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TRA IDENTITÀ E ALTERITÀ

ben poco si può sperare da una nazione che abbia esaurito la propria matrice vegetale

henry david Thoreau, Walking

In apertura di questo intervento che vuol essere un contributo alla riflessione sulla poesia dialettale del Novecento nell’atto di nascita di una nuova rivista che di letteratura e dialetti intende occuparsi, vorrei fare due considerazioni che mi sembrano opportune. La prima – cer- to risaputa e largamente documentata – mi pare che tragga nuova linfa dalla parafrasi di un passo strappato alla lettura dell’opera di Thoreau, Walking.1

In tempi di identità liquide e di fenomeni globali, la parafrasi che vorrei suggerire («ben poco si può sperare da una nazione che abbia esaurito la propria matrice dialettale») consente di collocare il feno- meno cosiddetto neodialettale entro un più ampio orizzonte di riferi- mento, senza nulla sottrarre alle ragioni storiche e disciplinari del suo sviluppo. Non solo perché si può ben sostenere come la rivoluzione industriale abbia avuto in Italia un vero e proprio slancio solo a par- tire dagli anni sessanta. Ma anche perché non si può prescindere (pur distinguendone i caratteri) dalla dorsale dialettale a cui tutta la nostra letteratura afferisce in molti dei suoi versanti.

La seconda – e più lunga – considerazione è piuttosto un’altra suggestione venutami dalla lettura di un libro inconsueto, che con la poesia (e più ancora con la poesia dialettale) sembrerebbe non avere lì per lì riferimento. Il libro s’intitola Racconti impensati di ragazzini2

e raccoglie dei temi di ragazzi del Napoletano (nulla a che vedere con l’operazione del maestro D’Orta, Io speriamo che me la cavo, tra- sformatasi in un successo del marketing), in cui – come suggerisce il maestro De Vivo che li ha raccolti – «il dialetto è per lo più la prima lingua, quella affettiva naturale e familiare, e perciò non deve stupire più di tanto la frequenza di certe abitudini di scrittura, le quali po- trebbero essere considerate come la base ritmica, il basso continuo ma discreto, lungo il quale si dipana la narrazione “a orecchio”».3

Operazione che viene da un’officina diversissima da quelle degli scrittori consapevoli, ma che si colloca tuttavia entro un orizzonte predisposto, come mostrano ad esempio i romanzi di Giuseppe Fer- randino (specie il romanzo d’esordio Pericle il Nero, ripubblicato da Adelphi nel ’98) o di Giuseppe Montesano (almeno il secondo romanzo, Nel corpo di Napoli) o ancora di Peppe Lanzetta (da Un

Messico napoletano a Tropico di Napoli), fino ad Andrej Longo (ap-

prodato con Dieci, pubblicato da Adelphi nel 2007, a un più largo ascolto). E non dico ovviamente che di alcuni.

Se mai potrei aggiungere che un’altra “napoletana”, Fabrizia Ra- mondino, in uno dei suoi libri più intensi (Passaggio a Trieste),4 ha

condensato in poche pagine finali il senso di una scrittura che coin- cida con il corpo e che sia capace di passare «da bocca a orecchio», scrivendo tra l’altro: «Se fossi vissuta nei tempi remoti dei cantastorie e se fossero esistiti cantastorie donne, o in tempi meno remoti quan- do le nonne narravano le fiabe del focolare, probabilmente non avrei scritto, piuttosto avrei raccontato a voce».5

Al di là del piano didattico che può implicare, a me pare che lo sti- molo che viene dal libro dei ragazzini napoletani sia per più versi in- tonato e sorprendente. A parte l’invito implicito a considerare meno scontatamente o indiscriminatamente la questione di un’inevitabile «morte» dei dialetti,6 trovo nella Presentazione di Gianni Celati un

approccio esemplare per trasformare i testi proposti (rigorosamente prosastici) in un discorso sulla poesia.

