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La critica di Speusippo e alcune ipotesi sul pubblico del discorso

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4. La critica di Speusippo e alcune ipotesi sul pubblico del discorso

Anche a questo passo Speusippo fa riferimento nella sua lettera a Filippo: βουλοίμην δ’ ἂν χωρῆσαι τὸ βιβλίον ἀναμνῆσαι τὰς ἐν τῷ λόγῳ πρὸς σὲ πεμφθείσας ὑπ’ αὐτοῦ προφάσεις· … ὑπὲρ ἐνίων δὲ διὰ τὴν ἡλικίαν ὁμολογῶν μαλακώτερον γράφειν συγγνώμης ἀξιοῖ τυχεῖν, μὴ θαυμάζειν δ’ εἰ καί πως ἀναγνοὺς ὁ Ποντικὸς μωλύτερον, [καὶ] φαυλότερον ποιεῖ φαίνεσθαι τὸν λόγον (Socr. Ep. 30.13-14). Le osservazioni di Isocrate riguardo alla cattiva lettura dei discorsi scritti (§§ 26-7) potevano apparire inopportune, se chi leggeva il Filippo era proprio il suo allievo Isocrate di Apollonia Pontica. Se accettiamo l’autenticità della lettera e l’identificazione del Ποντικός menzionato da Speusippo (§§ 11, 14) con l’omonimo di Isocrate, è difficile che Speusippo facesse riferimento alla lettura da parte dell’Apolloniate senza avere prove sicure che le cose fossero andate effettivamente così: con una critica ingiustificata a Isocrate, Speusippo avrebbe sicuramente compromesso la sua credibilità. Il problema sollevato da Speusippo riguardo alle osservazioni dei §§ 26-7 non può essere quindi trascurato. Non sembra che vi siano molti modi per giustificare la presenza di tali indicazioni in relazione all’effettiva situazione di performance del Filippo alla corte macedone. Tre possibili spiegazioni sembrano piuttosto insoddisfacenti: 1) si può interpretare la discussione di quei paragrafi come un semplice topos retorico. Come Isocrate afferma la debolezza del suo stile, così la possibilità di una lettura non particolarmente vivace potrebbe essere vista come ulteriore occorrenza di un Bescheidenheitstopos, stavolta riferito all’Apolloniate. Questa possibilità sembra tuttavia la meno probabile, visto il tono piuttosto critico con cui Isocrate descrive questa lettura manchevole (26 ὥσπερ ἀπαριθμῶν); 2) la discussione deve essere intesa come generale, e non strettamente riferita al discorso presente: ma in effetti Isocrate afferma proprio che ἅπερ (§ 27, riferito ai tratti caratteristici della lettura monotona) potrebbero far apparire peggiore anche il discorso presente; 3) Isocrate potrebbe riferirsi a successive letture compiute da altre persone, appartenenti alla corte di Filippo (tanto più che consiglia a Filippo di riprendere in esame le singole parti del discorso: 29 ἀναλαμβάνων). In questo senso, le indicazioni di Isocrate potrebbero fungere da impliciti avvertimenti per l’eventuale lettore (sulla linea di Antid. 15), affinché egli non legga il discorso

μηδὲν ἦθος ἐνσημαινόμενος (§ 26)286. Ma questa ipotesi, ovviamente, non

elimina le difficoltà sollevate da questo passo durante la presunta prima lettura eseguita dall’allievo di Isocrate.

Non rimane quindi che constatare una certa tensione fra queste indicazioni e l’effettiva situazione di performance del Filippo alla corte macedone. Un’alternativa sarebbe tuttavia di spostare questa tensione sul piano dei molteplici pubblici di questo discorso: il contrasto sarebbe quindi fra la volontà di fornire indicazioni a Filippo per la fruizione di questo discorso e la volontà di parlare ad un pubblico più generale – non solo riguardo a questo specifico discorso, ma riguardo a qualsiasi discorso isocrateo. Un confronto con l’inizio dell’epistola 1 è illuminante: a differenza che in quest’ultima, dove la vecchiaia di Isocrate è subito addotta come giustificazione per l’invio dell’epistola287, nel

