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Ordine dal caos, ovvero metafisica e semiotica dell’agentività

.

“Agente”, dal punto di vista semiotico e linguistico, è innanzitutto il

soggetto di un fare

. Nel senso proprio e centrale di tale concetto, così come l’ha configurato la cultura occidentale, questo fare non si riduce però a una trasformazione generica o a una causalità indiscriminata, non è per esempio il cadere di una frana o l’abbattersi di un fulmine, la crescita di un albero o l’erodere il suolo da parte di un torrente — tutti fenomeni che nella nostra società non sono normalmente attribuiti a un agente

— e per lo più nemmeno l’agguato cui si dedica un animale, soprattutto se si tratta di animali “inferiori” come i ragni o gli insetti

, che non sono in genere pensati come capaci di azione nel senso più proprio, a differenza di quelli “superiori”, come i cani o i cavalli, ai quali invece viene usualmente attribuita la possibilità di occupare il ruolo di agente. La ragione di queste distinzioni è che quell’“agire” in senso proprio di cui parlo è caratterizzato nella nostra cultura come un fare consapevole e volontario, dunque responsabile nel senso che chi lo produce ne porta la responsabilità etica e anche penale,

ne risponde, perché l’ha voluto. Agente è dunque colui che determina i suoi effetti secondo un piano, o di cui si può presupporre in generale che lo faccia, non ciò (e neppure colui) che fa senza volerne il risultato.

. La prima definizione del De Mauro è «chi compie un’azione contrapposto a chi la subisce».

. Anche se in passato alcuni lo sono stati, come il fulmine spesso “scoccato da Zeus” nella mitologia greca.

. Per una interessante analisi del comportamento delle zecche in agguato cfr. von Uexküll J.J. (–).

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Potremmo quindi invertire la nostra prima frase definitoria e so- stenere che predicare l’agire equivale a fare un soggetto (nel senso di

pre–sup–porrela sua esistenza), aggiungere una qualche interna de- terminazione “soggettiva”, un qualche dispositivo di volizione, al meccanismo causale che opera una trasformazione nel mondo, at- tribuire cioè a quel qualcosa/qualcuno che appare prominente nella catena causale dell’evento agito l’eccezione di un progetto invisibile come

causa delle sua azioni visibili; ipotizzare dunque che esista una coscienza (semioticamente: un soggetto competente secondo il sapere) dei suoi atti, un “voler fare” quel che si causa e un “saperlo fare” (secondo il potere): essenziali supplementi modali alla pura datità del fare, che ne complicano notevolmente la natura, aggiungendo loro una sorta di “seconda causalità”. Essere agente, da questo punto di vista è trovarsi

in uno “stato di eccezione”

. Ciò che è fatto da un agente non avrebbe infatti solo cause (“cause efficienti” nella terminologia scolastica), ma anche “ragioni” o “scopi” (“cause finali”) che sarebbero le sole a poter- ne spiegare il senso vero, come teorizza lucidamente per la prima volta nella storia della cultura occidentale l’auto–osservazione di Socrate nel finale del Fedone (e–b)

:

[Anassagora] quando si tratta di spiegare le cause di ogni mio gesto, se ne esce col dire che io sto seduto perché il mio corpo è fatto di ossa e di muscoli e che le ossa son rigide e hanno le articolazioni che le separano le une dalle altre, mentre i muscoli son fatti in modo che si possono tendere e allentare, che essi circondano le ossa insieme alla carne e alla pelle che tutto racchiude e che, quindi, grazie alle ossa che fanno leva sulle loro giunture e ai muscoli che si tendono e si allentano, io ho la possibilità di piegare le membra e che, quindi, per questo motivo, ora sto qui seduto con le gambe piegate. E del fatto che io ora sto parlando con voi, potrebbe tirare in ballo un sacco di cause simili, la voce, per esempio, l’aria, l’udito e altre del genere, ma non quelle che sono le vere ragioni, cioè che, siccome gli ateniesi han pensato bene di condannarmi, io, a mia volta, ho ritenuto che fosse più opportuno restarmene seduto qui e più giusto subire la pena che essi hanno decretato. [. . . ] Chiamare cause tutte queste cose mi sembra proprio un’assurdità: al

. Il riferimento alla terminologia schmittiana non è puramente estrinseco. Anche il sovrano di Schmitt è il solo vero agente politico (Schmitt ).

