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1 Appello e procedimento in camera di consiglio: strumenti utili per contenere i tempi processuali 2 Limiti cronologici per una ragionevole

2. Il procedimento per l’equa riparazione.

Il procedimento per l’equa riparazione è disciplinato dall’art.3 della legge n.89/2001: esso prende avvio con la domanda proposta con ricorso scritto da un difensore munito di procura speciale e contente gli elementi di cui all’art. 125 c.p.c.; il ricorso deve essere depositato nella cancelleria della corte d’appello del distretto in cui ha sede il giudice competente. La domanda è proponibile anche durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata; a procedimento concluso il ricorso va proposto, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione è divenuta definitiva. La legittimazione passiva nel procedimento riparatorio spetta al ministro della giustizia quando si tratta di procedimenti del giudice ordinario; al ministro della difesa quando si tratta di procedimenti del giudice militare; al ministro delle finanze quando si tratta di procedimenti del giudice tributario e, negli altri casi, al presidente del consiglio dei ministri. Il ricorso, unitamente al decreto di fissazione della camera di consiglio, è notificato, a cura del ricorrente, all’amministrazione convenuta, presso l’avvocatura dello stato almeno quindici giorni prima della data dell’udienza. Il contraddittorio è assicurato con il riconoscimento alle parti del diritto di comparire personalmente e di essere sentite in camera di consiglio, unitamente ai loro difensori. L’art.3 consente inoltre il deposito di memorie e la produzione di documenti sino a cinque giorni prima della data in cui è fissata la camera di consiglio, ovvero sino al termine che è a tale scopo assegnato dalla corte a seguito di relativa istanza delle parti. Sul ricorso la corte si pronuncia, entro quattro mesi dal deposito, con decreto motivato immediatamente esecutivo, impugnabile con ricorso per cassazione. La chiusura del sistema dell’equa riparazione è contenuta

nell’art. 3 comma 6 della legge 89/2001, dove si prevede che il procedimento per l’accertamento della violazione dell’art. 6 della Convenzione europea debba concludersi con l’emissione del decreto conclusivo entro quattro mesi dal deposito del ricorso diretto ad ottenere la riparazione. Evidentemente si tratta di un termine ordinatorio, nel senso che il suo superamento non incide sulla validità degli atti compiuti dopo la scadenza.

La legge Pinto prevede il risarcimento sia del danno patrimoniale che non patrimoniale, richiamando inoltre la disciplina codicistica del risarcimento del danno extracontrattuale; il danno patrimoniale soprattutto sotto il profilo del danno emergente, deve essere adeguatamente provato. Vengono quindi fissati tre criteri per determinare la durata ragionevole del processo: 1) la complessità del caso, 2) il comportamento delle parti, 3) il comportamento del giudice del procedimento e delle altre autorità che vi concorrono; la giurisprudenza di merito ha attribuito rilevanza ad un ulteriore parametro rappresentato dalla posta in gioco, ovvero della rilevanza degli interessi che costituiscono l’oggetto del giudizio. L’art. 2 della suddetta legge prevede la riparazione del danno patrimoniale e non: in ordine al primo, esso potrà venire in rilievo sotto il profilo del danno emergente e del lucro cessante, per cui il ricorrente dovrà fornire idonea prova del pregiudizio patrimoniale a causa della prolungata durata del processo che lo ha riguardato, con la precisazione che con riferimento al lucro cessante ai sensi dell’art. 2056 c.c., esso è valutato dal giudice anche con equo apprezzamento delle circostanze del caso. Per quanto concerne il danno non patrimoniale, oltre al danno alla salute, può rilevare il danno morale rappresentato dalla sofferenza, dal turbamento derivanti dall’irragionevole prolungarsi del procedimento che possono giustificare una posta risarcitoria più significativa in rapporto all’entità degli interessi in gioco. Stesso discorso può farsi per il danno esistenziale inteso come diminuzione della qualità della vita e pregiudizio allo svolgimento dell’attività. Ai fini del risarcimento del danno morale spetta all’attore provare di aver subito il danno invocato, ma tale onere può essere assolto mediante l’allegazione di elementi di riscontro logico che consentano al giudice di ritenerlo esistente in via meramente presuntiva; è consentito al giudice desumere tale prova anche da presunzioni semplici o nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza. In riferimento al danno non patrimoniale il giudice potrà liquidarlo in via equitativa caso per caso, secondo il proprio personale apprezzamento.

La Corte europea ha affermato il principio che il giudice nazionale, nell’accordare il dovuto indennizzo alle vittime della giustizia lenta deve conformarsi ai principi e agli standard fissati dalla

Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Significative sono poi state le sentenze della Cassazione civile n. 1339 e 1340 del 2004, in base alle quali il diritto al risarcimento del danno morale sorge per il solo ed esclusivo rilievo che quel processo non è stato trattato entri termini ragionevoli, ciò anche in virtù di una tutela di spessore costituzionale; tuttavia non si tratta di un danno evento ma di un danno conseguenza, quindi deve essere provato nella sua essenza e quantificazione. La sentenza 1339 ammette che il danno non patrimoniale possa anche venire escluso quando le more del processo abbiano in realtà giovato alla parta che poi le lamenta, stante la sua consapevolezza sull’infondatezza delle proprie istanze. Il principio più importante fissato dalle pronunce in esame è quello secondo il quale le corti d’appello e la stessa Cassazione devono seguire i dettami di Strasburgo nell’interpretazione ed applicazione della legge Pinto, e non solo con riguardo ai criteri interpretativi delle varie disposizioni ma anche con riferimento ai parametri valutativi dei danni morali, pur conservando un margine di valutazione.