Giorgio Calcagno è stato prosatore, romanziere, giornalista, ma so- prattutto è stato un poeta. E io resto convinto che la sua vera voca- zione fosse quella del poeta. Anche se poi tra i suoi libri in prosa (i romanzi, i racconti) e quelli di poesia passa un ponte continuo di corrispondenze e di richiami. Cosa che si riscontra – forse più che negli altri – proprio nell’ultimo libro, Sul sentiero dei Franchi, in cui leggo le molte affinità che vi si possono riscontrare con i racconti di
Dodici lei, il libro che nel 2001 gli valse la cinquina del Campiello. A
conferma del fatto che Calcagno sapeva benissimo interpretare l’av- viso (leopardiano) della prosa come «nudrice» del verso.
Dopo l’esordio poetico di Visita allo zoo (1980); dopo il ritorno genovese del secondo libro, La tramontana di Ravecca (1991); dopo i bisticci e i ghiribizzi di Galileo e il pendolare (1990) – bisticci che tanto gli piacevano e che così bene testimoniano del suo amore per l’arguzia un po’ patafisica e straniante – Calcagno era arrivato – giustappunto – al terzo (o quarto) libro poetico, Sul sentiero dei
Franchi, pubblicato da Aragno all’inizio dell’estate del 2004. Un li-
bro – quest’ultimo – inaugurato con sintomatico esergo dal cattolico Claudel: «Le poète est comme l’abeille qui a, ensemble, le sentiment de la fleur e celui de l’hexagone». Come dire congiunzione di esat- tezza e sentimento, ma anche di quello scarto significativo che passa nel gioco dei contrasti, nell’ilare volto delle cose multiple e fuggitive.
Sono due i poli dell’educazione di Calcagno: Liguria e Piemonte, Genova e Torino, con il naturale prolungamento della valle di Susa (l’umbilicus). Di qui la valle di Susa (per non dire i segreti di Sacra e Novalesa) con il cuore almesino (Almese, ovvero «Alle radici dell’e- sistenza», il poemetto in nove tempi di Visita allo zoo, con quell’ubi
sunt così corrispettivo all’ubi sunt degli «amici genovesi» e quei tanti
«se» che richiamano – nell’uno e nell’altro componimento – la dubi- tosa via della verità, che è sempre più vera del vero. Di là la Liguria con i ricordi dell’università genovese, e poi Portoria, la Ruta, Porto- fino. I due poli di una geografia emotiva che attraverso le sue meta- morfosi trova la forza di un’identità non bloccata.
Non è giustappunto un caso che il primo componimento del primo libro poetico, Visita allo zoo, sia intitolato Fra Roncisvalle e
Giosafat (poi ripreso nel secondo libro, La tramontana di Ravecca) e
sia stato scritto ripensando – ripeto – «agli amici di Genova», alle im- portanti esperienze fatte con loro ai tempi dell’università. Così come non è un caso che l’ultimo racconto dell’ultimo libro di racconti pub- blicato in vita, Dodici lei, rimandi alle stesse atmosfere: segno di una fedeltà sostenuta da continui ritorni mentali e memoriali. Se è vero – come sosteneva Lalla Romano – che si torna sempre nel luogo da cui non si è mai partiti.
