Se c’è una paroletta significativa in Mancino, essa è «oltre»: avverbio di spazio ma insieme anche di tempo. Oltre Eboli la poesia, tanto per cominciare, è il titolo di una sua antologia della poesia meridionale, che apparve nel 1979 e che rappresenta l’esatto discrimine di uno snodo, se non già propriamente di una svolta (suo estremo corrispet- tivo poetico è la raccolta Il sangue di Hebert).
Ragionando per decadi, Mancino transita alla frontiera degli anni ottanta con un carico di rabbia e di rancore (il pain de colère di Bréton, il pane dell’ira di Lorca), al di là del quale non ci sarà che lo spazio per una nuova coscienza antica: oltre, dunque, ogni separatezza che va tuttavia vissuta, oltre ogni frontiera che va tuttavia superata, oltre la biografia o l’autobiografia (o giudicianamente autobiologia) che va tuttavia scon- tata, oltre la realtà che va tuttavia attraversata. Si tratta di un “oltre” in cui non si rimpiatta la natura metafisica di un principio primo, ma che è ricerca di un passaggio al di là (ma non al di sopra) della storia. La re- ligione di Mancino si fonda sulla costanza della ragione. La sua discesa nei recessi dell’inconscio si traduce, sempre, in una risalita, si consolida in atto di parola intesa come conoscenza e coscienza morale.
Non è certo un caso né una contraddizione che in lui abbia agito così fortemente la lezione surrealista, magari recuperata attraverso la mediazione di Vittorio Bodini, studioso del Surrealismo soprattutto spagnolo, partecipe e acuto quant’altri mai. Ad agire per prima – az- zardo – deve essere stata l’antologia I poeti surrealisti spagnoli (1963), con il denso e appassionante saggio introduttivo e subito – magari ingenuamente – mi domando perché con i nomi canonici di Lorca o di Alberti mi si sia radicata la convinzione che in Mancino abbia- no agito anche poeti più marginali e discreti come Gerardo Diego, magari quello di Condicional, per cui Bodini ha parlato di «essenze stillate dai più estrosi alambicchi del condizionale». Forse, semplice semplice, in virtù dell’insistenza suggestiva di alcuni attacchi di Man- cino, presenti in questa stessa antologia o autoantologia: «Se un’idea padroneggiasse confondendo il mondo», «Se questo continente di sistemi», «Se abiti dentro la corteccia».
La presenza di Bodini è cospicua e può essere intesa, più di ogni altra, come il paradigma di un’alta complicità: nel senso, soprattutto,
di bisogno di dialogare, vera e propria radice piantata nel cuore di tutta la poesia di Mancino. Presenza poetica e intellettuale – quella di Bodini – che troviamo qui espressa in alcuni componimenti come
Lettera sulla condizione, In morte di Vittorio, Per una e per la morte Sigmund (il verso incardinato che dice: «Vittorio scomparso come
un pesce in una luce», bellissimo in sé), fino a Paso doble (Mancino- Bodini), 1991, che recupera quel Campo de Criptana già presente in
Dichiarazioni, silenzio e giorni (1987). Per non dire delle molte altre
presenze in Alle radici dei gesti ed altre cose (1971), raccolta pubbli- cata l’anno dopo la morte del maestro e amico, a cui sono dedicati («al poeta») alcuni frutti, nati, secondo l’esplicito avviso, «dalla me- ditazione dei valori emersi durante il breve ma profondo legame con Vittorio Bodini». E non è, a rigore, nemmeno tutto.
Non è qui luogo a procedere per rapporti intertestuali: un vero resoconto varrebbe un saggio a parte, che recuperasse anche le tante dichiarazioni comprese in molteplici interventi e interviste. Dietro Bodini spuntano tutti gli altri maestri e compagni, da Matacotta a Lussu, da Scotellaro a Tommaso Fiore, da Levi (Carlo) ad Aldo Ca- pitini. Come si vede, non solo poeti, ma civili assertori di una rigoro- sa e laica esigenza di impegno, che risale per li rami più prossimi al magistero gobettiano, all’intransigenza di chi contro ogni combutta o compromissione professava l’eretico ed estremo elogio della ghi- gliottina. Posizione che qualcuno, come Augusto Monti, tradusse nel sintagma «scrittori utili» e voleva dire, desanctisianamente, “non let- terati”, scrittori attenti al côté civile del lavoro letterario.
