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Culture e strategie della memoria

.

Come è ben noto, anche se si deve a Jurij Lotman la formulazione esplicita di un progetto di “semiotica della cultura”, il concetto di cultura era già centrale nelle scienze umane ben prima del suo lavoro. Anche l’introduzione in semiotica di tale concetto è indipendente dai contributi di Lotman. Per fare solo un esempio su quest’ultimo punto, Umberto Eco fa ampio uso già nel suo Trattato (Eco ) della nozione di “unità culturale”, intesa in maniera volontariamente poco specifica come un fatto sociale semplice rispetto a cui è necessario contestualizzare il funzionamento del segno

. Lotman in quel mo- mento aveva già prodotto molti importanti contributi, ma iniziava appena a essere apprezzato a dovere in Europa occidentale. La fonte diretta di Eco va piuttosto cercata nell’antropologia culturale e in parti- colare nel confronto serrato e a tratti polemico con le teorie di Claude Lévi Strauss, che era diventato un punto significativo della sua teoria semiotica almeno dai tempi della Struttura assente (Eco ). Bisogna notare da subito che l’uso echiano della nozione è prevalentemente aggettivale, non suppone cioè una cultura sostantiva, ma una certa qualità, che cercheremo di comprendere meglio nel seguito di questo saggio.

Per quanto riguarda il concetto di cultura in senso proprio, l’antro- pologia ha iniziato a elaborare questa nozione almeno centoquaranta anni fa. Proponendo infatti nel  la prima definizione antropolo-

. Ciò fra l’altro implica tacitamente una presupposizione delle scienze sociali rispetto alla semiotica, in particolare dell’antropologia piuttosto che della sociologia. Di solito in semiotica non si discute di questo aspetto di scarico ad altre discipline di un suo fondamento, ma va riaffermato che in nozioni come quelle di cultura, di pratica, di “abito”, di “senso”, tutta la semiotica — probabilmente anche quella di Lotman — subisce dunque una qualche dipendenza logica dall’antropologia “culturale” e da altre scienze sociali.

 . Ai margini della teoria

gica del termine cultura, E.B. Tylor asseriva che nella misura in cui questa comprende «tutte le capacità e i moduli di comportamento acquisiti dall’uomo in quanto membro di una società», lo studio di queste capacità avrebbe consentito di «risalire alle leggi del pensie- ro e dell’agire umano», cioè sostanzialmente alla comprensione del fondamento della vita sociale. Ne è probabilmente eco la famosa defi- nizione saussuriana di semiologia come lo studio della vita dei segni nell’ambito della vita sociale. È interessante notare che la cultura è pensata da Taylor come un aspetto di un’entità più solida e non sinoni- mica con essa, che è la società. In seguito i due concetti si sono quasi sovrapposti, ma è particolarmente opportuno tenerli separati: da un lato un gruppo umano ben distinto, dall’altro delle “capacità” e dei “moduli di comportamento” che vi si ritrovano.

È proprio dalla definizione antropologica di cultura che partono pro- babilmente anche Lotman e Uspenskij parlando della cultura come “memoria non ereditaria della collettività” (: ). Da questa definizio- ne ormai antica si è sviluppata una molteplicità di discorsi, usi scientifici politici e giornalistici del termine, che fanno riferimento tutti al carattere “acquisito” e insieme “ereditario” della cultura. Si vedano, per esempio, fra le definizioni dizionariali abbastanza recenti quella del Merriam Web-

ster Dictionary(http://www.merriam-webster.com/dictionary/culture), in particolare il punto , che viene ripreso alla lettera anche all’inizio della voce corrispondente di Wikipedia:

a: the integrated pattern of human knowledge, belief, and behavior that depends upon the capacity for learning and transmitting knowledge to succeeding generations b: the customary beliefs, social forms, and material traits of a racial, religious, or social group; also: the characteristic features of everyday existence (as diversions or a way of life) shared by people in a place or time “popular culture” “southern culture” c: the set of shared attitudes, values, goals, and practices that characterizes an institution or organization «a corporate culture focused on the bottom line» d: the set of values, conventions, or social practices associated with a particular field, activity, or societal characteristic.