Filippo Isocrate non esplicita il motivo per cui non sarebbe andato lui stesso da Filippo, invece di mandare un discorso. La differenza potrebbe essere ricondotta alle diverse circostanze storiche, ma può essere anche interpretata come un segno della differente finalità di Phil. 25-9. Isocrate non vorrebbe giustificare il rimedio rappresentato dal testo scritto in questa specifica circostanza, ma legittimare la sua scelta volontaria della scrittura durante tutta la sua carriera. Il suo obiettivo non sarebbe tanto Filippo, quanto il pubblico più ampio del discorso. Isocrate non fa neppure riferimento a discorsi “inviati” (come Ep. 1.3 ἐν δὲ τοῖς ἐπιστελλομένοις καὶ γεγραμμένοις), ma semplicemente a discorsi “letti”: la specifica situazione epistolare del Filippo gioca un ruolo solo marginale, mentre si fa riferimento più generalmente alla modalità di presentazione che caratterizzava qualsiasi discorso isocrateo. Benché elementi di una trattazione più generale siano già presenti nell’epistola 1288, la rilevanza

generale della discussione del Filippo è più marcata. Ciò sembra confermato dall’identificazione dei discorsi λεγόμενοι con i discorsi assembleari, che solleva dubbi sulla rilevanza della discussione per Filippo: in quale occasione Filippo, da monarca, poteva avere un’esperienza paragonabile a quella dell’assemblea ateniese?289 Benché questa sezione si chiuda con l’invito a

Filippo affinché si faccia modello di fruitore del discorso, il destinatario implicito di questa discussione sembra includere in modo piuttosto evidente il pubblico generale del Filippo. Quando Isocrate menziona il τις che potrebbe

286 Anche le espressioni piuttosto critiche usate da Isocrate non farebbero difficoltà ad un’ipotesi del genere. Un atteggiamento poco favorevole nei confronti della corte di Filippo, in particolare verso gli hetairoi, Isocrate l’aveva già mostrato nei paragrafi precedenti: cfr. §§ 2-3. Inoltre, della lettura può essere stato solitamente incaricato uno schiavo (cfr. Usener 1994, 6 n. 23). 287 Ep. 1.1 Εἰ μὲν νεώτερος ἦν, οὐκ ἂν ἐπιστολὴν ἔπεμπον, ἀλλ’ αὐτὸς ἄν σοι πλεύσας ἐνταῦθα διελέχθην κτλ.

288 Cfr. Eucken 1983, 47.

289 Si potrebbero far rientrare nella categoria dei discorsi λεγόμενοι anche i discorsi πρεσβευτικοί (di due grandi oratori ateniesi, del resto, Filippo era appena stato destinatario nell’ambascerie per la pace di Filocrate). Ma il riferimento alla voce sembra tuttavia presupporre il contesto dell’assemblea, dove le capacità vocali giocavano un ruolo fondamentale, data la dimensione del pubblico.

leggere male un discorso, quindi, egli si riferisce a tutti coloro che erano incaricati della lettura nelle usuali situazioni di fruizione dei discorsi diffusi in forma scritta, in particolare quelli isocratei290.

La combinazione dei due destinatari potrebbe effettivamente aver creato qualche problema a Isocrate nella composizione del discorso. Non è neppure da escludere che Isocrate abbia rielaborato questa sezione dopo aver spedito il discorso a Filippo: la versione spedita a Filippo potrebbe essere stata più simile alla corrispondente discussione dell’epistola 1, mentre nella versione pubblica Isocrate avrebbe inserito il riferimento ai discorsi simbuleutici e agli effetti della performance – di maggiore interesse per il pubblico ateniese. Per passare dall’una all’altra versione, del resto, non si deve ipotizzare una rielaborazione particolarmente invasiva. Questo potrebbe essere stato l’elemento che ha tratto in inganno Speusippo, il quale avrebbe riferito le indicazioni del Filippo “pubblicato” alla situazione di performance del discorso alla corte macedone291.

In ogni caso, possiamo rilevare anche qui una forte finalità apologetica di questa sezione, che si accorda con la caratterizzazione più generale del discorso, il quale vuole sottolineare i meriti delle scelte retoriche e politiche di Isocrate lungo tutta la sua carriera (cfr. Introduzione [4]).

