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1 Appello e procedimento in camera di consiglio: strumenti utili per contenere i tempi processuali 2 Limiti cronologici per una ragionevole

3. Il cosiddetto “processo lungo”.

Il problema della durata del processo penale ha interessato, parallelamente alla vicenda del “processo breve”, un secondo disegno di legge anch’esso al centro dello scontro politico e oggetto di molteplici critiche da parte del Consiglio superiore della magistratura. Ci si riferisce al disegno di legge A.S. 2567 dal titolo “Modifiche agli articoli 190, 238 bis, 438, 442 e 495 del codice di procedura penale e all’articolo 58 quater della legge 26 luglio 1975, n.354” che il Senato ha approvato il 29 luglio 2011. Il provvedimento, meglio conosciuto come “processo lungo”, ha subito nel corso dell’esame del Senato una profonda metamorfosi culminata nell’approvazione di un emendamento del governo, interamente sostitutivo degli articoli del disegno di legge, sul quale l’esecutivo ha posto la questione fiducia. Il testo varato al Senato ha un contenuto del tutto diverso da quello approvato in prima lettura dalla Camera dei Deputati il 17 febbraio 2011, che era invece esclusivamente finalizzato ad impedire il ricorso al rito abbreviato nei procedimenti relativi a delitti per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo. La profonda metamorfosi del testo è avvenuta nel corso dei lavori della Commissione Giustizia del Senato, durante i quali il senatore Franco Mugnai del Popolo della Libertà ha presentato l’emendamento 1.0.1, la cui approvazione ha stravolto il testo originario approvato alla Camera ed ha introdotto il cosiddetto “processo lungo”. Si tratta di modifiche al Codice di procedura penale che operano sulle norme che regolano il regime di ammissibilità delle prove (in particolare gli articoli artt. 190, 238 bis e 495 del c.p.p.), suscettibili di determinare un allungamento dei tempi di svolgimento dei processi,tanto di quelli che si svolgono con rito ordinario, quanto di quelli da definire con il giudizio abbreviato. E’ proprio il rischio di un indiscriminato aumento dei tempi del processo penale in un momento storico nel quale l’eccessiva durata dei processi è considerata uno dei maggiori problemi della giustizia italiana, che ha indotto alcuni organi di stampa, a definire polemicamente “processo lungo” il testo approvato dal Senato. Alle modifiche del regime di ammissione della prova si sono aggiunti, semp re nel corso dei lavori del Senato, alcuni interventi sulla legge sull’ordinamento penitenziario, in materia di ammissione all’accesso ai benefici penitenziari. L’emendamento Mugnai ha introdotto un tema estraneo alla materia del disegno di legge, quello del regime di ammissibilità delle prove, che è già peraltro oggetto di un altro provvedimento in discussione presso la stessa Commissione giustizia nel contesto più proprio di una riforma complessiva del codice di procedura penale. Nonostante ciò, l’emendamento è stato dichiarato ammissibile a maggioranza, in violazione

dell’articolo l’art. 97, comma 1, del Regolamento del Senato secondo il quale sono improponibili gli emendamenti che siano estranei all’oggetto della discussione.