O ancora quella del Free Dictionary on line (http://www.thefreedictionary. com/culture; limitiamo anche questa citazione alla parte pertinente, tralasciando i riferimenti alla coltivazione agricola o di microrganismi, all’“alta cultura” ecc.).

. Culture e strategie della memoria  a. The totality of socially transmitted behavior patterns, arts, beliefs, institu- tions, and all other products of human work and thought.

b. These patterns, traits, and products considered as the expression of a par- ticular period, class, community, or population: Edwardian culture; Japanese culture; the culture of poverty.

c. These patterns, traits, and products considered with respect to a particular category, such as a field, subject, or mode of expression: religious culture in the Middle Ages; musical culture; oral culture.

d. The predominating attitudes and behavior that characterize the functio- ning of a group or organization.

Non è questo il luogo di discutere nei dettagli queste definizioni. Il punto che mi sembra particolarmente rilevante sottolineare è però è il contrasto che vi si trova fra l’idea che la cultura sia naturalmen- te totalitaria (investendo “the totality of social transmitted behavior patterns etc.”; “tutte le capacità e i moduli”, “the integrated pattern”) e la prospettiva che la cultura possa però molto particolareggiarsi (ri- ferendosi “to a particular category, such as a field, subject, or mode of expression”, essendo insomma “customary beliefs, social forms, and material traits of a racial, religious, or social group”). Il problema che emerge qui, mai bene affrontato in ambito semiotico e proba- bilmente neppure in quello antropologico, riguarda la scala e quindi della profondità del fenomeno che siamo disposti a chiamare cultura. Come vedremo, questo è un tema più semiotico o sociologico che antropologico, perché viene messo in evidenza in primo luogo dalla complessità delle società contemporanee, che appaiono già a prima vi- sta come ricchi contenitori di molteplici culture particolari e che non si possono trattare certamente come culture semplici o semplicemente totalitarie.

.

Se esistesse qualcosa come la “cultura italiana contemporanea” in cui per esempio l’autore di queste righe vivrebbe immerso, essa dovrebbe avere forse una presa totalitaria su tutti gli aspetti della sua vita, ma questa presa appare sicuramente assai incerta e variabile, determi-

 . Ai margini della teoria

nandone completamente al massimo le condizioni di possibilità (che cosa sia in linea di massima mangiabile, dicibile, sognabile, abitabile, desiderabile, ecc. per lui e per i suoi concittadini). È chiaro infatti che la “cultura italiana” ha poca capacità imperativa, contempla sempre varianti ed eccezioni. Essa per esempio non prescrive davvero di par- lare la lingua italiana, e tanto meno una sua versione precisa, come si vede dal fatto che un certo numero dei suoi presunti appartenenti preferiscono il dialetto e quasi tutti praticano varianti regionali; né obbliga a cibarsi di spaghetti (altri amano i risotti o gli hamburger, senza per questo uscirne); né di vestire in giacca e cravatta, di vivere in una famiglia nucleare, di amare il calcio e così via. Al massimo rende improbabili i discorsi quotidiani in coreano, le locuste fritte come cibo preferito, il sari come abito di tutti i giorni, la passione per il baseball o il curling, la convivenza di clan in una casa lunga su palafitte. Se si tratta di una grammatica, la cultura totalitaria è dunque debole, probabilistica, più ricca di eccezioni che di certezze.

Ma questa lasca appartenenza, fatta di preferenze più che di ob- blighi e certamente assai variegata e plurale, è inoltre determinata da incroci piuttosto problematici con le culture particolaristiche. Nel nostro esempio l’essere italiano si dettaglia grandemente per il fatto che l’autori abiti anche in una certa cultura accademica

, o che egli appartenga a una “cultura” ebraica moderna anch’essa largamente internazionale

e ancora in una “cultura” borghese

? L’autore utiliz- za inoltre una variante nordica della lingua italiana, con conseguenti scelte fonologiche e morfologiche; inoltre potrebbe essere definito dalla “cultura” del Sessantotto

, da quella della vela o della monta-

. Che determina, sempre parzialmente, soprattutto i contenuti del suo studio e le forme della sua espressione pubblica e lo fa in maniera sostanzialmente analoga ai vincoli subiti dagli accademici appartenenti ad altre “culture nazionali”.

