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Mente e movimento nello psico-lamarckismo di Cope

3. Il neo-lamarckismo americano Gli storici hanno spesso evidenziato quanto il dibattito post-darwiniano

3.1 Mente e movimento nello psico-lamarckismo di Cope

Il 1871 fu una data cruciale nella storia dell’evoluzionismo statunitense. Nei saggi The Laws of Organic Development e The Method of Creation of Or-

ga nic Forms, pubblicati a distanza di pochi mesi, Cope avrebbe manifestato

una prima apertura verso i principi dell’uso e del disuso delle parti e dell’eredi- tarietà dei caratteri acquisiti, inaugurando una soluzione teorica che negli anni successivi avrà grande popolarità fra i paleontologi e gli embriologi americani.

In molti si sono interrogati sulle ragioni di questo riorientamento teorico. C’è chi ha suggerito che Cope non ritenesse più accettabile ricondurre al Cre- atore la comparsa di tendenze evolutive (Bowler 1977). Visto in quest’ottica, il lamarckismo apparirebbe come un explanans introdotto al fine di supera- re le debolezze di un evoluzionismo teistico ancora invischiato con fattori soprannaturali e inesplicabili (Continenza 1999, p. 83). Osborn (1931, p.529) ha ricollegato la svolta lamarckiana di Cope all’influenza di Herbert Spencer, presumibilmente riferendosi al riconoscimento che lo stesso Cope aveva tributato ai Principles of Biology (1864) nella prefazione di The Origin

of the Fittest (1887a, pp. VIII–IX). Di fatto, però, nonostante Spencer avesse

evidenziato la centralità dei principi dell’uso e del disuso e dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti riscuotendo grande successo in America (Ceccarelli 2013), nei lavori pubblicati da Cope fra il 1868 e il 1871 non esistono chiari riferimenti alle ipotesi spenceriane (Bowler 1983, p. 123).

Quasi certamente non fu la lettura di Lamarck a ispirare Cope. Egli stesso negò di aver letto l’opera di J.B. Lamarck (1744-1829) prima della stesura di

The Laws of Organic Development (Cope 1887a, p. 423). E proprio nel 1871

avrebbe specificato che gli unici resoconti del lamarckismo a lui noti era- no quelli nell’Origin of the Species di Darwin e nella Chambers’s Encyclopedia (E.D. Cope 1871b, p. 262).

Nei saggi del 1871, Cope ribadì che il motore dell’evoluzione era da ricer- carsi nello sviluppo e, in particolare, nella «forza di crescita» (bathmism) che guidava la differenziazione cellulare. La costruzione degli organi nell‘on- togenesi seguiva una sequenza ben precisa, riconducibile all’ordine con cui gli antenati avevano acquisito i loro caratteri nell’adattamento all’ambiente (Cope 1871a, p. 602).1 Il comportamento a scopo adattativo diveniva a questo

punto la vera causa dell’accelerazione e del ritardo dello sviluppo e molte delle relazioni filogenetiche descritte come “omologhe” nel 1868 furono riconsi de- rate alla luce dell’azione convergente di identiche «leggi» dell’adattamento (Cope 1871b, p. 263). La concezione ortogonale dell’evoluzione dell’Origin

of Genera sfumava improvvisamente in un modello che, pur continuando a

distinguere sul piano epistemologico e ontologico tratti generici e specifici, si allineava alla classica tematizzazione adattazionista (Bowler 1977; Gould 1977, 2002).

Cope era conscio che un elevato ricorso ad argomenti adattazionisti po- tesse ritorcergli contro le obiezioni da lui stesso sollevate pochi anni prima contro le interpretazioni funzionaliste della macroevoluzione. Dopotutto, come dimostravano i lavori di Hyatt sui Tetrabranchiati, le sequenze fossili testimoniavano spesso la presenza di tratti non adattativi. Egli stesso sotto- lineò, commentando il saggio del 1868: «l’esistenza di un grande numero di caratteri non adattativi mi indusse a credere nel contrasto fra due leggi [Se-

1 Cope introdusse il meccanismo dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti facendo riferimento agli

scritti di Joseph John Murphy, studioso di Belfast e autore dell’opera pubblicata in due volumi

Habit and Intelligence (1869). Murphy aveva di fatto offerto un’ampia disamina del cosiddetto

principio degli “abiti acquisiti” rifacendosi alle sue più classiche tematizzazioni nell’ambito della psicologia fisiologica anglosassone, J.J. Murphy 1869, p. 175.

