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1. La discussione su oralità e scrittura
Questo passo è una testimonianza importante sulla percezione dell’oralità e della scrittura da parte del pubblico ateniese di metà IV secolo. Da questo punto di vista, esso può essere affiancato ad altri testi di IV secolo, più specificamente il discorso Sui sofisti di Alcidamante, il Fedro di Platone, e l’epistola 1 del corpus isocrateo, che affermano – ognuno a suo modo – i vantaggi dell’oralità nei confronti della scrittura257.
Per Alcidamante la contrapposizione oralità-scrittura si risolve nell’opposizione fra due modalità di composizione: se la prima coincide con l’improvvisazione dei discorsi, la seconda consiste nella preparazione scritta di testi che verranno poi memorizzati. La scrittura di discorsi è presentata da Alcidamante come un’attività facile e di poco valore (§§ 3-8); lenta nel far fronte alle esigenze retoriche della vita cittadina (processi, assemblee, conversazioni private: §§ 9- 13); incapace di adattarsi agli imprevedibili e mutevoli desideri degli ascoltatori (§§ 22-3).
A differenza di Alcidamante, Isocrate non distingue fra due modalità di composizione. La differenza sta nella modalità di presentazione del discorso al fruitore – e precisamente nella presenza o meno di un testo scritto: i λόγοι λεγόμενοι sono i discorsi che sono pronunciati dall’oratore senza l’ausilio evidente di un testo scritto; i λόγοι ἀναγιγνωσκόμενοι, invece, sono quelli che si servono chiaramente di un testo scritto – visibile a tutto il pubblico – dal momento che vengono letti direttamente da esso. Non viene invece specificato se i λόγοι λεγόμενοι sono preparati precedentemente e imparati a memoria, o improvvisati sul momento258. Il punto di vista che Isocrate assume è – piuttosto
che quello dell’autore – quello del pubblico: Isocrate distingue fra orale e scritto sulla base di ciò che il pubblico percepisce come tale. La differenza fra le due forme di discorso coinvolge principalmente aspetti legati alla performance259:
non solo aspetti strettamente legati all’esecuzione vocale, ma anche elementi di contesto, come la personalità dell’oratore e la “situazione retorica”260. La
categoria dei discorsi λεγόμενοι, infatti, viene fatta coincidere con i discorsi
257 Per un’analisi del rapporto fra gli scritti isocratei (l’epistola 1 e il Filippo) e gli altri due testi menzionati, cfr. Eucken 1983, 121-140; Erler 1987, 38-45. Cfr. anche Erler 1993 (versione integrale di Erler 1992) per una lettura della scena finale del Panatenaico come risposta polemica al metodo di interpretazione dei testi propugnato dall’Accademia. Per un quadro generale della bibliografia sui rapporti fra Alcidamante e Isocrate, cfr. Mariß 2002, 26-55. 258 Cfr. Lanza 1979, 80.
259 Un’impostazione simile a quella di Isocrate sembra avere Aristotele in Rhet. 3.12, dove l’opposizione fra λέξις γραφική e ἀγωνιστική non coincide con quella fra scrittura e improvvisazione (come conferma il caso dei logografi che compongono in forma scritta discorsi che esibiscono le caratteristiche della λέξις ἀγωνιστική, in quanto destinati a essere memorizzati e pronunciati dai loro clienti: cfr. Rapp 2002, 2.931). Il criterio fondamentale della distinzione risiede nella modalità di fruizione del discorso (lettura vs recitazione) e nella caratterizzazione stilistica che da questa deriva.
260 Sotto questa categoria (su cui cfr. Bitzer 1968) si possono infatti considerare i καιροί e la σπουδὴ περὶ τὴν πρᾶξιν (§ 26): l’esigenza retorica da cui il discorso prende spunto lo fa apparire come più legato alle contingenze presenti e ne potenzia quindi la capacità persuasiva.