. Che solo in parte ha l’ambizione di prescrivergli che cosa credere in materia teologi- ca e determina invece con molta più precisione di altre culture religiose che cosa non debba mangiare, ma in cambio è poco interessata alle sue scelte negli sport o nell’abbigliamento. . Che per esempio pone certi limiti al suo uso del linguaggio, al modo di stare a tavola ecc.

. Che forse implica una certa tenerezza per jeans, canzoni dei Beatles e magari un orientamento politico progressista. Anche se molti dei temi di quel movimento gli appaiono oggi patetici o pericolosi, ridicoli o controproducenti e dunque si schiera contro quell’eredità, è difficile per chi ha ne vissuto la storia staccarsi del tutto dalla “cultura” sessantottina.

. Culture e strategie della memoria  gna, da certe affiliazioni culturali rispetto all’arte e alla letteratura. Ha poi certamente “molte altre virtù” o “culture”, che sarebbe cer- tamente noioso e insensato ma forse anche impossibile enumerare compiutamente qui.

Non chiediamoci per il momento se questa descrizione di una esperienza personale in termini di partecipazione a culture sia esat- ta, esauriente e adeguata. Ma bisogna porsi senz’altro il problema se ci sono davvero queste “culture” parziali. Che cosa significa infatti affermare l’esistenza di queste “culture”? Queste definizioni non sa- ranno degli abusi come quando si parla di “cultura del bere”, “cultura del cibo”, “cultura del verde” a proposito di negozi gastronomia e giornali? Si tratta chiaramente di ipotesi teoriche e riassuntive, il cui senso è attribuire certi atteggiamenti, preferenze, abitudini, obblighi percepiti ecc. cioè dal punto di vista semiotico certe forme personali di

organizzazione testuale, a entità collettive non manifestate (le culture) che le genererebbero. Dunque bisogna chiederci se in rappresentazioni di tal genere vi è abbastanza solidità da un lato e solidarietà dall’altro da poterle pensare come una realtà più fondamentale delle sue diverse “manifestazioni”, e inoltre se esse non sono puramente soggettive ma abbastanza sociali, tale cioè che le si possa pensare come condivise fra i loro membri. Un’altra domanda è questa: ammesso che ci siano, che rapporto hanno fra di loro?

È solo un esempio. Ma serve forse a capire la difficoltà del rapporto fra cultura in senso totalitario e in senso parziale. È chiaro che chiun- que viva nella complessità di una società contemporanea, che è ben diversa dalla monodimensionalità vera o presunta di una tribù “primi- tiva”, si trova a fare uno slalom continuo fra sistemi di regoli diversi per ambito, estensione, e obbligatorietà; fra competenze più o meno formalizzate e condivise, fra repertori di preferenze e di credenze, descrizioni della realtà più o meno corrispondenti al vero, variabili, contraddittorie. Quel che è chiaro è che non è possibile trovare una coerenza a questo non–sistema, e neppure delle gerarchie stabili al suo interno; ancor meno è possibile pensare che esse siano uguali nella mente di tutti i loro presunti appartenenti. Se non altro perché molto probabilmente ciascuna delle persone si riferisce a un insieme di “culture” diverso da quello di chiunque altro.

È la stessa instabilità che ha reso pressoché inutilizzabile la nozione di “Enciclopedia” proposta da Eco per ricoprire un segmento minore

 . Ai margini della teoria

della “cultura”, quello cognitivo, con la consapevolezza che si trattasse di una metafora e non di un reale strumento analitico utilizzabile in casi concreti. Non è mai stata chiara l’interazione fra Enciclopedia sociale (di un tempo? di una società? di un certo strato sociale?) e quella individuale che si ritrova in ogni individuo. Certamente queste diverse versioni dell’Enciclopedia non sono gerarchizzabili o pensabili nelle categorie della parte e del tutto. La loro struttura e il loro fun- zionamento non sono probabilmente definibili in linea di principio. Nessuno ha mai descritto il formato di alcun esempio di Enciclopedia. Dunque si tratta di un’immagine, affascinante quanto si vuole e non di un di un concetto operativo.

.

