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CAPITOLO 3 Come cambia la professione

3.3 Come la crisi ha impattato sulle aziende e sulla professione

L’Italia è uno tra i paesi europei ad aver risentito maggiormente della crisi economica. Iniziata nel 2007 ha portato a diminuire il pil pro-capite del 11,5%, raddoppiare il tasso di disoccupazione e far crollare la produzione industriale del 24,6%. Le chiusure aziendali sono salite vertiginosamente e sono state l’effetto più devastante di questi anni, portandosi dietro tutte le conseguenze del caso legate ai soggetti e realtà attorno all’impresa stessa. La crisi ha impattato anche sulla professione del commercialista, che pur essendo anticiclica rispetto all’andamento normale del mercato, non è stata in grado di contenere la diminuzione di fatturato e dei margini. La crisi ha complicato un contesto già fragile poiché colpito da profondi mutamenti strutturali quali la globalizzazione, il processo d’integrazione europea e il mutamento tecnologico.

Mentre si attuavano mutamenti globali che portavano alla nascita di un nuovo paradigma produttivo, non dobbiamo dimenticare che si sono associate le difficoltà, legate alla scarsa competitività del nostro paese, che hanno indebolito il sistema produttivo determinando forti processi di ristrutturazione, spesso culminati nella chiusura di azienda e nella perdita dei posti di lavoro.

L’Istat, nel censimento dell’industria e dei servizi, ha mostrato una prevalenza di modelli di governance nel sistema produttivo italiano, caratterizzato da un elevato controllo prevalentemente familiare, un’alta concentrazione di quote di proprietà e una gestione fortemente accentrata. Oltre il 75% delle piccole imprese, il 60% delle medie e il 31% delle imprese di grandi dimensioni risultano essere controllate da una persona fisica o da una famiglia e, la presenza di un manager interno o esterno caratterizza solo il 5% delle aziende.

Un assetto proprietario così condizionante, sommato a un’arretratezza del sistema imprenditoriale italiano sono stati per il commercialista la sua “fortuna” e la sua “rovina”. Il

67 carattere unifamiliare delle imprese ha permesso al professionista di creare un rapporto di fiducia con l’imprenditore, diventandone il principale consigliere, per supportarlo dalle decisioni in ambito finanziario, amministrativo fino a quelle in ambito produttivo, strategico. Allo stesso tempo però, questo fenomeno ha frenato l’evoluzione del professionista stesso e del suo studio, perché mentre in tutta Europa l’assetto proprietario delle imprese cambiava, accostandosi sempre di più al modello americano caratterizzato da forte frammentazione delle quote e importante presenza manageriale e la consulenza attorno all’impresa si faceva sempre più “industriale” e specializzata, in Italia rimanevano numerosi gli studi professionali piccoli e poco organizzati.

La mancata evoluzione della professione, se con un sistema produttivo che si alimentava da solo poteva continuare a funzionare, con la crisi ha mostrato le sue prime falle, poiché dietro a un’azienda che aveva bisogno di cambiare non c’era un professionista pronto a supportarla e indirizzarla in questo processo d’innovazione.

Se guardiamo l’impatto della crisi sulla struttura organizzativa dello studio, dalle indagini svolte dalla Fondazione Nazionale dei Commercialisti64, notiamo una progressiva riduzione

degli studi individuali, che non favorisce, però, né la formazioni di network, né l’associazionismo professionale, bensì la pratica dello studio condiviso, ossia la condivisione dello studio finalizzata al mero abbattimento dei costi.

I network professionali e la pratica della collaborazione in rete, attuata per sfruttare le economie di specializzazione ha avuto un boom di diffusione dal 2000 al 2007, interessando soprattutto gli studi di piccola dimensione, per poi subire una battuta d’arresto in seguito alla crisi; evidenza di come i professionisti in difficoltà siano andati in cerca di economia di scala per ridurre i costi piuttosto che economie di specializzazione per ampliare la qualità della loro offerta.

Se l’incapacità di evoluzione danneggia soprattutto le fasce più mature della professione, per i più giovani, entrati a far parte della professione nei primi anni del duemila, le maggiori difficoltà risiedono nell’investimento per l’apertura di un nuovo studio. In ogni caso, l’aggravarsi e il prolungarsi della crisi economica ha costretto tutta la categoria a rivedere i programmi di sviluppo e l’organizzazione del proprio lavoro e studio. Ci sono altri fattori che hanno condizionato la linea evolutiva della professione, seppur meno impattanti in termini reali; uno

64 Indagini statistiche nazionali: “L’evoluzione della professione di commercialista”, Istituto di ricerca dei dottori

commercialisti e degli esperti contabili, 2012 e “Organizzazione dello studio e specializzazione professionale”, Fondazione Nazionale dei Commercialisti, 2014

68 di questi è la continua legiferazione in materia economica e fiscale. L’eccesso di regolamentazione e la complessità che hanno caratterizzato il sistema normativo dello stato italiano, hanno portato l’imprenditore a richiedere un’assistenza specifica fiscale al commercialista; il quale è stato letteralmente travolto da questa nuova domanda e come successo in passato, ha intrapreso questa nuova direzione evolutiva cavalcando passivamente l’onda del mercato.