§ 25

οἱ λεγόμενοι

Si tratta dei discorsi orali, pronunciati senza l’ausilio evidente di un testo scritto. Dai riferimenti successivi risulta chiaro che si tratta più specificamente dei discorsi simbuleutici, pronunciati dai rhetores in assemblea (26 περὶ σπουδαίων πραγμάτων καὶ κατεπειγόντων ῥητορεύεσθαι). Isocrate non li presenta esplicitamente come discorsi “improvvisati”, in parte perché l’opposizione improvvisazione-preparazione scritta non è la questione principale di questa discussione, in parte – forse – perché non esclude la possibilità che tali discorsi fossero preparati precedentemente in forma scritta (cfr. Premessa [1]). Plut. Dem. 8 testimonia che una tale pratica era seguita da Demostene (la testimonianza è generalmente accettata: cfr. Trevett 1996, 436-437), ma il suo ricorso alla scrittura doveva essere considerato piuttosto inusuale al tempo (Trevett 1996, 436, sulla base delle critiche mosse a Demostene a questo riguardo). Si deve dunque pensare che Isocrate stia supponendo o sapesse di un uso della scrittura anche da parte di altri oratori politici (il che non è in effetti da escludere storicamente), o che alluda specificamente a Demostene (il quale, tuttavia, potrebbe aver preparato i suoi discorsi non in tutti i loro dettagli, ma

290 Su questa modalità di fruizione, cfr. nota a 25 τῶν ἀναγιγνωσκομένων. Una fruizione “in gruppo” è descritta dalla stessa lettera di Speusippo: cfr. 1 παρ’ ἡμῖν ἀναγνωσθέντος ἐν διατριβῇ τοῦ σοὶ πεμφθέντος ὑπ’ Ἰσοκράτους λόγου.

291 Tutto questo, ovviamente, se si presuppone che il discorso sia stato effettivamente inviato al re macedone.

solo singole sezioni di essi: la raccolta dei Proemi nel corpus demostenico potrebbe essere un riflesso di questa modalità di composizione).

Che λέγειν possa essere utilizzato anche per indicare la recitazione di discorsi precedentemente preparati, è confermato da Rh. Al. 36.37.44a18-9 ἐὰν δὲ διαβάλλωσιν ἡμᾶς ὡς γεγραμμένους λόγους λέγομεν, 22 γεγραμμένα λέγειν, Alcid. Soph. 21 τοῖς δὲ γεγραμμένα λέγουσιν (cui si affianca la corrispondente espressione τοῖς μὲν γὰρ ἄγραφα λέγουσιν al § 24) e da un passo di Isocrate stesso, Antid. 14 οὗτος γὰρ αὐτὸς συγγεγραμμένα λέγων: cfr. Mariß 2002, 235.

τῶν ἀναγιγνωσκομένων

Si tratta dei discorsi letti direttamente da un testo scritto: la cui natura scritta, quindi, è assolutamente evidente. La finalità di tali discorsi consiste, secondo il pubblico, nella dimostrazione delle abilità retoriche dell’oratore (25 ἐπίδειξις) e nell’acquisizione di nuovi allievi (25 ἐργολαβία). Più avanti Isocrate preciserà che tali discorsi sono – almeno secondo la percezione comune – opera dei σοφισταί (§ 29). L’identificazione fra sofisti e libri è frequente nella letteratura di V e IV secolo: cfr. Mariß 2002, 87-88; Hel. 2 ὅστις οὐκ οἶδεν Πρωταγόραν καὶ τοὺς κατ’ ἐκεῖνον τὸν χρόνον γενομένους σοφιστὰς ὅτι καὶ τοιαῦτα καὶ πολὺ τούτων πραγματωδέστερα συγγράμματα κατέλιπον ἡμῖν; Pl. Smp. 177b1- c1 εἰ δὲ βούλει αὖ σκέψασθαι τοὺς χρηστοὺς σοφιστάς, Ἡρακλέους μὲν καὶ ἄλλων ἐπαίνους καταλογάδην συγγράφειν … ἔγωγε ἤδη τινὶ ἐνέτυχον βιβλίῳ ἀνδρὸς σοφοῦ κτλ., Xen. Cyn. 13.1-2 περὶ μὲν τῶν ματαίων πολλὰ αὐτοῖς (sc. τοῖς σοφισταῖς) γέγραπται (σύγγραμμα viene anche definito il racconto su Eracle di Prodico in Xen. Mem. 2.1.21). Cfr. anche Isocr. Phil. 12 ὑπὸ τῶν σοφιστῶν γεγραμμέναις. Nel Fedro viene esplicitamente detto che i personaggi politici più importanti della città hanno evitato di lasciare scritti, per paura di essere chiamati σοφισταί (257d4-8).