Siamo così liberati d’un colpo dalla necessità di fare la conta mi- nuta dei debiti, indicando semplicemente quale sia l’humus culturale di Mancino, l’unico nord del suo orientamento. Ma per tornare an- cora a Bodini, ecco indicata da Mancino stesso la via di un percorso profondamente implicato:
I suoi versi estenuati, a volte anche brutti (una bruttezza che ci ricorda Saba, Lor- ca... Villon) sanno dire con brutale compiutezza d’immagine tutto quanto è possi- bile sull’uomo che dolorosamente interroga se stesso e malinconicamente misura la sua statura.
Parla del bodiniano Metamor come «sofferenza nel tempo», Man- cino, in un intervento del ’69 poi raccolto nel volume dal titolo sin- tomatico Il poeta vulnerabile (La Nuova Italia, Firenze 1984, p. 90).
Potremo dunque, per questo Mancino che parla non meno di sé che di Bodini, porre lo stesso sigillo posto a Bodini da Oreste Macrì? Dopo un indispensabile cenno biografico, il critico di Maglie osserva infatti nell’Introduzione a Tutte le poesie (1932-1970) dell’amico, pubblicate da Mondadori nell’83 (p. 20): «come nei maggiori poeti italiani, l’impegno fu più profondo, di natura etica e “general”, come dicono gli spagnoli».
Non del tutto à propos, perché Mancino s’investe anche dei fatti «esterni e transitori» e pur essendo in cerca di una verità più profonda, sa che essa discende da una lunga e complessa trama di realtà, addirit- tura da un bagno nel sangue della storia. La storia che non è recupera- bile nella sua totalità – lettore di Nietzsche anche lui, Mancino questo lo sa bene – ma non può essere elusa con le risorse del mito (e qui soccorrerebbe se mai il non raro ricorso al nome di Pavese). Essa va affrontata nei sismi e nei moti perennemente contraddittori di un’espe- rienza che resiste al decreto del suo tramonto, concependo la politica delle lettere «come momento della politica delle cose e dei significati- significanti delle cose e della realtà» (Il poeta vulnerabile, p. 16).
La poesia di Mancino grida con la passione del futuro la sua scelta di essere “antiparola”. Il suo manque de clarté è impegno; è parola che, come ha scritto una volta Celan citando Büchner (si può leggere in La verità della poesia, a cura di G. Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993, pp. 5-6): «non s’inchina più dinanzi alle “cariatidi” e ai desideri di parata della storia». Proprio per questo collude – più di quanto non sia potuto accadere a Bodini, anche per ragioni generazionali – con la Neoavanguardia, il cui Gruppo 63 s’aggrega, guarda caso, l’an- no stesso dell’antologia bodiniana dei surrealisti spagnoli. Ma anche per questo incrocio è lo stesso Mancino a soccorrerci: «Il dovere è di infilare dentro tutte le nostre qualità non escluso quell’eclettismo cre- ativo che ci contraddistingue in poesia» (Il poeta vulnerabile, p. 62).
Mancino infatti si rifiuta con energia a polarizzazioni forzate e a rigidi schematismi: da un lato rozzi contenutismi, dall’altro astrat- ti esercizi formalistici. C’è bisogno, ancora, di conferme espresse? «“Scrivere” non può in alcun modo significare “staccarsi” dal conte- sto, dalla concretezza, dal contingente» (ibi, p. 43). La forza del poeta consiste nella propensione al dialogo e al colloquio, a una robusta vo- lontà di interrogare e di interrogarsi: «esiste una conversazione scritta che si chiama letteratura» (ibi, p. 254).
Cosicché, in sede di poetica, la domanda diventa subito cruciale: «Il poeta con chi sperimenta? Quali rapporti intercorrono (e quali
elisioni-dissidi si verificano tra la verità della poesia, la verità del poeta e la verità del reale?)» (ibi, p. 31). Ma la risposta è altrettanto franca:
Il poeta sperimentale, la sua delazione-denuncia, il suo ricostruttivo tentativo stra- volgente, la sua opera di abbattimento dell’ufficialità attraverso l’irrisione, il suo volere rendere difficile la lettura, il suo poetare di laboratorio, appartengono al grande disegno politico che solo per esemplificazione si può rapportare al tentati- vo di abbattimento delle barriere segreganti (ibi, p. 32).
La dichiarazione appartiene all’introduzione dell’antologia Oltre
Eboli la poesia, già citata, ma è anticipata in via complementare da
un intervento sullo «straordinario canzoniere» di Carlo Francavilla, poeta – secondo Mancino (non ci ha forse insegnato Anceschi che le letture dei poeti sono critica a sé, altamente interessata?) – che mo- difica la realtà «con l’impegno della vita, di tutta la vita, e mai da solo bensì con gli altri e con la gente più semplice e più umile»:
La poesia va costruita così: con l’uso accanito e coerente di una ricerca spietata e sincera, senza appassionarsi ai trasalimenti ed alle commozioni facili, ma pure senza tradire la stessa parola che urge dentro e l’idea che diventa conoscenza ed alterità (ibi, p. 157).