Se a prima vista questo fenomeno sembrerebbe favorire l’attività professionale, per via dell’aumento della domanda in materia, dall’altra si è accostato anche un incremento dei costi organizzativi e operativi dello studio, mentre le tariffe, si sono quasi sempre dimostrate rigide e i ricavi non proporzionali. Mentre il commercialista diventava un “braccio” dello Stato, all’interno dello studio i cambiamenti organizzativi dell’attività del professionista seguivano le necessità indotte dalla complessità normativa e dallo “sviluppo tecnologico” del sistema fiscale. C’è chi parla, dietro questo sviluppo del sistema fiscale, di un tentativo di “industrializzare” una parte di attività in modo che essa possa essere svolta da altri soggetti diversamente organizzati, in questo periodo infatti cominciano a diventare pressanti le figure competitive come le professioni non regolamentate, le associazioni di categoria e le società di consulenza. Un professionista in piena crisi economica, si trova quindi a sostenere fiscalmente un’impresa che in questo momento non solo spesso non aveva neanche i fondi per pagare le tasse allo stato ma che si trova a dare priorità a questioni ben più urgenti, come l’affrontare una situazione di default e un incapacità di far fronte a un mercato completamente cambiato rispetto al passato, in cui il suo modello di business non è più adeguato. E qui veniamo a un altro aspetto problematico fortemente condizionante sull’evoluzione professionale, ovvero i limiti culturali soggettivi che derivano dal modello istituzionale della professione stessa. Ciò che emerge con chiarezza dalle indagini della Fondazione Nazionale Commercialisti è la scarsa propensione dei professionisti ad ampliare la loro offerta di consulenza e andare oltre la cosiddetta “attività di base”, rappresentata dall’assistenza e consulenza continuativa in materia contabile e fiscale. I dati dell’indagine 2012 coincidono perfettamente con quelli della prima indagine statistica nazionale del 2000, che mostrano una professione “compatta e tradizionalista”, saldamente ancorata al modello tracciato nel 1953 e alla figura del commercialista poi delineata nel 1972 con la riforma fiscale.

Oggi la coscienza del cambiamento in atto porta i professionisti a voler ampliare e diversificare le proprie competenze e la propria offerta di consulenza, anche stimolato dalle imprese cliente sono quindi alla ricerca di un nuovo modello di business ma senza voler abbandonare il modello

69 tradizionale che ha retto la professione negli ultimi cinquant’anni.

Nonostante tutte le problematiche che ha portato la crisi e le incertezze sul futuro professionale le opportunità, anche se nascoste non mancano. Il quadro post crisi, ha lentamente demolito il mito della grande impresa, legata al distretto industriale e alla produzione in larga scala, riportando al centro della scena economica le PMI, reinserite in filiere produttive diventate ormai globali e che con la loro gestione unitaria o familiare rappresentano il motore dell’economia italiana ma anche i primi clienti del commercialista in quanto rappresenta la figura più vicina e accessibile a cui potersi rivolgere. Ciò che rispetto al passato cambia è sicuramente l’incertezza sia sul piano operativo sia sul piano strategico che si trovano ad affrontare, ma che allo stesso tempo fa sorgere la necessità di una consulenza aziendale specifica e di avere un consigliere di fiducia al suo fianco che riporta a galla quel rapporto fiduciario tra imprenditore e professionista che c’era in passato.

Si va così delineando, accanto al commercialista fiscalista quella del commercialista aziendalista, una figura in grado di affiancare l’imprenditore anche nelle funzioni più manageriali come la gestione strategica e operativa dell’ azienda.

Se questa sia la naturale evoluzione della categoria o solo un’importante area di specializzazione che si va delineando non è ancora chiaro, non vogliamo dimenticare infatti, che una grossa fetta di professionisti sta percorrendo un altro versante evolutivo della professione: ovvero il ruolo di professionista sussidiario della Pubblica amministrazione. Un’area di forte valenza specialistica che sicuramente non va a coinvolgere l’intera categoria ma che esalta le competenze dell’area giuridica, che rappresentano, insieme a quelle economico-aziendale e a quelle fiscale, le principale aree di competenza del dottore commercialista.

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