deliberativi pronunciati in assemblea, come assicurano il riferimento agli argomenti “seri e urgenti” e l’uso di ῥητορεύεσθαι (§ 25: discorsi come quelli dicanici vengono completamente trascurati); la seconda categoria viene invece ricollegata dall’opinione comune ai discorsi dei σοφισταί. La distinzione fra λόγοι λεγόμενοι e ἀναγιγνωσκόμενοι, quindi, slitta verso una distinzione fra due categorie più specifiche, fra discorsi deliberativi e discorsi apparentemente finalizzati all’ἐπίδειξις – che in realtà includono anche i discorsi politici isocratei. La scelta dei discorsi deliberativi come rappresentanti dei discorsi λεγόμενοι potrebbe essere ricondotta a diversi motivi. Da una parte, la volontà di contrapporre i discorsi scritti a discorsi improvvisati (le dinamiche tipiche dell’assemblea rendevano difficile una preparazione scritta dei discorsi): ma abbiamo visto come Isocrate non renda esplicito questo elemento; mai si fa menzione dei vantaggi dei discorsi λεγόμενοι da questo punto di vista (cfr. anche note a 25 οἱ λεγόμενοι, 26 τῶν καιρῶν κτλ.). Dall’altra – e forse questa è la motivazione più probabile – la volontà, da parte di Isocrate, di contrapporre i suoi discorsi politici a quelli tradizionali, pronunciati nel contesto dell’assemblea: Isocrate vuole affermare che l’identificazione fra discorsi ἀναγιγνωσκόμενοι e discorsi futili è solo apparente, e che i suoi stessi discorsi politici – benché “letti” – hanno uguale e anche maggiore valore dei discorsi assembleari. Diversi studiosi leggono in questo passo del Filippo la rassegnata confessione, da parte di Isocrate, dei vantaggi del discorso orale261: ma da
un’analisi più accurata del passo risulta forse un quadro più complesso.
La differenza fra discorsi λεγόμενοι e ἀναγιγνωσκόμενοι non riguarda infatti elementi sostanziali del discorso. Essa è determinata in ultima analisi da elementi esterni al discorso, che nulla hanno a che fare con il valore del suo contenuto262. Il passo del Filippo potrebbe essere confrontato con altre
testimonianze di IV secolo che trattano dell’importanza della hypokrisis nella retorica, come Arist. Rhet. 3.1. Qui la hypokrisis è definita ὃ δύναμιν μὲν ἔχει μεγίστην (1403b21); come in Isocrate, l’ambito suo proprio è identificato nell’uso della voce (1403b27 ἔστι δὲ αὐτὴ μὲν ἐν τῇ φωνῇ: di più su questa corrispondenza nella nota a 26 τῆς φωνῆς κτλ.), e in particolare nella determinazione delle giuste modulazioni (cfr. 26 τῶν μεταβολῶν in Isocrate) per esprimere determinati πάθη (1403b27-32). La trattazione aristotelica della
261 Cfr., da ultimo, Böhme 44: «Geht man von Isokrates selbst aus, so fällt deutlich auf, dass er nicht etwa Schriftlichkeit höher bewertete als Mündlichkeit, wie es umgekehrt Alkidamas und Platon taten».
262 Il che è anche in qualche modo sorprendente, in quanto Isocrate rimarca più volte che i discorsi dei sofisti avevano effettivamente contenuti di minimo valore (si veda il proemio dell’Elena, su cui la nota a 25 τῶν ἀναγιγνωσκομένων). Ma quando parla di discorsi ἀναγιγνωσκόμενοι, Isocrate ha qui in mente principalmente i propri discorsi politici: il suo obiettivo non è certo quello di rivalutare i discorsi dei sofisti, bensì quello di sottolineare come non tutti i discorsi ἀναγιγνωσκόμενοι debbano essere considerati alla pari degli inutili discorsi dei sofisti. Sembra quindi che anche la categoria di discorsi ἀναγιγνωσκόμενοι sia implicitamente ridotta ad una categoria più specifica – quella appunto dei discorsi isocratei stessi.
hypokrisis, tuttavia, è permeata da una certa diffidenza nei confronti di questo potente strumento: la recitazione ha successo – afferma Aristotele – διὰ τὴν μοχθηρίαν τῶν πολιτειῶν (1403b34-5)263; essa è detta φορτικόν (1404a1). La
considerazione della hypokrisis fra gli elementi della retorica è quindi resa necessaria solo dalle caratteristiche dell’uditorio, e dal fatto che la retorica sia un’attività finalizzata πρὸς δόξαν (1404a2). Aristotele prospetta per contrasto anche una situazione ideale in cui si possa rivaleggiare αὐτοῖς … τοῖς πράγμασιν, senza considerare aspetti ἔξω τοῦ πράγματος (1404a5-7).