Fra i discorsi ἀναγιγνωσκόμενοι Isocrate può aver considerato, per esempio, gli scritti menzionati nelle prime pagine dell’Elena, sia quelli dei sofisti di V secolo (§ 3) sia gli scritti filosofici di Antistene, di Platone e degli eristi, presentati in Hel. 1 (su cui Tulli 2008). Anche opere come il discorso Sui sofisti di Alcidamante (che si presenta esplicitamente come discorso scritto in quanto forma di promozione delle capacità dell’autore: § 31) e più in generale tutti i testi prodotti dalle scuole filosofiche e retoriche possono essere stati considerati nella categoria.

Testimonianze di letture pubbliche di discorsi da parte degli autori stessi sono relativamente poche e incerte. Per quanto riguarda il V secolo, si vedano D.L. 9.50, 54 (su Protagora e Prodico: non sembra invece che si possa dimostrare una lettura pubblica del Troikos dialogos da parte di Ippia stesso: cfr. O’Sullivan 1996, 119 n. 14). Per il IV secolo, D.L. 2.62 testimonia di una lettura pubblica da parte di Eschine; D.L. 3.35, 37 da parte di Antistene e Platone292. In ogni

292 Non è chiaro se il discorso ἐρωτικός di Lisia sia stato letto o recitato a memoria da quest’ultimo. Il fatto che Fedro provi a imparare a memoria il discorso (228b4-5) potrebbe far pensare che questa sia stata anche la modalità di performance attuata da Lisia. In ogni caso, un

caso, non è necessario pensare a discorsi letti in pubblico dall’autore stesso: anzi Isocrate fa riferimento a lettori che non sanno dare la giusta espressività al discorso – lettori qualunque, quindi. Isocrate potrebbe riferirsi a letture in piccoli gruppi, dove un singolo si incarica di leggere ad alta voce il testo per gli astanti: è questa, del resto, la modalità di fruizione più probabile per i discorsi di Isocrate stesso (cfr. Hudson-Williams 1949) e per le opere di altri autori (cfr. Ryle 1966, 44-54; Kelly 1996; Pownall 2007a, 240).

ὑπειλήφασιν

Parola chiave: è l’effetto sul fruitore ad essere determinante – e la convinzione sbagliata che ne deriva. Ulteriore conferma che non si tratta di stabilire una differenza qualitativa fra due modi di composizione (cfr. Premessa [1]).

περὶ σπουδαίων πραγμάτων καὶ κατεπειγόντων

Nell’uso di σπουδαῖα sembra implicita l’opposta caratterizzazione dei discorsi scritti come “gioco” e occupazione secondaria, alla quale Isocrate alluderà al § 29 (cfr. nota a μὴ πάρεργον ποιούμενος κτλ.). Cfr. Pl. Phdr. 276d2 παιδιᾶς χάριν σπερεῖ τε καὶ γράφει; i sofisti stessi presentavano i propri prodotti letterari sotto l’insegna del “gioco”: Gorgia definiva l’Encomio di Elena ἐμὸν δὲ παίγνιον (§ 21); per Trasimaco è attestato il titolo Παίγνια (85 A1 DK = D2 LM): per altri riferimenti e bibliografia, cfr. Mariß 2002, 311-313. Non è escluso che Isocrate fosse d’accordo su questo giudizio per quanto riguardava i discorsi scritti dai sofisti; ma le qualità normalmente ascritte ai contenuti dei discorsi λεγόμενοι erano rivendicate da Isocrate per i suoi propri discorsi: il verbo σπουδάζειν – in antitesi con παίζειν – compare in Hel. 11 per sottolineare le qualità dei discorsi di Isocrate in confronto agli scritti paradossali dei sofisti (cfr. anche Antid. 265 τὰ σπουδαιότερα καὶ πλείονος ἄξια τῶν πραγμάτων, in opposizione all’educazione dell’Accademia; Panath. 15 σπουδαιοτέραν ἐμοῦ πεποιημένου τὴν αἵρεσιν, e l’eccezione alla regola rappresentata da Bus. 9 καίπερ οὐ σπουδαίαν οὖσαν); similmente, Isocrate utilizza κατεπείγοντα in De pac. 132 per definire i contenuti della sua stessa orazione (cfr. anche Ep. 2.2 τῶν μᾶλλον κατεπειγόντων). Nel Panatenaico Isocrate afferma anzi la superiorità dei propri argomenti rispetto a quelli degli oratori attivi in assemblea: 11 περὶ μειζόνων καὶ καλλιόνων ἢ ’κεῖνοι τοὺς λόγους ἐποιούμην. Σπουδαῖος ricorda anche il modo in cui gli oratori affermavano l’importanza del loro argomento nel proemio: Dem. 24.4 εἰώθασιν μὲν οὖν οἱ πολλοὶ τῶν πράττειν τι προαιρουμένων τῶν κοινῶν λέγειν ὡς ταῦθ’ ὑμῖν σπουδαιότατ’ ἐστὶν καὶ μάλιστ’ ἄξιον προσέχειν τούτοις, ὑπὲρ ὧν ἂν αὐτοὶ τυγχάνωσι ποιούμενοι τοὺς λόγους (un topos che Isocrate riprende in De pac. 1: Ἅπαντες μὲν εἰώθασιν οἱ παριόντες ἐνθάδε ταῦτα μέγιστα φάσκειν εἶναι καὶ μάλιστα σπουδῆς ἄξια τῇ πόλει, περὶ ὧν ἂν αὐτοὶ μέλλωσι συμβουλεύσειν … εἰ καὶ περὶ

