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NEL GREMBO DI SATURNO

Fu Aristotele a postulare la connessione fra l’umore malinconico e il talento artistico, a fondare la legittimità del legame fra genio e malin- conia. Lo ricorda Rudolf Wittkower nel suo libro Nati sotto Saturno (Einaudi, Torino 1968). Una concezione che, dopo l’eclissi medioeva- le, fu ripresa e rivendicata sul finire del Quattrocento da Marsilio Fi- cino nel De vita triplici (1482-89). Il temperamento ambivalente «dei nati sotto l’altrettanto ambivalente pianeta Saturno – così Wittkower – era un dono divino»; la malinconia dei grandi non altro «che una metonimia per la divina mania platonica». Ampie conferme, volendo, si trovano nel volume di R. Klibansky, E. Panofsky e F. Saxl, Saturno

e la melanconia (Einaudi, Torino 1983), che fin dal 1949 Pavese si

occupava di far tradurre – da Bobi Bazlen, come poi non fu – per il suo editore.

Mi è venuto in mente leggendo, prima ancora che le poesie, il titolo della plaquette di Amedeo Giacomini, Tal grin di Saturni (Nel grembo di Saturno) e, a conferma, la poesia introduttiva: «Jo, nassût di zenâr [...] / ’Ste barbare speranze / ch’a ti àfat vivi tal grin dai jes- si, / grin di Saturni [...]» (Io, nato di gennaio [...] / Questa barbara speranza, / che ti ha fatto vivere nel grembo dell’essere, / grembo di Saturno [...]). Anche Walter Benjamin si considerava un malinconi- co, e rifiutava le etichette della psicologia moderna per appellarsi a quelle assai più segrete dell’astrologia: «Sono venuto al mondo sotto il segno di Saturno, la stella più lenta, il pianeta delle deviazioni e dei ritardi…». La traduzione è di Stefania Bertola, la citazione tratta dal saggio eponimo di Susan Sontag, Sotto il segno di Saturno (Einaudi, Torino 1982). Nessuna intenzione, ovviamente, di istituire confron- ti elettivi nemmeno a distanza; ma sì di innestare piccoli riferimenti bibliografici non del tutto improbabili. Pro domo mea, poiché della vita di Giacomini non so nulla, e appena qualcosa della sua poesia. Semplicemente sto con la Sontag che sta a sua volta con Benjamin: «Non si può usare la vita per interpretare l’opera. Ma si può usare l’opera per interpretare la vita». Ci sono poeti che dissimulano l’io e addirittura lo congelano nell’universo delle cose. Poeti che vivono riparati dietro le barriere formidabili del silenzio (Saturni=suturni?) e

poeti, invece, che denunciano il malessere in gridi di autoflagellazio- ne, in bestemmie e urla di richiamo.

È del saturnino la solitudine, ma anche l’amarezza e l’angoscia che ne scaturiscono: il bisogno di gettarne l’allarme fino allo strazio di sé, all’auto-annullamento. Il canto quasi si fa trenodia: «Mi pese in cuor d’avrîl / la pene antighe, / il nassi da li’ róbis dal murî / cussí auâl al mió jessi / ch’intal nuje si piert simpri di pí» (Mi pesa in cuore dell’a- prile / la pena antica, / il nascere delle cose dal morire / cosí uguale al mio essere / che nel nulla si perde sempre di più).