Anche il testo di Isocrate, benché meno esplicito, sembra puntare il dito contro gli elementi “esterni” caratteristici dei discorsi assembleari: gli elementi che Isocrate menziona potevano essere soggetti ad una doppia interpretazione – da una parte vantaggi del discorso λεγόμενος, dall’altra mezzi per una manipolazione della reale situazione (cfr. note a 26 τῆς τε δόξης κτλ., τῆς φωνῆς κτλ., τῶν καιρῶν κτλ.). Anche il modo in cui viene definita l’opinione generale del pubblico riguardo ai discorsi ἀναγιγνωσκόμενοι è significativo: se all’inizio Isocrate afferma ταῦτ’ οὐκ ἀλόγως ἐγνώκασιν (§ 26, dove tuttavia una sfumatura ironica potrebbe essere presente: cfr. nota ad loc.), successivamente Isocrate usa le meno favorevoli espressioni δυσχέρειαι e δόξα τῶν πολλῶν (§ 29) per definire quella stessa percezione comune dei discorsi letti, cui viene contrapposta la modalità di fruizione di Filippo, basata su λογισμός e φιλοσοφία (§ 29).
I capitoli di Aristotele dedicati alla hypokrisis e il passo del Filippo mostrano quindi alcune interessanti coincidenze264. Non si può ipotizzare di più sulla
specifica relazione fra i due testi, tanto più che l’origine dell’atteggiamento negativo di Aristotele verso la hypokrisis non è individuabile con esattezza: ad una persistente influenza platonica pensa per esempio Fortenbaugh (1986), che vede contraddizioni fra le idee di Aristotele in questi capitoli e sue affermazioni
263 Secondo la lezione dei manoscritti, seguita da Kassel: Spengel corregge in πολιτῶν, sulla base di 1404a8 διὰ τὴν τοῦ ἀκροατοῦ μοχθηρίαν, sempre riferito alla hypokrisis. Benché Lossau (1971) difenda la lezione tradita sulla base di Arist. Ath. 28 (la hypokrisis, nella figura di Cleone, ottiene dopo la morte di Pericle più successo a causa della μοχθηρία della democrazia), il passo rimane dubbio, soprattutto alla luce dell’espressione di 1404a8. Il problema testuale non inficia sostanzialmente il confronto con il Filippo; tuttavia, qualora πολιτειῶν fosse corretto, sarebbe possibile vedere anche qui un parziale parallelo con il Filippo, che sembra associare il successo dei discorsi λεγόμενοι con la corrotta democrazia ateniese e la δόξα dei πολλοί (§ 29), mentre il lettore esemplare dei discorsi ἀναγιγνωσκόμενοι è identificato in Filippo, un governante monarchico: cfr. nota a 29 ἢ μετὰ τῆς τῶν πολλῶν δόξης.
264 A detta di Aristotele non esisteva alcuna trattazione specifica sulla hypokrisis di un discorso (3.1.03b35: anche gli Ἔλεοι di Trasimaco, menzionati in 3.1.04a13-5, potrebbero aver contenuto indicazioni sullo stile piuttosto che sulla recitazione; il riferimento si trova in una sezione di dubbia interpretazione, su cui n. 266). In ogni caso, è possibile già individuare nei testi di Isocrate e Aristotele, così come in altri testi, alcune categorie fondamentali relative alla recitazione, che facevano probabilmente parte di un patrimonio comune della teoria e della pratica retorica. La somiglianza fra Arist. Rhet. 3.12 e Isocr. Phil. 25-6 era già stata notata da Cope 1867, 328 n. 1: «It would almost seem as if Aristotle had borrowed some of his hints for this chapter from this and similar passages».
in altri passi o scritti. L’atteggiamento di Aristotele e di Isocrate verso le arti della recitazione potrebbe comunque derivare dalla comune percezione dei mezzi della hypokrisis, quale è testimoniata in testi coevi. In alcuni discorsi, il peso che la recitazione può avere nella persuasione del pubblico viene tematizzato esplicitamente (cfr. in particolare nota a 26 καὶ τῆς φωνῆς καὶ τῶν μεταβολῶν). La recitazione di un discorso viene talvolta paragonata ad una performance teatrale, soprattutto quando si vogliono sottolineare i pericoli che essa comporta: se la recitazione era vista come un elemento essenziale per il successo di un discorso, l’uso eccessivo di strumenti della hypokrisis e il trasferimento di competenze teatrali in ambito retorico era visto con diffidenza, in quanto possibile tentativo di manipolazione del pubblico265.