Il fatto di “riconoscere” le parole che si usano perché “dette” da qualcuno e non estratte dagli strumenti istituzionali e normativi dell’italiano, non è solo la cosa più importante del libro come tale, ma è già anche un modo di stabilire un’affinità preziosa con le procedure del linguaggio poetico, se è vero – come scrive Celati – che «il lin- guaggio diventa ospitale, accogliente» quando «si mette a nominare le cose del mondo come una musica», e che «i poeti hanno sempre parlato così, secondo dove li portavano le parole» e che «i poeti più emozionanti sono proprio quelli che hanno saputo lasciarsi trascinare dalle parole con più abbandono, con più sospensione».7

Non è un caso che quando Celati evoca la forza delle parole che «non hanno ancora un vero significato, ma piuttosto il sapore di un sentito dire»8viene in mente – con tutte le possibili differenze e le

necessarie prudenze del caso – l’epifania di Pasolini quando racconta per sé dei suoi esordi casarsesi:

In una mattina d’estate del 1941 io stavo sul poggiolo esterno di legno della casa di mia madre. Il sole dolce e forte del Friuli batteva su tutto quel caro materiale rustico. Sulla mia testa di beatnik degli anni Quaranta, diciottenne; sul legno tar- lato della casa e del poggiolo appoggiati al muro granuloso che portava dal cortile al granaio: al camerone. Il cortile, pur nella profonda intimità del suo sole, era una specie di strada privata, perché vi aveva diritto di passaggio, fin dagli anni precedenti la mia nascita, la famiglia dei Petròn: il cui casolare era là, illuminato dal suo sole, un poco più misterioso, dietro un cancello dal legno più tarlato e venerando di quello del poggiolo: e si intravvedevano, sempre in cuore a quel sole altrui, i mucchi di letame, la vasca, la bella erbaccia che circonda gli orti: e lontano, in fondo, se si tira il collo, come in un quadro del Bellini, ancora intatte e azzurre le Prealpi. Di cosa si parlava, prima della guerra, prima cioè che succedesse tutto, e la vita si presentasse per quello che è? Non lo so. Erano discorsi sul più e sul meno, certo, di pura e innocente affabulazione. La gente, prima di essere quello che realmente è, era ugualmente, a dispetto di tutto, come nei sogni. Comunque, è certo che io, su quel poggiolo, o stavo disegnando (con quell’inchiostro verde, o col tubetto dell’ocra dei colori a olio su del cellophane), oppure scrivendo versi. Quando risuonò la parola rosada.

Era Livio, un ragazzo dei vicini oltre la strada, i Socolari, a parlare. Un ragazzo alto, d’ossa grosse... Proprio un contadino di quelle parti... Ma gentile e timido come lo sono certi figli di famiglie ricche, pieno di delicatezza. Poiché i contadini, si sa, lo dice Lenin, sono dei piccoli-borghesi. Tuttavia Livio parlava certo di cose semplici e innocenti. La parola “rosada” pronunciata in quella mattina di sole, non era che una punta espressiva nella sua vivacità orale.

Certamente quella parola, in tutti i secoli del suo uso nel Friuli che si stende al di qua del Tagliamento, non era mai stata scritta. Era stata sempre e solamente un suono.9

Insomma, il sogno del naturale contro l’artificiale (capace di espri- mere una verità più vera di quella di superficie), il recupero di oralità e di vocalità (una scrittura “secondo l’orecchio”) contro l’estraneità di ogni strategia letteraria sovrapposta, concretezza da opporre ad astrazione, scarto da opporre a convenzione o stereotipo, fiducia nell’innocenza perduta come resistenza da fare alla confusione post- moderna dei linguaggi, il recupero del marginale e del subalterno contro lo strapotere dei centri. Tutti elementi che si confrontano con i miti, le ossessioni, le idee-guida della cultura contemporanea e che non possono restare separate dal contesto molto variegato entro cui si muovono.

Certo è interessante l’osservazione che fa De Vivo sul passaggio dall’incanto sonoro della lingua al luogo muto della scrittura-lettura silenziose, il difficile momento in cui «sta per spezzarsi il filo che te- neva legati la voce che ancora parlava – sillabando – e la mano che scriveva o l’orecchio che ascoltava».10 Con un interrogativo a seguire,

alle considerazioni di poetica della Ramondino: «Stanziati in questa specie di riserva linguistica, in attesa di trasformarsi (una volta per tutte?) in lettori tristi e silenziosi, i ragazzini, con i loro racconti, non tentano forse, pur se inconsapevolmente e per l’ultima volta, un’ul- tima resistenza, cercando di restituire un’ascoltabilità alle parole?»11

Un interrogativo a cui sembra di poter associare la resistenza doppiamente consapevole che il poeta neodialettale oppone sia alla natura standardizzata dell’italiano veicolare sia a quella di certo lin- guaggio poetico sentito come astratto e incorporeo. Non si può non tenere conto, ad esempio, del fatto che l’opzione dialettale non com- porta semplicemente la scelta specifica di uno strumento poetico, ma coinvolge una scelta per se stessa alternativa all’interno di un codice culturale che istituzionalmente si esprime in lingua.