In questa contrapposizione fra totalità e parzialità trovano fondamen- to due problemi isolati già dagli studiosi russi della semiotica della cultura. Da un lato per la scuola di Tartu un singolo sistema di segni non può essere considerato cultura perché la condizione minima è che sia presente almeno una coppia di sistemi correlati fra loro, per esempio una lingua storico–naturale e un linguaggio visivo:

I singoli sistemi segnici, pur presupponendo strutture con una organiz- zazione immanente, funzionano soltanto in unione, appoggiandosi l’uno all’altro. Nessun sistema segnico possiede un meccanismo che gli consenta di funzionare isolatamente. (Ivanov, Lotman Piatigorskij Toporov Uspenskij : )

Da questo punto di vista dunque la cultura costituirebbe la totalità da cui i singoli sistemi segnici trarrebbero la loro funzionalità e dunque in definitiva il loro valore, l’orizzonte di senso che motiva i “customary beliefs, social forms, and material traits” di cui sarebbe fatta una cultura. È difficile capire però se questi “sistemi segnici” possano essere considerate culture

. E se le culture possano essere ridotte a puri

. Per esempio saremmo disposti a chiamare “cultura” la segnaletica stradale, che è un sistema di segni ben organizzato e pianificato, appreso in forma sistematica alla scuola di guida? O il sistema tonale in musica? Sembra che si tratti piuttosto di componenti di sistemi culturali, che vengono usati in maniera anche trasgressiva nelle pratiche relative, piuttosto che di culture in toto.

. Culture e strategie della memoria  sistemi segnici e non piuttosto a dispositivi semiotici più complessi, per esempio testi, come suggerisce Marrone .

Il secondo punto che non può non venir messo alla prova da questa tensione fra estensione universale e particolarità della cultura è la tesi ancora sostenuta dalla scuola di Tartu secondo cui la cultura si trova sempre sullo sfondo della non–cultura, intesa come uno spazio cultura- le altro, dotato di codici diversi. La cultura è quindi vista da Lotman non come una totalità ma come una parte, un’area chiusa sullo sfondo della “sua” non–cultura, cui si collega attraverso un confine:

Il confine dello spazio semiotico non è un concetto astratto, ma un’im- portante posizione funzionale e strutturale, che determina la natura del suo meccanismo semiotico. Il confine è un meccanismo bilinguistico, che traduce le comunicazioni esterne nel linguaggio interno della semiosfera e viceversa. Solo col suo aiuto la semiosfera può così realizzare contatti con lo spazio extrasistematico o non semiotico. (Lotman :)

Come è noto, Lotman ha molto lavorato sulla nozione di confine, nell’ambito della sua tipologia delle culture. Non ne discuteremo qui se non per segnalare un problema centrale, oggi anche dal punto di vista politico e non solo teorico: quello dato dalla sovrapposizione di culture diverse.

Il massimo ostacolo teorico alla nozione di cultura è infatti l’im- possibilità di individuare un singolo oggetto di questo tipo, che non si sia subito costretti a segmentare, stratificare, suddividere. Ci siamo già chiesti se esiste una cultura italiana in sé, ben definibile e chiusa. Il primo problema che si pone a questo punto se le “sottoculture” che vi abiterebbero

vadano considerate sul versante della sua non cultura, e immediatamente dopo se essa non si contrapponga come non cultura ad esse. Probabilmente le affermazioni di Lotman vanno intese in questo senso, ma chiaramente in questa maniera si con- fonde la differenza con la negazione, un errore categoriale confutato già nel Parmenide di Platone, che rende impossibile ogni analisi della complessità. Infatti queste diverse culture e sottoculture certamente condividono larghe parti della loro grammatica e magari si specificano reciprocamente per opposizione non in maniera netta e chiara, ma

. Per esempio sul piano geografico quella romana e torinese, siciliana e veneta e ancora, una cultura operaia e una contadina, una comunista e una fascista, una cattolica e una laica, una della giovane generazione e una tradizionale, ecc.

 . Ai margini della teoria

secondo tortuosi rimandi interni: si pensi per esempio al modo in cui le regole alimentari o quelle vestimentarie si distribuiscono per questi livelli.