Del resto in un’intervista dell’83 ancora troviamo:
È già poesia porsi il progetto di essere gli altri (ibi, p. 251).
Quanto alla biografia, Mancino è giunto in Puglia in «terra di Bari» dalle Marche, da Camerino, dove è nato nel 1939 e, come si dice, patrizzando (il padre era di Gioia del Colle), ha sposato una patria nuova e diversa da quella nativa, formandosi alle lotte di e per un Sud dissanguato e tradito.
Il poeta si è allontanato dal suo ambiente locale e familiare, ha studiato ciò che ha visto (secondo un’ottica avanzata, scientifica e in- terdisciplinare), ha scoperto dei valori planetari e ha ritrovato questi valori «incarnati nel movimento degli oppressi» (il Meridione d’I- talia come Sud universale), ha deciso di appoggiare il movimento e di criticarne gli avversari, secondo lo “stereotipo” fissato da Michael Walzer nel suo volume L’intellettuale militante (Il Mulino, Bologna 1988, specie alle pp. 287-288). Ma ha conservato tutta la vigoria del dubbio. Il suo interrogarsi poetico non è che il punto più incande- scente (sempre pensante) del suo interrogarsi critico: da intellettuale,
appunto. Nulla che possa far pensare, richiamandoci ad altra vicen- da, a una versione Proletkul’t, puramente contenutistica e strumenta- le, che già imbavagliò Majakovskij.
Le domande sono a volte angosciose ma lucide:
siamo veramente noi meridionali, noi poeti pugliesi, lucani, calabresi, interpreti di cultura europea? abbiamo veramente imparato qualcosa dai grandi movimenti delle avanguardie storiche? abbiamo saputo capire la lezione linguistica? i mo- menti della storia degli intellettuali e delle idee? delle metodologie critiche e della ricerca letteraria in questi anni...? (ibi, p. 57).
«Per chi scrivere?»: la domanda che persiste. Un saggio che an- drebbe tutto citato. Del resto il poeta versa tutto il suo mondo con la parola-chiave «coscienza» («magis amica conscientia», ibi, p. 69), percorso insieme di ragione e di conoscenza morale:
Io non mi aspetto lo sventolio delle bandiere, tanto meno una rivoluzione annun- ciata con il clacson: mi aspetto più una parola dalla coscienza... (ibi, p. 253).
Anche se le giuste coordinate costringono a porre quest’ultima af- fermazione in un clima di ripensamenti globali, ben lontani, tuttavia, da intenzioni veramente revisioniste.
L’esordio (Tutto è luce, 1966) va sotto l’insegna di una sapienzialità enigmatica, mito e metapoietica, fitta di corrispondenze e immagini segrete e simboliche. Che cosa sono i gabbiani se non «Poeti malati di mare». Che cosa i pescatori se non «poeti malati sull’acqua». Che cos’è dunque un poeta? È la domanda fondamentale di tutto l’itine- rario di Mancino.
Siamo entro un’atmosfera di stupita colloquialità. Ma già siamo anche dentro il bisogno di concepire una scena a due, di animare un dialogo (altro da sé e altro di sé), di rompere la fissità con un gesto che scarti dal tempo uniforme, incidendone il fluire fatale. Tempo psichico e palombaro, fuori dalle lancette e dalle clessidre. Nel regi- me della durata che eguaglia, ecco il ritmo scandito dell’immediato che diversifica. E sarà poi così sempre; il poeta è subito nel cuore della situazione, evidente negli incipit abrupti, nei deittici fortemente battuti e insistiti.
Un itinerario che procede con la raccolta In tema d’esistenza (1968), dove compare la prima idea, poi ricorrente, del “poema” ellittico e
contratto, quasi semplicemente accennato, ma denso d’impeto e di vibrazioni nettamente scandite, non alieno da risonanze evocative e sonore di vago sentore leopardiano, almeno nel caso di Poema in corol-
lari. Versi franti, spezzati, «accanita vivisezione della parola» (stando
all’autobiografica soglia della “notizia”), soprattutto verbi a tendenza surreal-espressionistica, come in Improvvisazione “dispari”: «Si rom- pe... schiaccia... straccia...», e già l’immagine dei cavalli che sarà desti- nata ad alta occorrenza. Un po’ di più che preistoria, insomma.