testo scritto era presente, forse come aide-mémoire per Lisia stesso: quel testo finisce poi nelle mani di Fedro (228b1-2).

ἄλλων τινῶν πραγμάτων ἥρμοσεν τοιαῦτα προειπεῖν, δοκεῖ μοι πρέπειν καὶ περὶ τῶν νῦν παρόντων ἐντεῦθεν ποιήσασθαι τὴν ἀρχήν).

ῥητορεύεσθαι

Il verbo compare altre tre volte in età classica (Isocr. Ep. 8.7, Pl. Grg. 502d2, Rh. Al. 36.39.44a33); questa è l’unica occorrenza in cui è usato transitivamente. Anche in Ep. 8.7 indica l’attività retorica in quanto esercitata da politici attivi in assemblea (in contrapposizione all’attività retorica di Isocrate: Ἐγὼ τοῦ μὲν πολιτεύεσθαι καὶ ῥητορεύειν ἀπέστην). Cfr. anche 26 ἐν ταῖς ῥητορείαις con nota. Il verbo si oppone a γεγράφθαι, più sotto, riferito ai discorsi ἀναγιγνωσκόμενοι.

πρὸς ἐπίδειξιν καὶ πρὸς ἐργολαβίαν

Anche qui un rifiuto – benché implicito – dell’ἐπίδειξις (cfr. §§ 17, 93).

Con ἐργολαβία si fa riferimento ai guadagni che vengono ai sofisti dai loro allievi (non è qui da pensare, invece, ai compensi pagati ai sofisti da chi assisteva alle ἐπιδείξεις: cfr. e.g. Pl. Cra. 384b). Questa è l’unica occorrenza isocratea di ἐργολαβία (o correlati); il termine indica tecnicamente un contratto, come in IG 12.207 e in altre iscrizioni (citate da Fisher 2001, 321: per questo uso neutro del termine, cfr. anche Xen. Mem. 3.1.2 e Pl. Resp. 2.373b8). Ma il termine viene utilizzato anche con una sfumatura negativa (cfr. anche Suid. Ε.2907), in riferimento a chi ottiene guadagni a scapito del bene pubblico (Dem. 25.48, 58.6, Ep. 3.34, Aesch. 3.33) o in riferimento ai sofisti: il rapporto insegnante-allievo viene presentato sotto forma di un contratto (cfr. Aesch. 2.112 σοφιστοῦ … ἐργολαβοῦντος); in Aesch. 1.173 il verbo è usato in riferimento a Demostene, che a detta di Eschine vorrebbe sfruttare il presente processo per far mostra delle proprie abilità, in modo da attirare nuovi allievi o mantenere quelli attuali (su questo passo cfr. Carey 2007, 240). Per una rassegna delle testimonianze sui compensi richiesti dai sofisti, cfr. Too 94-5; Blank 1985. Il tema doveva essere di particolare rilevanza per Isocrate, che chiedeva un compenso ai suoi allievi (1000 dracme/10 mine secondo Plut. Dem. 5.6; [Plut.] Mor. 837d, 838e; Dem. 35.42, forse fonte delle testimonianze più tarde; cfr. Davies 1971, 246; Ober 1989, 115; la presunta ricchezza di Isocrate era punto centrale delle accuse rivoltegli dagli avversari, che lo presentavano come il più ricco dei sofisti: Antid. 154-8; Dem. 35.40-2). Qui tuttavia l’elemento negativo non è tanto la richiesta di un compenso agli allievi, quanto il porre l’ottenimento del compenso come finalità principale del discorso (si veda la critica che Isocrate dirige ai suoi concorrenti in Hel. 6 οὐδενὸς αὐτοῖς ἄλλου μέλει πλὴν τοῦ χρηματίζεσθαι παρὰ τῶν νεωτέρων: essi sono peggiori anche di chi inganna «nei contratti privati», τοῖς ἰδίοις συμβολαίοις, perché ingannano i loro stessi discepoli; il che sembra presupporre l’immagine del contratto anche per la relazione maestro-allievi, come in ἐργολαβία qui). Sembra improbabile vedere nel presente passo un riferimento alla specifica relazione con Filippo e al possibile ottenimento di un compenso da parte sua: a questo sembrerebbe pensare Benseler2 ad loc. citando Antid. 40, secondo cui