. A parte gli episodi omerici che narrano la stessa cosa, per esempio il celebre luogo dell’Odissea in cui Odisseo, travestito da mendicante sulla soglia del suo palazzo, si trattiene dallo scagliarsi contro le serve che vanno nelle stanze dei Proci. Per un’analisi si vedano le mie Lezioni di filosofia della comunicazione, capitolo VI.

. Ordine dal caos, ovvero metafisica e semiotica dell’agentività  massimo uno può dire che, senza ossa, senza muscoli e tutto il resto, io non potrei fare ciò che voglio, ed avrebbe ragione, ma affermare che di tutto ciò che faccio — che è pure il frutto di un mio pensiero –, la causa sono i muscoli e le ossa e non la conseguenza di una scelta del meglio, è proprio un voler deformare il senso delle parole. Perché questo, infatti, significa non capire che una cosa è la causa vera e propria e un’altra è la condizione senza la quale la causa non potrà mai essere tale.

È importante sottolineare che a differenza del fare, che si svolge tutto nel mondo e per sua natura produce semplici circostanze (“la pioggia inonda il campo”), questo sovrappiù modale (voler fare ecc.) che promuove l’evento ad ad azione nel discorso di Socrate e in tutto il pensiero che ne è seguito fino almeno a Wittgenstein, non sarebbe

semplicemente rilevabile sul piano empirico, non apparterebbe ai fatti del

mondoe sarebbe invece sempre solo attribuito da un osservatore — fosse pure l’agente stesso. I muscoli e le giunture di Socrate si posso- no rilevare oggettivamente, la sua decisione no, la conosciamo dalla sua

testimonianzao dalla nostra interpretazione della sua azione. Questa

attribuzionedi volontà (e dunque di senso) può essere fatta di routine in certi casi: per esempio quando si parla di esseri umani adulti vi è nella nostra società una presupposizione generale di questa condizione di agency, che viene anche espressa da quella scusa eccezionale e non sempre accettata che assicura di fronte a un mis–fatto che “non l’ho fatto apposta”, cioè non ero davvero agente del mio (mal) fare. Dal punto di vista giuridico, però, un certo grado di agency nei fatti in cui intervengano esseri umani è sempre presupposto: anche chi causa un danno senza volerlo ne porta un certo grado di colpa proprio per non aver esercitato la sua volontà, potendo impedirlo. È per esempio così che si fonda la responsabilità dell’omicidio colposo. Ma in altri casi (bam- bini, animali, automi, persone in stato mentale alterato, organizzazioni ecc.) questa attribuzione non è scontata e richiede una valutazione, una sorta di salto o di scommessa interpretativa a partire dai fatti.

Essere agente, o essere considerato come agente, dunque non è una

condizione empirica. Le azioni, il fare, gli atti, gli effetti sono visibili; la coscienza, il volere, il sapere, il piano non lo sono, anzi costituiscono (o sono comunemente pensati come) una sorta di lacuna nell’ininter- rotta serie delle cause e degli effetti che caratterizza il mondo naturale. Un’azione è considerata volontaria nella tradizione del pensiero occi- dentale se in essa interviene (o piuttosto: se si suppone che intervenga)

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un fattore estraneo dalla semplice catena oggettiva delle cause, quella catena che per esempio fa crescere storto un albero esposto al vento o porta un fiume a straripare dopo una forte pioggia — senza che essi lo vogliano. L’azione sarebbe invece il frutto di una “decisione”, che anche etimologicamente allude a un taglio. Si tratta chiaramente di un’attribuzione metafisica, dell’intervento di un altro ordine di de-

terminazionirispetto a quello puramente materiale. È peraltro una determinazione fondamentale, perché solo su essa riposa la presun- zione di responsabilità (accountability) anche penale agli esseri umani, ciò che correlativamente li rende titolari di diritti.