A datare il primo tempo è però decisiva la raccolta Alle radici dei
gesti ed altre cose (1971), che inaugura i travagliati (e forse illusivi) ma
intensissimi anni settanta, per chiudere poi il decennio con la raccolta più implicata e drammatica, Il sangue di Hebert (1979), in un tragitto che attraversa le raccolte centrali Per struttura s’intende (1973) e La
bella scienza (1974).
Nell’inaugurazione è già contenuto il suo sviluppo: il poeta è sempre prossimo a se stesso, alle sue emozioni, alle proprie date, ai luoghi, e si sforza di far luce sugli inganni e sull’ambiguità del ruolo in un “lamento” (non qui antologizzato), che ne denuncia la comune natura esistenziale:
E mi domando perché perché lo stesso fremito lo stesso contatto
la stessa emozione che confonde.
Ed è forse ancora bodiniano – un jeu de mot – l’invito a non cede- re, neppure questo in antologia:
Cedere cosa mai può significare
se non perdere la civiltà individuale.
(Civiltà individuale)
Il poeta è sempre alla ricerca del suo spazio e della sua ragione. Il risaputo scenario crepuscolar-futurista (o palazzeschianamente fumi- sta) viene drammatizzato e teatralizzato come desiderio di fraternità e di intesa, desiderio infinito (infinito, forma verbale del desiderio!) di aderire, a dispetto del conoscerne l’impossibile totalità. E da qui viene – dalla conoscenza della ferita – il rifiuto di ogni melodia o cantabilità, l’ascetica rinuncia al piacere. Poesia antiedonistica e ra-
zionalmente strologante come solo può comporne un loico aruspice alle prese con il movimento delle proprie viscere.
Il poeta scrive «i suoi graffi / una circoncisione al giorno» e ri- schia in proprio «l’usura senza manuali senza leggi / se non quelle comprensibili alla sua ira di sempre» (ma già nella Lettera sulla con-
dizione dedicata a Bodini: «il poeta non s’umilia né può umiliarsi / a
sostenere gli occhi con l’uomo della strada / il suo vantaggio / è vivere il rancore»). Rischia in proprio, «allo scoperto» (sillabato e corsivo), senza dimenticare che «guerra è sempre», come memorabilmente afferma Mordo Nahum, un personaggio a sua volta memorabile di Primo Levi (La tregua). Ed ecco infatti Mancino a ribadire, ancora a proposito di «ricerca della condizione»: «la condizione del poeta è sempre guerra» (nel componimento, qui non antologizzato, Carico
di..., già compreso in Per struttura s’intende, 1973, poi assorbito nella
raccolta successiva La bella scienza, 1974, a stabilire una continuità di fatto). No dunque ai poeti celebrati e gargarizzanti, alle «puttane di corte», alle melodie corrotte e corruttrici, poiché è tempo «d’altri segni e suoni», tempo di rabbia e di livore.
In corrispondenza con questo mondo di denuncia e di provoca- zione, anche la pronuncia cerca il suo scandalo. La parola, tuttavia, si sloga ma non si frantuma, scandisce il suo grido, ma non arriva alla radice ultima e “novissima” della dissoluzione. Tanto per fare il nome di un militante forte della Neoavanguardia, non è Sanguineti (ad esempio di Laborintus) il modello frequentabile. Colludendo con la Neoavanguardia, Mancino se n’è difeso compensando con un “me- todo” e uno spettro che sembrerebbe andare dalla lezione di Zan- zotto a quella di Fortini, almeno nel senso di un’opposizione certa a ogni mero contenutismo (di qualsivoglia natura), così come a ogni sperimentalismo giocato fino al disordine sistematico: caos del mon- do mimato dal caos della parola. Rifiuto, insomma, della Neoavan- guardia più babelica, votata all’outrance inarrestabile di un processo di disarticolazione, accumulazione, addizione, espansione.
Restano in Mancino, ancora come in Zanzotto (e vedi qui Pasolini
vivo), la resistenza alle bordate denigratorie nei confronti del ruolo
di poeta e l’affermazione, viceversa, di un principio di dignità e di passione. Resta, come in Fortini, la fedeltà a un doppio registro (di biografia e di impegno, di storia personale e collettiva, di diario e di profezia) capace di risuonare in un unico punto di intensità stilistica e di rigore intellettuale, arrivando per altro a postulare il principio
perennemente dialettico della contraddizione, nella certezza, come ha scritto Berardinelli, «che la duplicità e la lotta non hanno fine».