Il prelievo è fatto sull’ultimo libro poetico di Giacomini, Pre-

sumût Unviâr (Presunto Inverno), Scheiwiller, Milano 1987. II com-

ponimento s’intitola Cjanson. Nello stesso libro, più avanti di poco, è possibile far conto di un “frammento” (Sclese), che offre per davvero il concentrato di ogni discorso: «... E se ch’j’ no soi dîlu, ’ne volte, / ancje s’al coste sanc / (di peràulis magari o d’intensions), / e disi dal muradôr / che al fîl a plomp al fide / la sô vite e la bandone / tant ch’ ’a bastas la buere / a dâigi diression, / e ch’ j’ no soi pietôs disi / cun mé stes, ni cun nissun, / ch’ j’ soi chel ch’ j’ soi / tal mió volê jessi intant ch’ j’ no soi...» (... E ciò che non sono dirlo, una volta, / anche se costa sangue / (di parole magari o d’intenzioni), / e dire del mu- ratore / che al filo a piombo affida / la sua vita e l’abbandona / come bastasse il vento / a darle direzione, / e ch’io non sono pietoso dire / con me stesso, né con nessuno, / che io sono quello che sono / nel mio voler essere mentre non sono....).

C’è tutto. Del saturnino c’è l’amarezza della solitudine, c’è l’in- certezza, c’è la debolezza della volontà e c’è l’intento volontaristico dell’opposto, il «voler essere mentre non sono»; c’è infine la deriva nichilistica, il naufragio dell’essere nel nulla. Ma ci sono anche le co- stanti di un campo semantico paradigmaticamente costruito, come già rilevava Maria Corti introducendo Fuejs di un an (San Marco dei Giustiniani, Genova 1984), intorno al “vocabolo-senhal” nuje (nul- la). A patto che lo si tenga congiunto con il cruciale consorte jessi (essere).

Tutto veramente si tiene, nel mondo poetico di Giacomini, a que- sta coincidenza. Persino il paese d’origine, Vâr, che è voce preroma- na e significa «acqua, umido, liquido amniotico», secondo la nota a pagina 81 del libro poetico omonimo (All’insegna del pesce d’oro, Milano 1978): primo – a non voler far conto delle poesie di Tiare

sione al friulano “rivierasco” e periferico di Vildivâr (Varmo), attuale toponimo. È stato Turoldo a sottolineare subito – con passione reli- giosa – la presenza sintomatica: «Da notare quante volte ricorre nel canto di Giacomini il verbo “jessi” (la vera fatica, da Dio!): il dramma di “jessi”, di “scugnî jessi”, di dover-essere, e quante volte la parola “marum”: che derivi forse la sua radice dal vecchio latino “amaritu- do”?» Bestemmia come preghiera, secondo Turoldo, che faceva di Giacomini un personaggio dostoevskijano; oltre a un senso epico di paese, grembo di madre e di fanciulla, impasto di terra e morte. E basterebbe tenersi allo stupendo poemetto del “frammento” di Vâr,

Scuminsâ (Cominciare).

Poi è stata la volta di Sfuejs (All’insegna del pesce d’oro, Milano 1981), il libro che canta il disadattamento e la tentazione d’abisso, la comunità degli innumeri e sperduti – villonianamente – compaings de

galles: Agnul (Angelo), Lide Massute (Lida Stampella), Rico, Nene

(Nena), Bepo Pusse (Beppe Puzza), Maríe Puttane (Maria Puttana), Jàcun Filòsofo (Giacomo il Filosofo), Toni Mat (Toni Matto) e Tite (Titta). Con Tite l’io poetico di Giacomini tocca alla fine l’epigrafica ironia di un parallelismo esistenziale, che suona – pur nichilistica- mente – in modi gonfi di pietà: «Jo j’ soi vignût di ca (cuj sa?), / tù tu ti sês piardût tal nuje, / mat par chê’ âtris, / par mé un che / “S’è inventato un ego / da opporsi all’alterità...” / Tú “Dasein” par piàrdi- te, / jo madrac par sielte!» (Io sono tornato di qua (chissà?), / tu ti sei perso nel nulla, / matto per gli altri, / per me uno che / “S’è inventato un ego / da opporsi all’alterità...” / Tu “Dasein” per perdita, / io serpe per scelta!).