Beninteso che i dialetti dal punto di vista glottologico hanno un’ori- gine al di là della quale vanno considerati semplicemente come “volga- ri” (e che quest’origine, restando alla consapevolezza letteraria di uno strumento privilegiato, avviene al principio del Cinquecento), ma certo non si può negare che di fatto siano poi stati ridotti a strumenti dome- stici e locali, ferma restando la possibilità di una più ampia estensione d’uso registrabile in questa o quella situazione specifica, dal piemon- tese di corte al veneziano di palazzo: lingue d’uso d’ogni classe sociale anche se non per questo “parlate” allo stesso modo.

Posto, dunque, che storicamente il passaggio è avvenuto andando dal dialetto alla lingua, la scelta odierna del poeta dialettale è sempre – storicamente – un viaggio di ritorno, che può essere diversamente compiuto, a seconda dei tempi e delle generazioni.12

Giusto per fare riferimento a un poeta friulano (di Visinale, in provincia di Pordenone) che molto ha riflettuto su queste questioni come Gian Mario Villalta, la diglossia lingua-dialetto, più che come coesistenza di codici, va oggi intesa da un lato «come metafora di una lacerazione nel tessuto della lingua e dell’immaginario», dall’al- tro come «confronto radicale con il problema del dire poetico all’in- terno di una situazione di crisi della lingua che investe totalmente il soggetto».13 Studioso di tutto Zanzotto (e dunque anche del suo salto

di campo in territorio dialettale), Villalta ne eredita la complessità: per un verso l’interrogarsi del linguaggio e sul linguaggio nella pro- spettiva fondante e rischiosa dell’essere, per altro verso il rifiuto di cedimenti consolatori a un dire inaugurale e innocente. Vale a dire Zanzotto che corregge Heidegger.

Certo tutto questo nasce dal bisogno di risarcire una distanza, una ferita, uno strappo. In questa direzione l’uso del dialetto in poesia è già per sé il segno evidente di una ricerca di alterità. E dico “alteri- tà” piuttosto che “identità” perché se c’è un carattere che possa rac- cogliere le membra davvero molto sparse della poesia neodialettale, questo non consiste tanto in un radicamento ambientale antropologi- camente determinato ma piuttosto nella dichiarazione di un ascolto che sta a testimoniare una crisi profonda. In altre parole il legame tra dialetto e oralità conduce più che non il rapporto lingua-oralità a una scrittura che potremmo definire “di ascolto” anche in un senso molto più immediato di quanto s’intenda a proposito dell’ascolto poetico come tale.

D’altra parte si sa che il «racconto orale ha sempre qualcosa della recita, e il narratore ha qualcosa dell’attore o dell’istrione».14 Non c’è

parola che non sia pronunciata davanti a qualcuno, scrittura radical- mente configurata come dramatis personae. Se c’è mimesi, non è del reale, ma del tono, del timbro, del ritmo di una voce. Come accade in un poeta lontanissimo da suggestioni pasoliniane, Raffaello Baldini, il quale sia per i suoi libri di poesia,15 sia per la sua trilogia ironico-

drammatica, Carta canta, Zitti tutti!, In fondo a destra, raccolta nel volume Zitti tutti!,16 ha potuto dichiarare: «I miei versi sono gente

che parla e il parlato è sempre un po’ teatro», osservando poco dopo:

Le cose che continuano a succedere in dialetto le devi raccontare in dialetto, ma siccome oggi succedono anche tante cose in italiano è giusto che restino in italia- no. Io non penso che si tratti di salvare puramente e semplicemente il dialetto ma piuttosto di salvare la connivenza di dialetto e di italiano. Non sono io a non essere purista, è il dialetto che non lo è. Quando vado al paese e al caffè sento parlare in dialetto, sento anche molte battute in italiano. Io registro e basta.17