Più si moltiplicano e si raffinano i livelli d’analisi, più risulta in- somma difficile produrre una gerarchia ordinata di appartenenze e distinzioni. La cultura cattolica non sarà solo interamente italiana o romana, ma anche internazionale, come dice la parola stessa. E così il sistema vestimentario sarà piuttosto occidentale che italiano, anche se l’occhio esercitato può trovare tracce di genius loci. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Vi sono tratti trasversali, faglie che si incro- ciano, parti che inglobano il loro tutto. Quel che è sicuro è la difficoltà di trattare le culture come oggetti sostanziali, distinti fra loro, con un confine in cui è chiaro cosa è interno e cosa è esterno. Forse è ragione- vole applicare la proposta di utilizzare la nozione di cultura solamente nel suo uso aggettivale, per indicare ciò che è immerso in un certo campo di arbitrarietà e trasmissibilità e non in senso sostantivale come singoli oggetti (Volli , Lorusso ).

Vi è un’altra dimensione di questo problema da sottolineare. Sulla base di quello che si è detto finora, è lecito sostenere ogni società complessa, a differenza da quelle “fredde” studiate dagli etnologi, più ridotte per ragioni demografiche e tecnologiche, è necessariamente multiculturale. Comunque si voglia definire il concetto di cultura, è chiaro che nelle società complesse convivono, si mescolano, si su- bordinano molte culture

. Fra le parole che dominano il dibattito politico–culturale contemporaneo vi è infatti il multiculturalismo. Sembrerebbe però che questa parola nell’opinione comune significhi un obbligo alla moltiplicazione di culture in senso diverso, cioè come espressione di società lontane fra loro e reciprocamente contraddit- torie; l’obbligo etico o politico imporrebbe di essere multiculturalisti in senso attivo e macroscopico, e cioè “accogliere” altre culture, acco- stare culture estranee ma tutte della dimensione che abbiamo sopra definito “totalitaria” — cioè di mescolare quelle che in termini lot- maniani si chiamerebbero reciprocamente “cultura” e “non–cultura”. È una ricetta data per scontata come una sorta di principio morale,

. Il che non significa affatto che debba essere necessariamente essere multietnica, cioè far convivere diverse culture “totalitarie” cercando di mescolarle fra loro, come teorizzano i muovi internazionalisti del politically correct.

. Culture e strategie della memoria  ma che meriterebbe un esame critico molto approfondito, perché le “culture”, ammesso che esistano, non si mescolano ma si delimitano a vicenda come somma di comportamenti. D’altro canto chi può davvero accogliere o essere accolto sono solo gli individui. Le culture, se ci sono, sono astrazioni, sistemi di regole e valori, la cui realtà sta solo nel concreto modo di vivere delle persone, da cui sono estratte. Irrigidire queste differenze, credere che le culture siano soggetti e non predicati, sostanze e non attributi, è come pensare le differenze genetiche in termini di razze: falso e dannoso. Gli individui sono cer- tamente culturali, portatori di regole, valori, gusti, abitudini. La storia mostra che proprio gli individui, non le società possono anche farsi multiculturali: parlare più lingue, conoscere più sistemi di regole o di abitudini, imparare ad adattare i propri gusti al contesto. Mangiare un cibo a casa e uno in fabbrica; parlare il dialetto coi genitori, l’italiano coi figli, l’inglese coi corrispondenti di lavoro; vestirsi in modo diverso alla partita e a teatro, d’inverno e d’estate. La multiculturalità delle per- sone, non il multiculturalismo della società, il lavoro dell’integrazione nella persona, non l’appartenenza rigida a un gruppo.

.

Se si guarda agli studi concreti e non alle prese di posizione di prin- cipio, tutta la semiotica, intesa quella “culturalista” alla Lotman, fa uso del concetto di cultura come una sorta di riferimento esterno o di appoggio presupposto al di là delle sue competenze. Non esiste un singolo studio propriamente semiotico che abbia la pretesa di de- scrivere la struttura di una cultura; ogni tanto capita che Lotman o altri presuppongano l’esistenza di un certo regime culturale, ma la pretesa di giustificare questo richiamo non è mai avanzata seriamente. Altre scienze sociali, innanzitutto l’antropologia e la sociologia si sono