Quanto al titolo della raccolta, il riferimento amniotico di Vâr vi è ambiguamente disdetto dal contrario: Sfuejs come fogli, «ma anche – dal latino solium – stagni, polle d’acqua marcia, luoghi malsani». Qual è dunque, se non questo, il grembo di Saturno? Ed eccoci così introdotti, dopo il già ricordato e fondamentale Presumût Unviâr (prefato da Dante Isella), all’unitaria plaquette che qui si stampa: Tal

grin di Saturni. Luogo d’agio e di disagio insieme, luogo protettivo e

nello stesso tempo ambiguamente minaccioso e minacciato, grembo dell’essere – lusso calma e voluttà – ma aperto sulla voragine del nulla. Estrapolando da due componimenti diversi per farne un continuum: «grin del jessi – viart sul nuje».

Giacomini raccoglie nei sedici componimenti di questa suite mu- sicalmente franta la tensione di un percorso che si prosciuga, e sem-

bra farsi più essenziale. Vi sta al centro la saturnina indecisione: «cul mió jessi insigûr» (con il mio essere insicuro); così come la paura di essere «o pitost di scugnî jessi?» (o piuttosto di dover essere?). Vi corrono i simboli e gli avvisi di sempre, le identità fraterne e fran- camente vigliacche, le auto-denigrazioni («púar, scuintiât, gnarvôs», povero, smerdato, nervoso), le denunce solitudinarie, i bisogni di compenso («E nissun ti laude»), le amarezze, le frustrazioni, le paure torbide, le tendenze distruttive, che cito per altro da un diverso e più flagrante momento confessionale: «Setembar, mês ch’j’ preferis / e se che jo j’ preferis j’ ami, / e s’ j’ lu ami lu distrûs, / par pene di mé, soledât, marum...» (Settembre, mese che preferisco / e quel che pre- ferisco amo, / e quando amo distruggo, / per pena di me, solitudine, amarezza...). Lo si trova in Fuejs di un an, ma torna qui a meraviglia. Vi corrono, ancora, le antiche preghiere, le strida impietrite, le scon- fitte e infine la luce.

Anche la zoologia omologamente parla: la civetta, il cuculo, la salamandra e soprattutto la serpe, vero e proprio anello di congiun- zione – mitologicamente e alchemicamente nell’interpretazione jun- ghiana di Marie Louise von Frantz – tra mondo dei morti e mondo dei vivi, tra l’essere e il nulla. Accade di ripensare all’osservazione della Corti sull’abbondanza nel friulano delle sibilanti, poiché viene a proposito il verso del componimento Mars (ancora compreso in Fuejs

di un an): «nus fâs madracs tal nuje» (ci fa serpi nel nulla).

Chi ha mai fatto attenzione finora, nel mondo poetico di Giaco- mini, all’uso dell’infinito e correlativamente alla risorsa davvero cla- morosa dell’aposiopesi? Tutto fluttua nella sospensione e l’infinito – tempo fluido e indistinto, pienezza senza appagamento – costituisce la risorsa-base di una grammatica del sogno e della nostalgia, della resistenza e della diserzione. Dicevo però del prosciugamento e della musica scabra a cui Giacomini tende in questa plaquette. C’è dentro la vertigine cupa di un sentire squartato (squarciato), ma anche l’at- tesa di una luce a venire.

In questa comedìa minima la festa nasce – più che altrove – dal trionfo della catastrofe e dal “malumore”.

Paolo Bertolani non è certo uno scrittore di atmosfere rarefatte. At- taccato alla sua preda e alla sua proda lericine divora ossi di parole dialettali come un cane che nasconda la tenerezza col digrigno. Può ben essere ripetuto per la sua poesia ciò che Seamus Heaney afferma della poesia di George Herbert: così sicuramente domiciliata entro la voce e la cultura nativa. Ma nemmeno quando Bertolani scrive in prosa e in italiano (con il Racconto della contea di Levante ebbe nel ’79 il premio Comisso) il tratto tradisce mai la concretezza di un am- biente ad altissima definizione. Ecco perché può stupire che questa mia nota parta da un racconto apparentemente marginale, Il vivaio (2001), che Bertolani ha pubblicato da poco presso Il Melangolo nel- la foggia d’un esercizio genericamente mitteleuropeo, perché a con- giungerlo alle radici più lontane è un desiderio di scarnificare i dati della realtà fino a coglierne l’ultima «fatéssa», l’ultima figura.