Un corretto percorso che voglia prevedere il bilancio di un secolo di poesia dialettale, so bene che sarebbe dovuto partire cronologica- mente dall’inizio del Novecento. Ed è quanto mi accingo a fare solo ora perché mi è parso necessario avviare il discorso contromano, a partire dal presente. Lontanissimo – come si sarà inteso – dal punto d’avvio. Al di là, infatti, degli esordi ricchi di annuncio che possiamo individuare in due periferici come Biagio Marin (Fiuri de tapo è del 1912) e Virgilio Giotti (Piccolo canzoniere in dialetto triestino è di due anni dopo), la poesia dialettale del primo Novecento, almeno fino agli anni trenta, continua a officiare entro un orizzonte d’intesa

tardo ottocentesco, appartenendo ancora in gran parte a quello che Pietro Pancrazi ha empiricamente definito come momento «dialetta- le» (ossia di atteggiamenti e sentimenti connessi alla couleur locale) piuttosto che «in dialetto» (ossia all’abbandono del folclore e all’uso poetico del dialetto inteso come espressione e suono).18

In questa prospettiva hanno carattere per più versi esemplare – insieme con la “marginalità” di Giotti e di Marin – la vicenda polemi- ca che marca la contrapposizione tra Nino Costa e Giuseppe Pacotto (Pinin Pacòt) e – ancor più significativa – l’alternativa dialettale che Noventa oppone alla lingua della cultura ufficiale forgiandosi «len- gua» ben sua. Nel primo episodio si contempla – quale che sia la specifica occasione del contrasto – l’esigenza di segnare uno stacco, l’ansia di dichiarare una diversità, di prospettare una nuova sensi- bilità, una nuova consapevolezza d’uso poetico rispetto al passato.19

Nel secondo si assiste invece all’impresa solitaria di un poeta che “in- venta” la sua lingua dialettale mirando a liberarsi sia dall’endogamia della koinè ermetica, sia dalle pastoie di una cultura inguaribilmente ipocrita e solipsistica.

Nel punto più acuto di una polemica che avrà la sua palinodia, Pacòt scrive di Costa:

Lui rappresenta la fine di un’epoca e noi abbiamo la pretesa di essere il principio di un’altra. Lui è la prosecuzione e, diciamolo subito, più artistica e più dignitosa dei Viriglio, dei Fasolo, dei Rico, dei Solferini, ecc. ecc. e a questi modelli non sa rinunciare; così come non sa rinunciare alla passeggiata dalle sei alle sette sotto i portici di Po, nella vecchia religione della crestaia e della sartina. Poesia dialettale per eccellenza.20

Così come nel momento cruciale di un soggiorno fiorentino che lo mette a contatto con l’ambiente delle Giubbe Rosse, Noventa sca- glia la freccia antiermetica e specialmente antimontaliana (come già è stato sottolineato dall’interpretazione di Giacomo Debenedetti, poi raccolta e commentata da Franco Manfriani nella Prefazione a Versi

e poesie):21 Fusse un poeta… Ermetico, Parlarìa de l’Eterno: De la coscxienza in mi, De le stele su mi,

(Ah, canagia d’un mar!) Darme le so parole. Ma son…

(Parché no’ dirlo?) Son un poeta.

E ti ghe géri tì ne la mia barca. E le stele su nù ghe sarà stàe, E la coscienza in nù,

E le onde se sarà messe a parlar, Ma ti-ghe-géri tì ne la me barca, (E gèra fermi i remi).

In mezo al mar.

Cioè a dire che la poesia non va cercata nei «falsi problemi pseudo- filosofici o amori simbolici, ma sentimenti veri, uomini o donne veri».22

Il passaggio tra gli anni trenta e il secondo dopoguerra resta indub- biamente marcato soprattutto da Pasolini – quale che sia il giudizio critico che si voglia dare del suo versante “squisito” – non solo per la poesia in quanto tale, ma per la sua opera di antologista. Quanto alla prima va scandito un percorso tutt’altro che pacifico. Al di là dell’e- sordio di Poesie a Casarsa (1942), il libro in cui Contini prontamente scorgeva «la prima accessione della letteratura “dialettale” all’aura della poesia d’oggi, e pertanto una modificazione in profondità di quell’attributo»,23 si tratta di un percorso da scandire in almeno due

se non in tre tappe: la prima costituita dalla raccolta La meglio gio-

ventù (1954), che comprende anche Poesie a Casarsa riscritte in un

friulano recuperato «nella intera sua istituzionalità»; la seconda dalla raccolta La nuova gioventù (1975), a sua volta scandita in un «volume primo» che riprende La meglio gioventù con qualche aggiunta e un «volume secondo» costituito da La seconda forma de “La meglio gio-

ventù” e da Tetro entusiasmo.