Calcagno cabalista di numeri chiusi, esegeta e interprete degli enigmi che stanno rimpiattati nella trasparenza della cifra tonda, le sei facce del dado, i sette giorni della settimana, i dodici mesi dello zodiaco o dell’anno. Calcagno uomo di interrogazioni sempre esatte e plurime, geometriche e allusive. Calcagno enigmista capace di ironia (un cre- dente che ha giocato tra carte e scacchiere alla ricerca della scommes- sa che pascalianamente afferra l’assoluto oltre la sfida di ogni calcolo probabilistico, oltre la gratuità di ogni gioco combinatorio). Calca- gno che dalle più strette maglie estrae il dado del divino, il brivido di una fede innervata nell’imprevedibile e nell’imprevisto. Sempre una cornice a tenere insieme l’incastro delle parti. Sempre un giallo a percorrere la favola delle cose ultime di cui – inconfondibile cifra narrativa – frugare assiduamente e lucidamente i misteri. Calcagno esploratore di recinti. Calcagno amante di luoghi chiusi e delimitati in cui cercare la mossa decisiva:
[…] colpo per colpo, un pezzo contro ogni pezzo, fino alla riuscita in excelsis o ad inferos, catastrofe o apoteosi, per un lampo, un numero che coglie il segno, vince la partita.1
Ma – quanto alla poesia – Calcagno – e lo dico con un verso di Djuna Barnes che traggo da Cristina Campo – «avvolto in metrica, avvinto in disciplina».2 Come scrive Gozzano nel suo Elogio del so- netto (che appartiene alle poesie sparse), anche Calcagno avrebbe
O forma esatta più che ogn’altra mai, prodigio di parole indistruttibile come i vecchi gioielli ereditari!
Ma non meno di Gozzano – sapiente cesellatore e miniatore di sovversioni metriche che sul «nobile edifizio / eretto su quattordi- ci colonne» era capace di dissimulatissime deroghe e dei più arguti restauri – sapeva sgattaiolare tra le maglie della gabbia sonora come un grimpeur su per i tourniquet o come un funambolo sul filo: la sua «ipotesi circense» – per dirla con Luciano Erba – che poteva tanto esercitarsi nella difficile tournure del verso libero e del verso lungo quanto nelle misure diversamente cogenti del verso in rima.
Capitolo – quello della rima – su cui vale la pena – a non dire di tanti articoli su “Tuttolibri” – di citare almeno l’intervento, Torna a
fiorir la rima, che Calcagno pronunciò nell’edizione 1998 del premio
di poesia e di traduzione poetica “Achille Marazza”, citando Primo Levi e commentando – lui lettore di Caproni e a maggior titolo del Caproni genovese – con una considerazione ben sua:
Levi non ha mai scritto in rima, se non per brevi giochi. Ma aveva capito, da uomo di laboratorio, quello che tanti studiosi di letteratura non avevano capito. Aveva capito che la scrittura, per essere memorabile, e incisiva, ha bisogno di assoggettar- si a un sistema: da rispettare e trasgredire continuamente, per rinnovare i canoni; da non dimenticare mai. Ha bisogno, per arrivare meglio alla verità, dell’artificio. Deve praticare la castità della rinuncia, e non la comodità dell’opulenza: deve pas- sare attraverso la contrainte.3
Qui agiva la lezione del Della Casa. Agivano – io credo – ancora le lezioni di Walter Binni all’università di Genova. Agivano le letture dei suoi irregolari (Berni e i berneschi). Agiva la sua personalissima volontà di ri-creazione (montalianamente, lo stile come tradizione rinnovata). Agiva, infine, l’impegno a misurarsi con le difficoltà e con le alture (in questo, grimpeur davvero emblematico, alle prese con l’interrogativo dell’ultimo tornante).
Nell’officina di Giorgio Calcagno c’è sempre una sfida da ono- rare (non dico da vincere), una partita da giocare, una scacchiera da studiare, un dado da gettare, una roulette da divinare. E si potrebbe parafrasare in proposito ciò che scrisse per gli amici genovesi (ancora quel testo) «vent’anni dopo» (ovviamente Dumas) evocando l’inquie- to giovanile proposito di “rovesciare” il mondo:
[…] noi saremo
ancora vivi se potremo accogliere la nota dissonante, il gioco stridulo del sì e del no, la corsa della zebra nelle savane di città, il concerto del pifferaio magico all’ingresso della fabbrica, se c’incanteremo al girasole aperto nella notte in un riso beffardo di papaveri verso un lampo di luna, se sapremo
lasciare il foglio bianco
per il prossimo compito, su un punto e virgola, su un interrogativo
che non avrà risposta, un suono vergine, uno sguardo sospeso, un volo mutilo, un rumore di sparo – senza l’eco.