Isocrate avrebbe ricevuto numerosi doni da parte di Nicocle (secondo [Plut.] Mor. 838a, 20 talenti per il discorso a lui inviato: notizia comunque di autenticità discussa, cfr. Roisman – Worthington – Waterfield 2015, 159-160; Isocrate non lega il compenso specificamente alla redazione di un discorso). Le due funzioni qui descritte sono collegate: il sofista che mette in mostra le proprie abilità (ἐπίδειξιν) punta in questo modo ad attrarre potenziali allievi (ἐργολαβίαν). Isocrate stesso ammette che con la pubblicazione dei suoi discorsi era riuscito ad attrarre molti più allievi (Antid. 87 Τούτων γὰρ γραφέντων καὶ διαδοθέντων καὶ δόξαν ἔσχον παρὰ πολλοῖς καὶ μαθητὰς πολλοὺς ἔλαβον κτλ.; ma al tempo stesso rimarca la sua distanza dal comune atteggiamento dei sofisti che presentavano ἐπιδείξεις: Antid. 147). L’efficacia dei testi scritti per la promozione della propria scuola era chiara anche ad Alcidamante, il quale – pur rifiutando la superiorità assoluta del testo preparato su quello improvvisato – afferma che il testo scritto è il mezzo migliore per far conoscere le proprie abilità presso un pubblico abituato ad ascoltare discorsi accuratamente preparati (31 τοῖς δὲ διὰ χρόνου μὲν ἐπὶ τὰς ἀκροάσεις ἀφιγμένοις, μηδεπώποτε δὲ πρότερον ἡμῖν ἐντετυχηκόσιν, ἐπιχειροῦμέν τι δεικνύναι τῶν γεγραμμένων· εἰθισμένοι γὰρ ἀκροᾶσθαι τῶν ἄλλων <τοὺς γραπ>τοὺς λόγους, ἴσως ἂν ἡμῶν αὐτοσχεδιαζόντων ἀκούοντας ἐλάττονα τῆς ἀξίας δόξαν καθ’ ἡμῶν λάβοιεν: sulla caratterizzazione di tale pubblico, cfr. anche la nota a 29 ἢ μετὰ τῆς τῶν πολλῶν δόξης; Alcidamante specifica poco prima che egli utilizza i discorsi scritti τῶν ἐπιδείξεων εἴνεκα [§ 31]). Anche Aristotele collega la lettura – e in particolare la λέξις γραφική – allo stile “epidittico” (Rhet. 3.12.14a17-8 ἡ μὲν οὖν ἐπιδεικτικὴ λέξις γραφικωτάτη· τὸ γὰρ ἔργον αὐτῆς ἀνάγνωσις: ma lì bisogna tenere in considerazione la particolare definizione del genere epidittico data da Aristotele, che non coincide del tutto con le ἐπιδείξεις menzionate da Isocrate).