Le linee dell’esordio si muovono squisitamente in «un regresso lun- go i gradi dell’essere»: catàbasi, discesa nel corpo vivo di una parola che da un punto storico e psicologico di desolazione e di esilio grida la sua sensualissima e feconda verginità. Ma poi si arricchiscono, nel rispetto di una costante mitica e privata, i motivi più “esterni”, politici e sociali (ad esempio nell’azione drammatica I Turcs tal Friúl risalente agli anni di Casarsa ma pubblicata postuma nel 1976), per rovesciarsi

alla fine nella raccolta La nuova gioventù in totale negazione del segno, chiudendo il cerchio aperto dalle ormai lontane Poesie a Casarsa.

Quanto alla parte da riservare all’antologista, non si può non os- servare come nessun’altra antologia prima della Poesia dialettale del

Novecento, allestita con la collaborazione di Mario Dell’Arco e pub-

blicata da Guanda nel ’52,24 fosse riuscita a essere così panoramica e

così critica, grazie soprattutto all’Introduzione dello stesso Pasolini, su cui Cesare Segre – analizzandone il carattere di novità, come a dire la presenza pascoliana in funzione antimonolinguistica, l’avversione al culto di ogni regionalismo sentimentale e la mistica delle “piccole patrie”, il tono molto meno ideologizzante degli scritti successivi e il carattere «di manifesto della nuova poesia in dialetto» – osserva: «Pasolini non poteva prevedere (data la contraddittorietà apparente dell’operazione-dialetto) che l’unilinguismo o il preziosismo di certi dialettali o il creaturismo avrebbero avuto un’espansione a cui oggi stiamo assistendo ancora stupiti».25

Tutto questo, a cui il processo di omologazione specialmente at- tivo dagli anni sessanta in poi non ha ancora impresso, con i colori di un paesaggio desolato, l’accelerazione necessaria di una resistenza nuova, resta per ora in una zona di confine che gli anni cinquanta non hanno ancora del tutto varcato, così immersi come sono entro un orizzonte di riferimenti non poi molto lontani dall’esordio del secolo (e dell’età giolittiana). Non poche le abitudini che si protraggono, non poche le consuetudini culturali coltivate secondo ritmi fonda- mentalmente arretrati e provinciali.

Di fatto, quando scrive Segre, il fenomeno della poesia in dialetto ha intanto assunto le proporzioni di un fenomeno assai vistoso, che dopo Pasolini è stata l’antologia Le parole di legno a cura di Mario Chiesa e di chi scrive (Mondadori, Milano 1984) a registrare con qualche ambizione di lettura: tutt’altra cosa – penso di poterlo dire con sufficiente distacco – dalla maliziosa (per non dire malevola) li- quidazione che ne volle fare Franco Brevini nell’Introduzione ai suoi

Poeti dialettali del Novecento di tre anni dopo, collocandola surretti-

ziamente nell’angolino anonimo dei «pochi repertori o notevolmente incompleti o eccessivamente affollati, in entrambi i casi validi più sul piano antologico che su quello esegetico».26

Non è così. Il tentativo che con Mario Chiesa abbiamo fatto – dopo il nostro stesso precedente di un’antologia a destinazione di- dattica, uscita da Paravia nel ’78 e intitolata Il dialetto da lingua della

realtà a lingua della poesia – è stato di definire la condizione dei “dia-

lettali” del Novecento entro un quadro d’insieme, certo rivedibile e passibile di ulteriori approfondimenti, ma tutt’altro che metodologi- camente sprovveduto.27 Né con questo intendo sottrarre ai tre volu-

mi “meridiani” della Poesia in dialetto (Mondadori, Milano 1999) di