Il racconto si modula (più di quanto non si modelli) su alcuni aspetti della vita del grande scrittore classico-romantico Heinrich von Kleist, esile traccia di suggestioni tenute su un registro di concor- danze remote. Ne è protagonista uno scrittore che si chiama Heinrich Kars (un alter ego che è a un tempo alter ego di Kleist e, nonostante la terza persona, un alter ego dell’autore).

Lo troviamo da principio in preda agli spasmi di una natura ner- vosa ed eccitabile mentre aspetta una carrozza che lo deve portare nella città di Uccla per incontrare la fidanzata. La storia dei fatti mi- nimi di un viaggio, che si compie tra ritardi e piccole sorprese dentro un paesaggio inquietante e mutevole, s’intreccia alla storia dei ricordi, delle fantasticherie, dei sogni (un sogno finale, ultimo, freudianamen- te perturbante), che il giovane scrittore avvita alla sua ossessione ego- tistica continuamente sospesa tra identità e alterità. Chiuso a riccio in una solitudine ostinata che patisce rare e fragili eccezioni, Kars scrive lettere alla fidanzata, alla sorella, e ripensa a incontri (uno, deludente e decisivo con Goethe, che nel racconto resta semplicemente inciso nelle iniziali del nome), spremendo il succo della propria poetica che conduce alla trasparenza di una tragica rivelazione, perché la chiarez- za è terribile e la ricerca di ciò che non è che semplice può riservare

il più mediocre dei risvegli o la più sconvolgente delle sorprese. Di fatto Kars non incontrerà la fidanzata, che gli ha lasciato una lettera d’addio, prefigurando lo stesso passo d’un addio più radicale che il giovane scrittore sta per dare alla vita.

In un gioco di sottili rimandi il racconto s’incastona come un pic- colo romanzo en raccourci, inscrivendosi senza sforzo nel percorso del suo autore, nel sottile cono d’ombra che la sua poesia – pur così diversamente concreta e ambientalmente connotata – conosce a me- raviglia. Quel suo scarnire la scrittura in cerca di un ordine che sappia rappresentare il mondo nel momento del suo tramonto, la forza di registrarne la traccia (il sentimento del tempo) proprio nel punto del- la sua sconfitta. Quale miglior correlativo della poesia di Bertolani? Quale migliore avvio al timbro della sua voce?

Con Libi (Libri) – tolti i due primi in lingua e qualche più erra- tica plaquette – siamo al quarto libro-libro in dialetto, dopo Seinà (Einaudi, Torino 1985), ’E góse, l’aia (Guanda, Milano 1988), Avéi (Garzanti, Milano 1994). Tempi lunghi, distillati, che già avvertono d’una costanza e insieme d’una economia sottilmente bilanciate. Non direi nemmeno che esistano tra i libri tempi davvero diversi, se è vero che i frutti della malinconia – la musa di un temperamento saturnino – percorrono l’intero arco dei titoli, almeno quanto la consapevolez- za di uno sguardo d’occhi magari più «vèci» (vecchi), ma più «ciai» (chiari). Basterà ricordare, in Seinà, tanto Tetoia a Romito, da cui ho appena citato, quanto Pésso-Malinconia da cui sto per citare: «Malin- conia, suèla de viagio» (Malinconia, sorella di viaggio).