Che è poi, tra l’altro, così affine all’«applauso di una sola mano» di cui parlava Cristina Campo nel suo libro degli Imperdonabili.
Qui non si finirebbe di citare. Ma vorrei almeno leggere il sonetto dodecasillabico che introduce La tramontana di Ravecca (settenario più quinario, confermato dal primo verso della seconda terzina, con misura esattissima: «ovest di fuoco livido, nord oscuro», dove il set- tenario è sdrucciolo e il quinario diventa di necessità quadrisillabo: una finezza da metricista infallibile, che si ripete nell’ultimo verso proprio con Genova, vocativo sdrucciolo perfettamente centrale, che sta tra «allegro d’acque» e «è la tua festa», due quinari, il secondo naturalmente con sinalefe):
Genova nel mattino, luce di sale
che affila i monti, schioda le pietra al molo; Genova a mezzogiorno, scossa da un volo di colombe miniate nel blu invernale; Genova nel tramonto, rosso fanale di un orizzonte perso all’estremo polo; Genova nella notte, nero crogiuolo di una vita senz’alma battesimale. Gioia di cielo inchiostro nella tempesta esplosa sugli scogli del lungomare nel riso di dicembre, nel vento duro, ovest di fuoco livido, nord oscuro vorticante sugli alberi, a un rovinare allegro d’acque, Genova, è la tua festa.
Tecnica che non si vede ma c’è (perché poi Calcagno sapeva bene che in poesia tutto muore non appena la tecnica faccia sfoggio di sé). Genova è toponimo di sei lettere (anche Almese lo è: coincidenza che diventa destino). Nel sonetto il nome di Genova è pronunciato espressamente cinque volte (e la quinta proprio nel cuore dell’ultimo verso, a chiudere il settenario). Mentre la sesta è nascosta, ma c’è, perché è pronunciata in forma di acrostico che prende le due terzine, gli ultimi sei versi. Un gioco, insomma, che nulla sottrae – nel suo disporsi – alla forza icastica, all’energia affettiva dell’elogio lirico, che anzi ne vengono esaltate.
Allo stesso modo che la sua versificazione così esatta, agisce il suo linguaggio così vario e ricco. Calcagno amava contaminare. Nell’alta consapevolezza di una lingua a tratti persino solenne, certo eletta e colta, sapeva iniettare la sua memoria dialettale, connettere parole di stridente combinatorietà, incastrare i suoi dialoghi demotici, un parlato che immette la sua dose di ironia e allegria salvifiche, di disso- nanza e arguzia antisentimentali (nulla mai di enfatico, nonostante la vocazione poematica): lo spirito che soffia nei suoi versi, irrorandoli di una fiducia – non certo acritica – in quel futuro – resistente e osti- nato – che affiora dalle più antiche profondità del passato. Io credo che qui – in questa sua capacità di gioco sottile – agisse una sorta di precetto essenziale, che è quello della «letizia», della gioia che viene dall’annuncio di cui si nutriva. Non una specie di sovrapposizione esteriore, una copertina concepita per abbellire: ma una scelta di gra- zia, una vocazione di bellezza. Inutile dirne i maestri che vanno da Dante al Pascoli di Italy e oltre.