Per Isocrate lo stile è la componente che, nell’ambito dei discorsi scritti, può sostituire l’efficacia dei mezzi retorici “esterni” disponibili al discorso orale. Se la credibilità del discorso orale deriva dalla recitazione e dal suo contesto di performance, lo stile può rendere esso stesso πιστοτέρους i discorsi (§ 27). Nella distinzione fra gli elementi che comportano il successo dei discorsi λεγόμενοι e gli strumenti a disposizione dei discorsi ἀναγιγνωσκόμενοι sembra essere delineata un’opposizione simile a quella che si trova in Aristotele fra ἄτεχνον ed ἔντεχνον: Aristotele afferma che l’abilità nella recitazione viene dalla natura; essa può essere considerata ἔντεχνον solo in quanto è legata allo stile (Rhet. 3.1.04a15-6)266. In questo senso, si può comprendere meglio il tono
di orgoglio che Treves sembra rilevare alla fine del § 27: Isocrate, infatti, impedito dalle sue mancanze naturali (cfr. § 81), ha saputo rimediare a queste e dare visibilità e credibilità ai suoi discorsi per mezzo delle loro qualità stilistiche267, funzione della paideia dell’autore. E proprio grazie a quelle qualità
265 Cfr. Serafim 2017, 30: «There is also, therefore, evidently a paradoxical element in the ancient perspective on acting and oratory: orators need to display skills akin to those of actors if they are to deliver their argument effectively, but to exploit those skills too obviously leaves them open to criticism».
266 L’interpretazione di questo passo è discussa, e dipende fondamentalmente da cosa si intende per ἐκείνη in 1404a12-3 ἐκείνη μὲν οὖν ὅταν ἐλθῃ ταὐτὸ ποιήσει τῇ ὑποκριτικῇ (una techne della recitazione oratoria o dello stile?) e per τοῦτο in 1404a16-8 καὶ ἔστι φύσεως τὸ ὑποκριτικὸν εἶναι, καὶ ἀτεχνότερον, περὶ δὲ τὴν λέξιν ἔντεχνον. διὸ καὶ τοῖς τοῦτο δυναμένοις γίγνεται πάλιν ἆθλα (la recitazione o lo stile?). Riferisce entrambi i pronomi allo stile Rapp (2002, 1.130, 2.829-30); Cope (1877, 3.8) intende il primo pronome riferito alla recitazione, il secondo alla recitazione in quanto applicata allo stile (cfr. anche Dufour – Wartelle 1973, 40; Kennedy 1991, 219). Dato che a 1404a8 Aristotle sembra indicare una cesura piuttosto netta fra la sezione precedente – dedicata alla hypokrisis – e quella successiva – dedicata alla λέξις – sembra più probabile che il primo pronome, ἐκείνη, si riferisca allo stile. L’interpretazione più probabile per περὶ δὲ τὴν λέξιν ἔντεχνον, se non si vuole trascurare l’uso di περὶ + acc. al posto di un’espressione come τὸ τῆς λέξεως, sembra essere, sulla linea di Cope, “la recitazione in quanto derivante dagli espedienti stilistici” adottati nel discorso (come in effetti illustrata nel capitolo 3.12). Qualunque interpretazione si accetti, comunque, rimane valido il nucleo concettuale della contrapposizione fra recitazione fondamentalmente ἄτεχνον ed espressione formale del discorso ἔντεχνον.
267 «Quell’ὑπέδειξα è pieno di orgogliosa gioia. Is., vecchio e rattristato da tante critiche, da tante amarezze, sente la superbiam quaesitam meritis (Hor., Od., III, 30, 14-15) di avere, primo
stilistiche Isocrate ha potuto conquistare un posto paragonabile a quello dei rhetores o degli strategoi ateniesi.