Tutta la poesia di Bertolani è un tentativo di esprimere il segreto palese del mondo, di cogliere nel suo – di mondo – i frammenti spar- si della sparizione molto più che annunciata, restando sul confine di un’ambiguità irriducibile fissata nell’interrogativo che congiunge – più di quanto separi – la denuncia della scomparsa e l’annuncio dell’esserci. Ed è proprio qui, in questo transito di vita-morte, di presenza (responsabilità) e di distanza (estraneità), che la scrittura di Bertolani conquista la sua necessità di lingua romita e marginale (certo più vocalica e strascicata di quella garfagnina e carrarese, secca «come na s-ciopetà», come una fucilata: Bel’àigua).

In questo senso lo sguardo rivolto a un mondo (e a un modo) della fine conquista il suo posto di luogo assoluto, cui la scelta del dialetto corrisponde come il più naturale e il più inderogabile dei travestimenti, con l’illusione (si veda G’éa tuto ’n fódo, Era tutto un

folto) di poter «’nciòdàlo» (inchiodarlo) – quel mondo – «aa cróse / der fògio» (alla croce del foglio). In questo senso, il titolo del libro ultimo diventa quanto mai antifrastico, perché vi si parla, sì, di libri (e basterebbero le letture esplicite, le traduzioni dichiarate a segnare da traccia), ma la direzione è giustappunto antilibresca, mirando a una natività di voce che solo nell’oralità del dialetto si rende capace di veicolare con il minore dei tradimenti la maggiore delle prossimità, la più nuda e cruda delle trasparenze, sia che si tratti di momenti o di paesi, sia che si tratti – come nell’ultima sezione – di “persone”.

È del resto chiaro il dettato della poesia prima ed eponima: «Nó quei ca vedo chì, / missi a paéde, issà pe i muri, / ma quei fati de strade site e ciàe, / de oci, man, frescùe dré ae cane, / de fòge ’nter libio d’òo de l’aia» (Non quelli che vedo qui, / messi a filari, alzati lungo i muri, / ma quelli fatti di strade silenziose e chiare, / di occhi, mani, frescure dietro le canne, / di foglie nel libro d’oro dell’aria). Almeno quanto lo è la coscienza di un’alterità da cui sempre la poesia proviene, un “andarsene via” che è il puro presupposto d’ogni più straniante ritorno d’identità. Proprio come nella scheggia di poetica che chiude ’A nòte de ’sto tempo (dedicata a Guido Ceronetti): «’A poesia l’è ’n bófo / de góse ’nter bordèlo, / n’andàssene via» (La poe- sia è un soffio / di voce nel frastuono, / un andarsene via).

Quanto ai «libi» altri – quelli di carta – ce n’è qui un buon cam- pionario. Bertolani è poeta di letture selettive che riesce a tradurre (un po’ anche attingendo al già pubblicato) nella piccola antologia di

Lesendo: dalle quasimodiane risultanze di Saffo e di Alceo alle giu-

diciane suggestioni di Machado fino alle luminescenze di Penna e Caproni passando per Antonia Pozzi e Rocco Scotellaro (o lambendo l’ottocentesco passaggio dell’Infinito leopardiano). Ma se dico Giu- dici (pur riconoscendolo poeta tutt’affatto diverso da Bertolani, non foss’altro che per la predisposizione all’incidenza dell’ironia come «principio di struttura»), è piuttosto per vicinanza di luoghi, per con- suetudine di rapporti e per assonanza con quel lettore specialissimo che Giudici ha auspicato alla sua poesia: uno, appunto, che sappia leggere la sua poesia come lo stesso Giudici quando legge Machado.