Nel caso di Sul sentiero dei Franchi, a fare libro (e non già raccolta nata per successive addizioni), è la struttura di “canzoniere” entro cui la materia si compagina: la «salda strutturazione» di cui parla Guido Davico Bonino nella postfazione. Tre parti (la prima di poesie valsusi- ne, la seconda di poesie metropolitane, la terza di poesie in senso lato religiose) scandite da tre prose introduttive e da nove componimenti per ogni parte. Le prime due di versi liberi (per lo più endecasilla- bi, ma anche versi lunghi), la terza di sonetti che discendono «per li rami» dalla lezione di Michelangelo e – come dicevo – del Della Casa. Il primo verso richiama la geometria dei monti, l’ultimo il fuoco dell’anima. La prima parola è «neve», l’ultima è «cielo». La prima
appartiene alla simbologia del bianco, l’ultima a quella dell’azzur- ro. Ma a colpire è soprattutto la fitta trama dei richiami giocati tra radicamento e leggerezza, tra memoria e destino, tra le nevi d’antan e «l’irruzione dell’imprevedibile» (di cui la morte non è che l’apice). Ciò che più conta è la capacità che Calcagno mostra di ordinare l’e- norme varietà delle suggestioni in una scrittura che concilia la duttile efficacia del ritmo e la varietà plurilinguistica del lessico d’uso spesso orale.
Parole tratte dal latino e dal greco, parole in piemontese (persino in «anglo-gianduja») e parole in altre lingue, parole gergali e setto- riali, parole scientifiche, parole di luoghi, da Almese a Rochemolle, dai «monti di re Cozio» a Novalesa, dalle Orsiere alla Sacra, parole di voci che s’intrecciano e s’intersecano a incastro. Su tutto – in una materia così ricca di rimandi interiori – l’ilare trama degli shock e dei giochi di parola, l’ambiguità su cui scorrono passione e ironia. Baste- rebbe segnalare in proposito l’uso combinatorio dei tanti e mutevoli «se», cui ho fatto cenno per Almese (soprattutto) e per Fra Roncisval-
le e Giosafat.
Proprio per Almese conviene fare almeno un cenno a una pratica rituale cui Calcagno era affezionato e a cui non mancava. Dopo la morte del «poeta di Almese», quel Riva Rocci che Giorgio m’indusse una volta a intervistare per “’L caval ’d bronz” (all’epoca diretto dal maestro e amico di Calcagno, che era Carlo Trabucco), il poeta di Almese e della Madonna di settembre – dal 1994 al 2003 – divenne lui. Sempre cogliendo nel tratto locale il guizzo di uno sguardo che è universale.
Sonetti per lo più in italiano (con inserti dal latino all’almesi- no). Sonetti che non rinunciano al gioco dei numeri (ad esempio, nel sonetto del ’99 l’endecasillabo «l’ultimo 9 del ’99»). Sonetti che s’affollano di toponimi locali. Sonetti che non mancano di costruire il gioco dell’acrostico (il sonetto del ’97 che in verticale costruisce l’omaggio del nome: Madonna d’Almese). Sonetti che parlano di «vento longobardo» (2001) e di «memoria riaffiorante di un domani / color speranza» (1998). Sonetti che giocano sul palindromo (1995) «eva»/«ave». Sonetti come l’ultimo – interamente in piemontese – che voglio trascrivere a chiusura di questo mio “studio”:
O gòja dla Rolèia, o gòja bela, còsa ch’i feve ancheuj, sota dij mont? o gòja dël morté, gòja dël pont
fra ij përfum dël Cifrari e ’l vent dla Sela che a nostra tèra mare giù rasela le fior dij castagné, j’ariss già pront al feu d’otober – sënner ’d nostra front – con ’l pan ëd Monplà, ij bolè ’d Favela; gòja dle fije, dle balarin-e, gòja ch’a dà gòj a st’istà baravantan-a con l’eva bleuva ’d cel, sangiùt dij ròch, gòja ch’a governa ’l Messa, e a pòch a pòch filtra gentila soa corent, fontan-a
për la sej ’d nostri prà, sorgiss ’d giòja.
Finire con il tema della gioia mi sembra il miglior atto di inter- pretazione.
1 G. caLcaGno, La sfida a scacchi, in id., Visita allo zoo, Guanda, Milano 1980, p. 10. 2 c. c
ampo, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 1987, p. 85.
3 G. caLcaGno, Torna a fiorir la rima, “Quaderno del Premio di Poesia Achille Ma-