Racconta Erodoto

che l’imperatore persiano Serse I punì il ma-

redopo che una tempesta distrusse il ponte sull’Ellesponto che egli aveva appena fatto costruire per invadere la Grecia. La punizione fu eseguita infliggendo al mare trecento frustate, accompagnate da una terribile e offensiva maledizione. Il re ordinò pure che fossero scagliati in mare due ceppi con l’aggiunta, probabile, di una marchiatura a fuoco del mare, per lasciare su di esso un’onta perenne. Vera o falsa che sia, questa storia è probabilmente raccontata dallo storico greco per realizzare l’effetto che puntualmente ottiene ancora presso i suoi lettori moderni: far considerare l’imperatore persiano un barbaro su- perstizioso, incapace di distinguere le persone dalle cose, un volgare animista. Infatti per noi non ha alcun senso punire qualcosa come il mare che non è un agente in senso proprio, e dunque non può es- sere tenuto responsabile dei suoi effetti. Chi lo fa ci appare sciocco o pazzo. Inutile dire che dal punto di vista di Serse, se l’episodio è vero, il gesto potrebbe aver avuto un senso rituale rispetto a un agente divino o comunque soprannaturale, oppure avrebbe potuto essere compiuto per legare magicamente l’elemento naturale, anche senza con ciò attribuirgli un’agentività; la magia si caratterizza in generale per un pensiero meno definito riguardo alla distinzione di cui stia- mo parlando. Ma dobbiamo abbandonare qui questa considerazione transculturale: il nostro ragionamento sarà tutto condotto all’interno della tradizione di pensiero occidentale in cui le categorie di agente, volontà, responsabilità, colpa sono sempre pertinenti.

Per quanto riguarda gli esseri umani, ciascuno di noi, secondo il senso comune condiviso nella cultura moderna, sentirebbe in prima

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persona di essere agente, cioè crederebbe pacificamente che la sua volontà determini liberamente (nelle circostanze date, è chiaro) le sue azioni, sottraendole alla pura catena causale di tutti gli eventi del mon- do; secondo questo modo di vedere ognuno vive la propria libertà e responsabilità nell’agire. Invece non ha modo di conoscerla mai fuori di sé ma può solo attribuire agli altri o ad altre cose una condizione analoga alla sua, compiendo un salto dal loro comportamento o an- che solo dagli effetti della loro azione, alla valutazione di essa come volontaria e “intelligente”.

Pur senza entrare nel merito della fondatezza filosofica e scientifica di questa convinzione, se proviamo a precisarne meglio il contenuto vediamo che dal punto di vista semiotico si tratta di un’operazione che rientra perfettamente nella nozione peirceana di interpretazione: un fare — o lo stato di cose da esso determinato — diventa azione solo se è letto come segno di qualcosa che in essa non è fisicamente presente, vale a dire il progetto, l’intenzione che la determinerebbe; e ciò a sua volta comporta l’attribuzione della qualità di agente di chi la compie. Il parallelismo è assai più profondo di quanto si potrebbe pensare. Infatti il riconoscimento di un agente si può descrivere come l’attribuzione di un senso alle sue azioni o alle opere che ne conseguono; esse non appaiono semplicemente come il fenomeno che di fatto sono (quel che Peirce avrebbe chiamato la loro “Firstness”) né sono pensate solamente in quanto effetto di una loro qualche causa (secondo la categoria della “Secondness”), ma si riferiscono a (o ci riferiscono di) un progetto, un’intenzione ecc. (“Thirdness”).

Senso e agency si richiamano dunque vicendevolmente: secondo questo quadro mentale un comportamento volontario deve avere sen- so, un comportamento che ha senso dev’essere attribuito a un agente. È interessante anche, come vedremo meglio subito, che l’attribuzione di agency consegua di solito nella tradizione occidentale di pensiero al riconoscimento di un carattere espressivo (artistico o politico come in Platone o linguistico, come nel caso del test di Turing

) agli effetti del comportamento in questione. In effetti dire che qualcosa (o qualcuno o Qualcuno) sia un agente (o un soggetto) è esattamente la stessa cosa di affermare la sua natura linguistica; la trascendenza della sua soggettività o “agentività” è della stessa natura della trascendenza del

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significato rispetto al significante: implica un giudizio di pertinenza e la costruzione di un piano trascendente del senso che spiegherebbe e motiverebbe i fenomeni materiali dell’attività comunicativa. Dal punto di vista della semiotica contemporanea, è facile riconoscere in questa struttura di senso una situazione analoga a quella della presupposizio- ne che ogni enunciato comporta del proprio atto di enunciazione

, o del sistema guardante/guardato che Ruggero Eugeni propone di riconoscere in ogni immagine (Eugeni ). Non è difficile cogliere sullo sfondo il problema dell’authorship, cioè dei ruoli cui viene attri- buito un testo (lo scrittore empirico, con le sue idiosincrasie culturali e biografiche, il narratore, l’“autore modello” di Eco () ecc.).