lezione Naturale e Accelerazione e Ritardo]» (Cope 1871b, p. 263). Questa valutazione, ammetteva ora, era stata il risultato di un equivoco, giacché la degenerazione poteva dipendere più verosimilmente dalla distribuzione non omogenea della forza di crescita (Cope 1871b, p. 252) o, molto più spesso, dalla sovra-specializzazione. Acquisendo strutture e comportamenti sempre più specializzati, gli organismi andavano infatti incontro a una perdita di plasticità e, dunque, all’estinzione. La sovra-specializzazione generava i vicoli ciechi dell’evoluzione, il che legittimava un’inferenza di grande valore euristi- co per il paleontologo: i punti di snodo della filogenesi dovevano corrispon- dere necessariamente a forme con un grado medio di specializzazione.

Per tutta la sua produzione, Cope ricondusse l’origine delle abitudini ac- quisite e del movimento reiterato (kinetogenesis) a un principio eminente- mente psicologico definito, almeno inizialmente, «volontà» (Cope 1871a, p. 604). Per essere acquisite, le abitudini dovevano passare necessariamente per uno stato di coscienza, il quale si dava con varie gradazioni di complessità, dai protozoi (Cope 1871b, p. 257–258) agli animali capaci di esibire «scelte intelligenti» (Cope 1871a, p. 604). Con il passare del tempo la riflessione sul- la dimensione psicologica dell’evoluzione costrinse il paleontologo a entrare nel merito di questioni squisitamente filosofiche che lo trascinarono nella disputa metafisica sulla mente.

Cope avrebbe localizzato l’origine dei movimenti «consci» nella parte an- teriore del cervello. Qui, in seguito alla sua registrazione nell’area posteriore degli emisferi, «l’energia» verrebbe «deviata» in funzione di uno scopo (E.D. Cope 1887b, p. 13), il che rendeva la mente il primum movens dell’evoluzione. La “coscienza” rappresentava una capacità fondamentale condivisa da tutti gli esseri viventi a prescindere dal loro sistema nervoso (E.D. Cope 1880, p. 261). La comparsa di funzioni mentali complesse era andata senza dubbio di pari passo con l’evoluzione, tuttavia vi erano proprietà del sensorio consu- stanziali alla vita stessa (E.D. Cope 1877, p. 872). Pur essendo ragionevole immaginare che le azioni consce emergessero originariamente da compor- tamenti trial-and-error, era la consapevolezza degli stati interni a innescare comportamenti finalizzati in grado di indirizzare la crescita cellulare.

Gli istinti animali, dunque, avevano avuto origine come stati consci, poi trasmessi alla progenie come schemi comportamentali automatici. Questa tem- atizzazione, apparentemente in linea con la nozione di «lapsed intelligence»2 2 Spencer aveva teorizzato che la ripetizione di azioni razionali provocasse il loro scivolamento

verso l’istinto. Ulteriori tematizzazioni di questa dottrina sono presenti nelle opere di G. H. Lewes

diffusa nella tradizione psico-fisiologica anglosassone (C. Morabito 1998), rifiutava le derive materialistiche dei lavori di Alexander Bain (1818-1903) e Spencer. Per Cope la coscienza guidava l’evoluzione degli organismi an- che più elementari, il che, a ben vedere, smantellava la stessa tematizzazione lamarckiana del rapporto fra physique and morale3, riconfigurandola, come egli stesso ammise, in chiave metafisica (Cope 1896a, p. 497).

Più che Lamarck, la dottrina di Cope, definita nel 1882 come “arche- stetismo” (dal greco archè-principio e aisthesis-sensazione), sembrava piutto- sto rispecchiare l’interpretazione anti-meccanicista e vitalista della sensibilità sostenuta da medici del XVIII secolo come Robert Whytt (1714-1766) ed Erasmus Darwin (1731-1802) (B. Baertschi 2005). Cope stesso sottolineò i punti di contatto fra la dottrina dell’archestetismo e la tematizzazione del- la coscienza di Erasmus Darwin (Cope 1896a, p. 505). Lo “psico-lamarcki- smo” di Cope (Bowler 1893; S. Gliboff 2011), esaltato da Henri Bergson (1859-1941) come la sola forma di evoluzionismo «capace di ammettere un principio interno e psicologico di sviluppo» (H. Bergson 1907, pp. 80–81), delineò di fatto una zona grigia fra ilozoismo, panpsichismo e panteismo che lasciò spazio a interpretazioni teiste del cambiamento evolutivo, complican- done enormemente la ricezione.

3.2 Progresso e degenerazione nell’evoluzione dei mammiferi: il modello