «homogenous parts» o «likeness of material» (H.F. Osborn 1902a, p. 265).
La revisione del concetto di omoplasia apriva un nuovo capitolo nella spiegazione di numerose sequenze fossili, a partire dall’evoluzione dei denti nei mammiferi. Inizialmente, i discendenti dei mammiferi con i molari supe- riori a tre coni dovevano aver sviluppato coni “omologhi” poiché direttamente imparentati con tali progenitori. I coni aggiuntivi dei mammiferi comparsi nella radiazione di famiglie e ordini diversi rappresentavano invece un chiaro esempio di omoplasia per omologia latente, riconducibile alla lontana omo- logia con il tipo tritubercolare (Osborn 1902a, pp. 268–269). Strutture simili potevano dunque nascere dalla condivisione di uno stesso bagaglio ereditario, il che sembrava dimostrare, prima facie, che la variabilità corresse lungo binari predeterminati. Non mancarono tuttavia le critiche nei confronti di questa interpretazione. Nella sua corrispondenza con Osborn, lo stesso Lankester accusò il paleontologo di aver indebitamente sovrapposto l’espressione «like- ness of material» al concetto di omologia1.
Osborn riconobbe il suo errore, ma rimase convinto che il parallelismo fosse dovuto a un «piano ereditario condiviso» (Osborn 1902a, p. 229). Sot- toposte a nuove pressioni ambientali, le popolazioni divergevano dal tipo pri- mitivo con linee di specializzazione divergenti (radiazione adattativa). Quan- do tuttavia i discendenti delle specie così prodotte incontravano condizioni ambientali simili, il loro bagaglio ereditario condiviso reagiva manifestando le stesse variazioni, rimaste latenti fino allora. Questo fenomeno, in un certo
1 «I expressively say homogeneous parts or parts which for other reasons offer a likeness of mater-
senso, ristabiliva l’ordine nella filogenesi, che andava man mano sfumando in sequenze di linee parallele.
Per alcuni versi, Osborn e Scott avrebbero spinto la concezione polifiletica dell’evoluzione oltre Cope. Questo soprattutto in conseguenza del metodo di classificazione utilizzato. Se Cope si era avvalso degli strumenti classici dell’anatomia comparata cuvieriana, Scott e Osborn adottarono un sistema di classificazione «verticale» fondato sull’idea di una più profonda dissociabilità dei tratti morfologici. In questo modo, le specie venivano separate in linee di discendenza distinte anche in presenza della minima differenza fenotipica (Osborn 1902b; Rainger 1991, pp. 40–41).