CONCLUSIONI

La realizzazione della ragionevole durata dei processi, secondo le concordi previsioni dell’art. 6 della CEDU dell’art. 111 della Costituzione italiana e dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’ Unione Europea, è assolutamente prioritaria e centrale in tema di giustizia. Il processo deve avere durata ragionevole, perché possa meritarsi l’appellativo di giusto. Da qui la discussa individuazione di tempi congrui che soddisfino tale requisito. Al riguardo i giudici europei svincolano il concetto di ragionevolezza dai possibili significati che esso assume nelle legislazioni nazionali, elevandolo a principio autonomo, che supera la vaghezza e i frammentarismi di ogni tipo. Il rapporto tra giustizia e tempo evidenzia un potenziale conflitto di valori che trova composizione solo nel contemperamento tra opposte e irrinunciabili esigenze: il massimo della conoscenza nel più breve tempo possibile. L’insegnamento profuso della giurisprudenza di Strasburgo rammenta che ciascuno Stato è tenuto a predisporre la propria organizzazione processuale in modo tale da consentire lo svolgimento del giudizio in tempi ragionevoli, nello spazio di durata necessario ad accertare la fondatezza del diritto vantato o dell’accusa mossa contro il singolo. L’obiettivo non è quello di una giustizia sommaria ma semplicemente tempestiva, posto che l’art. 6 CEDU mira a preservare gli interessi della difesa e di buona amministrazione della giustizia. La convivenza tra le varie fonti impone del resto la ricerca di un difficile e precario equilibrio: il moltiplicarsi delle Carte dei diritti e dei relativi mezzi di tutela, se da un lato infatti offre nuove possibilità per l’appagamento dei bisogno di giustizia che rimangono insoddisfatti negli ordinamenti nazionali, dall’altro ingenera confusione nell’applicazione degli standard di tutela astrattamente previsti. L’impianto processuale italiano apparso per lungo tempo sostanzialmente refrattario alle sollecitazioni europee inizia a palesarsi convenzionalmente orientato. Emerge come la CEDU, considerata per anni un mero atto di normazione internazionale, rappresenta oggi un imprescindibile punto di riferimento sia nel quadro normativo europeo che nel contesto interno di ogni singolo Stato membro. In Italia, per contenere la durata dei processi entro limiti fisiologici imposti dalla Convenzione, come suggerisce alle autorità italiane il Comitato dei ministri, occorre un approccio inter-istituzionale coinvolgente tutti i gli attori principali e la coordinazione al più alto livello governativo. La legge 89/2001 ( legge Pinto ), utilizzata come espediente volto a rimediare al problema della lungaggine dei processi, prevedendo solo misure indennitarie e non anche acceleratorie della procedura, si rivela in realtà assolutamente inidonea ad eliminare le conseguenze

delle già constatate violazioni ed a prevenirne altre; tal elegge aggrava altresì notevolmente il già pesante carico di lavoro delle Corti d’appello e della Corte di Cassazione competenti a pronunciarsi sui relativi ricorsi ed introduce una professionalità collaterale che indice fortemente sull’effettivo costo economico dell’indennizzo totale. Per di più il rimedio Pinto, non si dimostra neppure idoneo a fronteggiare eventuali condotte negligenti di singoli magistrati, causative di irragionevoli ritardi, né a vigilare sull’obbligo dei dirigenti degli uffici giudiziari di realizzare un’efficiente organizzazione del lavoro giudiziario nei limiti dei mezzi e delle strutture disponibili. Nonostante questo, il 2013 presenta una serie di elementi di rilievo: deve essere registrata, per la prima volta dalla introduzione della suddetta legge, un’inversione di tendenza nelle sopravvenienze dei ricorsi proposti per ottenere il ristoro indennitario previsto dalla suddetta legge per la violazione del diritto alla ragionevole durata del processo: stando ai dati tendenziali, disponibili con riguardo al primo semestre 2013, si assiste ad una forte flessione (-62,7%). Si registrano flessioni, pur se più contenute, anche nel numero dei ricorsi per cassazione (1.549, rispetto ai 1.676 del 2012) e delle sentenze di accoglimento senza rinvio (1.204, rispetto alle 1.369 del 2012), mentre aumenta sia il numero delle pronunce di cassazione con rinvio (422, rispetto alle 190 del 2012) sia quello delle decisioni di rigetto o di inammissibilità (672, rispetto alle 450 del 2012). È però presto per dire se tale inversione di tendenza circa le sopravvenienze sia dovuta ad un aumento della virtuosità del sistema giustizia o invece a fattori contingenti e ai limiti imposti ai ricorrenti per equa riparazione ex legge Pinto dalle modifiche contenute nel decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, Misure urgenti per la crescita del paese (art. 55), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 (si pensi in particolare al novellato art. 4 della legge n. 89 del 2001, che impedisce di richiedere l’indennizzo per i procedimenti ancora in corso; o all’art. 5-quater, che sanziona l’abuso del diritto di ricorso). Il 2013 si è caratterizzato per l’avvio della riforma delle circoscrizioni giudiziarie, che ha visto attivamente impegnati il Ministero della giustizia ed il Consiglio superiore della Magistratura: l’auspicio è che una più razionale distribuzione delle risorse umane e materiali contribuisca al recupero di efficienza. La grave crisi in cui versa la giustizia italiana non dipende dall’attuale assetto organizzativo della magistratura che è quello voluto dalla Costituzione del 1948, bensì, secondo l’unanime parere degli esperti, dalla cronica carenza di riforme strutturali, sostanziali e processuali, volte a coniugare celerità, efficienza e garantismo. Si ripone fiducia nella speranza che sia raggiunto un equilibrato contemperamento tra le esigenze di efficacia ed efficienza del sistema, da un lato, e la tutela dei diritti fondamentali nonché la necessità di difesa sociale, dall’altro.

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