Più sicuramente congeniali a Bertolani – e presenti al suo testo – restano poeti come Bertolucci e Sereni. Bertolucci attentamente auscultato nell’aritmico battere del verso che può spezzarsi nei punti più inattesi, Sereni più integralmente adibito a marcare l’idea di un profondo vizio di forma della modernità: quella che si esprime nella

pronuncia improvvisa (e da Bertolani ripresa) dell’accorata lamenta-

tio piantata nel cuore degli Strumenti umani: «Non lo amo il mio tem-

po, non lo amo» (Nel sonno). Almeno come viene da Sereni la natura del dialogo (del “tu”), che se ammette interlocutori esterni, è prima di tutto legata agli antagonismi della propria coscienza, slittando da una perplessità a una desolazione che prende i tratti – starobinkiana- mente – della viduitas, della vedovanza esistenziale. E saremmo con ciò giunti a serrare il senso del richiamo introduttivo al racconto Il

vivaio.

Se non fosse – ancora una volta – che la voce di Paolo Bertolani non cessa di tentare le vie più sue, opponendo alla desolazione del postumo il richiamo dei suoi momenti o attimi più vitali: il velluto degli occhi amati, l’aria d’aprile fatta «de ogèti / dai odói lingéi» (di oggetti dagli odori leggeri), la luce della bella Carrara, il campo falcia- to, la tenerezza di un’amorosa elegia: favole minime che continuano – oltre ogni lontananza, oltre ogni confine – a resistere e a “dittare”.

Il “secondo tempo” di Mauro Marè è cominciato con Sìlabbe e stelle (1986), si è definito con Verso novunque (1988), e giunge a un punto di incandescenza assoluta, adesso, in Controcore. Prima ci sono stati i “versi romaneschi” di Ossi di persica (1977), Cicci de sellero (1979) e il libro di un mestiere – quello notarile – tuttavia gratuitamente sen- sibile «al mistero che è nelle cose e nei fatti della vita», Er mantello e

la rota (1982): non a caso patente omaggio al Belli e al magistero del

sonetto come cassa di sonorità tutto sommato collaudate anche se certamente non corrive.

La fedeltà alle misure canoniche e soprattutto la fedeltà a quella signora, come scrisse Marino Moretti, «da trattarsi con tutto il rispet- to», che è la rima, riescono formalmente le strutture forti di raccolte che non disdegnano la tradizione consolidata delle battute epigrafi- che e del teatrino dei tipi, della morale popolana e dell’elogio gastro- nomico, del commentario d’occasione e del travestimento animale o delle cosmogonie beffardamente evoluzioniste. Ma già anche lasciano intendere qua e là, a partire dalla specola romana, la «traggica enor- me buggiarata» dell’intero universo.

Tant’è che in Cicci de sellero, prima che in Sìlabbe e stelle, si pro- pongono accanto a (rari) momenti di madrigalismo affabulato e per- sino grazioso, gli interrogativi sul seme del piangere, le maliziose e antiretoriche riflessioni sul ruolo della poesia e del poeta, le variazioni sull’esile frontiera tra scherzo e scherno, i commenti sulla città eletta e ormai degradata, come nell’affocata galleria di Scipione, a miserabi- le emblema. (Lo si veda nella flagrante terzina di Mamma Roma «de ’sta città, corotta e cortiggiana / bigotta e santa come mai nisuna / e in fonno più de me granne puttana»).

Per non dire del sentimento di morte, di abisso, di deriva che come in un crescendo apocalittico conduce l’esordiente metafora del Tevere che si strascica oppresso «la vita nostra grama» all’esi- to estremo e assai più abbiettamente figurato di una putrida fogna escrementizia. Siamo dunque già oltre le soglie dell’espressionismo per ora prevalentemente contenutistico di Marè. Ma siamo già anche

nei dintorni di un esercizio stilistico, che è trasgressione, quando non addirittura effrazione di parola: stando almeno al filo di un refuso, che kierkegaardianamente sprigiona inopinati ed eccellenti pensieri comico-cosmici, oppure alla traccia semigiocosa di un’aggrovigliata ginnastica linguale, che rivela tra omofonia e omonimia il penoso (e così gaddiano) “gnommero” dell’esistere.

Si allontana dunque per gradi la devozione al milieu tradizionale entro cui Marè – pur con un modo già suo – ha di fatto scritto. Lo ha