Cosicché diventa ancora una volta strettamente personale il di- scorso fatto in sede critica per il “conterraneo” Angiuli:
Una poesia che nasce da tali “lavorazioni”, da così complesso laboratorio per- sonale e da una ragione capace di porsi come polo dialettico (una ragione che opera verso il suo ruolo di proposizione di alterità sul piano della prassi fino ad un sincero e cospicuo aumento dell’umano) non possiamo non leggerla se non come
letteratura capace di distendersi entro i territori dell’interno e dell’esterno, program- mabile e realizzabile nel sé con la forza della dialettica più viva.
Le sottolineature sono rigorosamente d’autore. Nessuna coinci- denza degli opposti, dunque; la natura dialogica e drammatica della poesia di Mancino viene di qui: dalle radici di una perenne dialettica.
È un discorso che nella raccolta Il sangue di Hebert sfoga lucida- mente, con tutta la sua urgenza, una dichiarata fedeltà alla cronaca, ove si legga l’“antefatto” che spiega come la raccolta fosse preparata ormai da due anni e che per questo, uscendo nel ’79 ed essendo mu- tato già qualche aspetto «della situazione politica italiana», finisse per correre il rischio «di offrire un’immagine anacronistica e lontana su qualche evento». Sul piano stilistico è nelle parole composte il segno di un espressionismo che aggredisce usque ad sanguinem – è il caso di dirlo – il “fervore anti” del disegno poetico (vedi il componimento, qui antologizzato, a David Maria Turoldo): «nostalfermentazioni», «criminaltera», «malincospirazioni», «nullamentale», «genitormen- tata», «bilicònscio», «storicatti», «sessobestia», «cattivacoscienza», «mortimpiccati», un facsimile di raddoppiamento/smascheramen- to elettrolitico come «ver-gogna», «grandufficiali», «lungavanti», «primancora», «sessoreticente», «carodioso», «ecumerdario», «in- nestercografia», «vitaffronto», «vaticumanitario», «assassinobil», «polinfernale», «kisshimmler», «finemese», «ossidofemenicali», «centrocampottuso», «biancorossoverde», «elmitravelcheque», con un massimo di densità, e pour cause, in Un giornale una mattina qual-
siasi, per altro qui non antologizzato eccetera.
II secondo tempo di Mancino vira alla boa degli anni ottanta e s’avvia già con Dopo la scienza (1982) sui passi di un ritorno annunciato, di un vero e proprio de reditu alla regione originaria: viaggio a ritroso, ma ancora una volta dialettico discorso interiore – dopo l’esteriore
vicenda, e vicissitudine – sui termini sempre vivi della responsabilità «circa la natura vera di una ragione di presenza e del “come” e del “per chi” e del “perché”», come lo stesso poeta ha scritto nel saggio che accompagna la raccolta in questo senso più implicata, La dissipa-
zione del talento. I colli marchigiani (1985), poi ribadita dalla raccolta
successiva, Dichiarazioni silenzio e giorni (1987), per finire – almeno qui, almeno per ora – con il «paso doble» bodiniano. E non senza un doloroso sacrificio, poiché l’autoantologia non reca traccia (per compattezza di lezione?) di una raccolta in dialetto osimano, La casa
la madre il colle e l’orto (1989).
Al presente della provocazione succede l’imperfetto della memo- ria, alla luce l’ombra, al grido il silenzio, alla storia la geografia. Ar- quata del Tronto, San Benedetto, Urbino, Fermignano, Osimo, Ca- merino, Fano, paesi, odori, forme, sensazioni, sapori, sguardi, profili, il ritorno al padre e alla madre (alle madri) come viaggio nell’origine, dialogo con l’ombra, appunto, la malinconia nel grembo di Saturno, la morte. Dopo la scienza avvia un procedimento (in corso) all’inse- gna di un’amorosa vulnerabilità; così infatti in Montagna da Cameri- no, qui per altro non antologizzato:
L’amore
è nella parola che rincorre il sogno
che l’insegue nella lettera
nelle rocce scavate della corrente dei fiumi sulle curve dei dossi, sulle punte
levate sulla groppa di montagna.
Ma il poeta resta legato ai suoi deittici che oggi giungono a desi- gnare (fino a Dichiarazioni silenzio e giorni e presumibilmente oltre) la segnaletica di un’immersione profonda d’evi, fino alle radici di quelle prossimità-presenza che la lontananza-assenza hanno dialet- ticamente convocato.
Il timbro continua a tenersi lontano da melodie ruffiane, ma tende – almeno a tratti – all’elegia e persino a una sorta di canto trenodico (un esempio per tutti L’aria che un giorno saliva le coste), non facendo altro che assecondare heideggerianamente (Martino confessore e dolcezza),