§ 26

ταῦτ’ οὐκ ἀλόγως

La lezione di Γ (ἀλόγως) è da preferire a κακῶς della seconda famiglia, in quanto termine più preciso e più adatto al contesto presente: Isocrate non sta semplicemente valutando l’opinione comune, ma sta fornendo le motivazioni per cui tale opinione non è illogica (cfr. Panath. 21 οὐκ ἀλόγως ὠδυράμην κτλ.). La scelta di ἀλόγως potrebbe nascondere anche una sfumatura ironica: la preferenza del pubblico, infatti, sembra basata su elementi che propriamente razionali non sono (l’effetto della voce, delle circostanze presenti) – non a caso, l’opinione dei molti si oppone più avanti al λογισμός di Filippo (§ 29).

τῆς τε δόξης τῆς τοῦ λέγοντος

L’importanza della reputazione di un oratore viene ricordata anche nella parte finale della Retorica ad Alessandro, dove si invita l’oratore a darsi cura non solo degli aspetti strettamente retorici: χρὴ δὲ καὶ τὴν ἐπιμέλειαν ποιεῖσθαι μὴ μόνον περὶ τοὺς λόγους, ἀλλὰ καὶ περὶ τὸν βίον τὸν αὑτοῦ, διακοσμοῦντα ταῖς

ἰδέαις ταῖς εἰρημέναις· συμβάλλεται γὰρ ἡ περὶ τὸν βίον παρασκευὴ καὶ πρὸς τὸ πείθειν καὶ πρὸς τὸ δόξης ἐπιεικοῦς τυγχάνειν (38.2.45b29-34), dove la δόξα ἐπιεικής è il risultato del modo in cui l’oratore conduce la propria vita. L’espressione ἡ δόξα τοῦ λέγοντος – come nel Filippo – compare invece in 14.8.31b10-1 ἡ μὲν οὖν δόξα τοῦ λέγοντός ἐστι τὸ τὴν αὑτοῦ διάνοιαν ἐμφανίζειν κατὰ τῶν πραγμάτων. Certo la validità dell’opinione dell’oratore si fonda sulla sua reputazione, come dimostra il seguito del passo: δεῖ δ’ ἔμπειρον ἀποφαίνειν ἑαυτὸν περὶ ὧν ἂν λέγῃς, καὶ ἐπιδεικνύναι, ὡς συμφέρει σοι τἀληθῆ λέγειν περὶ τούτων (45b11-3)293. Ma la δόξα τοῦ λέγοντος rimane comunque

qui l’opinione dell’oratore, quindi una δόξα in senso attivo (cfr. anche la stessa espressione in Rh. Al. 32.1.38b34, 36)294, mentre nel Filippo la δόξα τοῦ

λέγοντος indica la reputazione dell’oratore, la δόξα in senso passivo.

Il passo del Filippo è avvicinabile ad un altro passo isocrateo (Antid. 278-80), in cui si afferma l’importanza della reputazione dell’oratore come fattore di persuasione: Καὶ μὴν οὐδ’ ὁ πείθειν βουλόμενος ἀμελήσει τῆς ἀρετῆς, ἀλλὰ τούτῳ μάλιστα προσέξει τὸν νοῦν, ὅπως δόξαν ὡς ἐπιεικεστάτην (cfr. Rh. Al. 38.1.45b33, citato sopra) λήψεται παρὰ τοῖς συμπολιτευομένοις. Τίς γὰρ οὐκ οἶδεν καὶ τοὺς λόγους ἀληθεστέρους δοκοῦντας εἶναι τοὺς ὑπὸ τῶν εὖ διακειμένων λεγομένους ἢ τοὺς ὑπὸ τῶν διαβεβλημένων κτλ. Ciò non significa che la persuasione operata dalla reputazione dell’oratore sia per Isocrate un elemento positivo in assoluto: nello stesso passo dell’Antidosi, Isocrate allude alla pratica giudiziaria di “costruirsi” retoricamente un ethos positivo – anche non corrispondente alla realtà – per rendersi più credibili (279 Καὶ μηδεὶς ὑμῶν οἰέσθω τοὺς μὲν ἄλλους ἅπαντας γιγνώσκειν ὅσην ἔχει ῥοπὴν εἰς τὸ πείθειν τὸ τοῖς κρίνουσιν ἀρέσκειν), così come nel passo già citato Isocrate fa riferimento alla pratica della διαβολή (278 τῶν διαβεβλημένων). Inoltre, non è da pensare che, con la δόξα τοῦ λέγοντος di Phil. 26, Isocrate faccia riferimento ad una

293 È incerto se l’oratore ottenga la sua reputazione sulla base della sua vita passata o della costruzione della sua figura nel discorso stesso. Nel primo caso, si potrebbe capire meglio l’inclusione di questo tipo di prova fra le πίστεις ἐπίθετοι, le «prove aggiuntive» (45b9, parallele alle πίστεις ἄτεχνοι di Arist. Rhet. 1.2.55b3: è tuttavia possibile che l’inclusione in questa categoria sia giustificata dall’estraneità dell’opinione dell’oratore all’argomentazione vera e propria del discorso). Nel secondo caso, avremmo un concetto simile all’ἦθος τοῦ λέγοντος aristotelico: cfr. Chiron 2002, 151.

294 Sull’interpretazione del passo, cfr. Chiron 2002, 151-2 con bibliografia. Non sembrano convincenti i tentativi di assegnare un valore passivo a questa δόξα: tale interpretazione è sostenuta da Campe (1854, 280), il quale ritiene però che un compilatore successivo abbia erroneamente interpretato la δόξα in senso attivo (da cui la definizione che troviamo nel testo tramandato: cfr. anche Spengel 1862, 626-627); anche Hellwig (1973, 253 n. 7) preferisce il senso passivo. Non decide fra il senso attivo e passivo Kraus (2011, 277): «But need we make any decision at all? ... the orator’s personal reputation and the weight that will be credited to his personal opinion are closely interdependent; neither of them can go without the other». Schütrumpf (1993, 13-14) vede la vicinanza con l’ἦθος τοῦ λέγοντος aristotelico, ma conclude: «A general category ‘credibility of the speaker’ … was not yet established. Elements united by Aristotle as aspects of ἦθος are separated in the Rhet. ad Alex. and assigned to a variety of different rhetorical devices».

reputazione acquistata per mezzo di virtù: sarebbe del resto strano che Isocrate menzioni qui la δόξα τοῦ λέγοντος come fattore persuasivo assente nei λόγοι ἀναγιγνωσκόμενοι, quando lui stesso rivendicava per sé una δόξα superiore a quella di tutti gli altri (cfr. e.g. Paneg. 14, Panath. 8). È probabile, invece, che nel passo presente Isocrate abbia in mente un tipo di δόξα diverso dalla sua: fondata non sulla preminenza nella φιλοσοφία o nella virtù, bensì derivante da una condizione sociale privilegiata o dall’abilità demagogica; in questo senso si deve intendere, per esempio, la δόξα dei rhetores contro cui Isocrate polemizza perché non fanno niente per risolvere i problemi politici esistenti: cfr. Paneg. 170-1, dove si specifica proprio εἴπερ ἦσαν ἄξιοι τῆς παρούσης δόξης; Panath. 11, dove Isocrate rivendica per sé maggiore τιμή di quella – immeritata – di coloro che vanno sul βῆμα; Ep. 1.10 Ὥστ’ οὐδὲν ἄτοπον, εἴ τι τῶν συμφερόντων ἰδεῖν ἂν μᾶλλον δυνηθείην τῶν εἰκῇ μὲν πολιτευομένων, μεγάλην δὲ δόξαν εἰληφότων, 8.7 (cfr. anche Alexiou 1995, 165 n. 41). In Dem. 52.1 (citato da Süss 1910, 245 n. 1), si mette in luce proprio la difficoltà di difendersi da un uomo δόξαν ἔχων, dal momento che i giudici saranno portati a dare fiducia a tale δόξα: per altri passi in cui la reputazione dell’oratore viene indicata come strumento per la manipolazione del pubblico, cfr. Gondos 1996, 8-9, in particolare Eur. Hec. 293-5 τὸ δ᾿ ἀξίωμα, κἂν κακῶς λέγῃς, τὸ σὸν / πείσει· λόγος γὰρ ἔκ τ᾿ ἀδοξούντων ἰὼν / κἀκ τῶν δοκούντων αὑτὸς οὐ ταὐτὸν σθένει. (In alternativa, Isocrate potrebbe presupporre che la reputazione dell’oratore abbia una vera efficacia persuasiva solo quando questi compare personalmente in pubblico, mentre la δόξα di Isocrate giocherebbe un ruolo piuttosto limitato nella ricezione dei suoi discorsi ἀναγιγνωσκόμενοι. Ci sono alcuni indizi sul ruolo giocato dall’apparenza fisica – dal portamento ai vestiti –