Non è mia intenzione qui interrogarmi né sulla questione dell’attri- buzione di agency agli altri esseri umani (il problema del superamento del solipsismo metodologico, molto dibattuto nella storia della filo- sofia, soprattutto nella linea di pensiero che culmina nella quinta meditazione cartesiana di Husserl), né su quello della sua eventuale at- tribuzione alle macchine, centrale nel dibattito delle scienze cognitive contemporanee, soprattutto a partire da Turing. Non voglio neppure soffermarmi sul fondamento di un’ideologia che è data per scontata nel nostro mondo, ma appare estranea ad altre tradizioni culturali, per esempio nel mondo islamico e in quello buddhista, ed è rifiutata da almeno un’importante linea di pensiero teologico dell’Occidente (dall’Agostino di De civitate Dei al Lutero del De servo arbitrio).

Mi interessa invece discutere qui la possibilità, molto praticata nel corso di tutta la storia della cultura occidentale e ancora particolar- mente attiva nel dibattito contemporaneo su creazionismo e disegno intelligente, di provare a qualificare il mondo intero come traccia di un comportamento da cui risalire a un agente (o piuttosto a un Agente). È la tematica della creazione, che rimanda a una profonda dimensione teologica dell’agency. La studieremo in due direzioni logiche, prima dall’opera all’agente (dalla creatura al Creatore) e poi in senso inverso.

. Giovanni Manetti, L’enunciazione. Dalla svolta comunicativa ai nuovi media, Mondadori Università, Milano .

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.

Nell’esplorare questa prospettiva conviene iniziare a seguire per al- cune tappe sommarie la tematica antica delle prove “a posteriori” dell’esistenza di Dio, in particolare di quelle dette “cosmologiche”. Non ci interessa qui però tanto la conclusione del ragionamento (quel- la per cui, dato un certo quadro dell’esistente e certe regole logiche, “deve” esistere un Dio che ne sia l’artefice), o la sua tenuta logica, ma il quadro stesso, l’operazione o il salto semiotico per cui in esso si pretende di riconoscere un “disegno intelligente” dell’universo e lo si attribuisce a un artefice.

La prima espressione articolata di questo pensiero nella tradizione filosofica occidentale si trova diffusamente in Platone. Il luogo più im- portante di questa teoria è certamente il Timeo, di cui discuteremo in seguito qualche dettaglio. Partiamo invece qui dal Filebo, per il carattere sintetico del ragionamento che viene svolto qui. Dichiara Protarco, interlocutore di Socrate: «Che l’Intelligenza (nous) ordini (dikosmei) tutte le cose è affermazione degna (axion) dello spettacolo (opseos) che il mondo, il sole, la luna e gli astri e tutte le rivoluzioni celesti ci offro- no». Dunque vi sarebbe uno “spettacolo” (o piuttosto una “visione”

opsis) celeste, così straordinaria da esibirne un aspetto “cosmico”, cioè ordinato, perfetto, esteticamente sublime

. tale che la sua “dignità” richieda tassativamente l’affermazione di un’intelligenza (“è degna”

axiòs, vien predicato con significato non tanto morale quanto cognitivo, secondo la linea di pensiero che porta ai nostri “assiomi”). L’ordine e la bellezza postulano dunque un’intelligenza (poco prima definita, con un’espressione molto interessante per l’endiadi quasi biblica degli elementi, “nostra regina del cielo e della terra”) che non si limiti a causarli meccanicamente, ma ne sia stata agente in senso forte. La bellezza e l’ordine non escono dal caso, ma da volontà e intelletto.

Vale la pena qui di fare un passo indietro rispetto a questa afferma- zione così decisa: lo stesso concetto è infatti espresso, subito prima del brano citato, in forma falsamente interrogativa dalla domanda retorica di Socrate cui questa dichiarazione risponde. Socrate chiede se «l’in-

. Possiamo solo citare qui la coincidenza fra la problematica che ci interessa in questa sede e la questione del “bello di natura”, così dibattuta in ambito romantico: si pensi alla contrapposizione su questo tema, fra le posizioni di Kant e di Hegel.

 . Testualità eccentriche

sieme di tutte le realtà, ciò che chiamiamo tutto [to kalumenon olon], lo governino una intelligenza e una mirabile saggezza ordinatrice [noun

kai fronesin tina thaumastèn sintattusan diakubernàn]» o esso sia «solo determinato dal caso, dall’irrazionale e dal fortuito» (Filebo, e). La domanda prepara esattamente la risposta, che naturalmente è affer- mativa. E infatti la vista o lo spettacolo ottico così straordinario citato nella risposta corrispondono qui perfettamente a una qualificazione di “mirabile” o “meraviglioso”, che però nella domanda è attribuita all’intelligenza piuttosto che al mondo, il quale diventa qui un sempli- ce “tutto”. Allo stesso modo l’ordine, che nella risposta è del mondo, viene specificato qui in due momenti, uno riferito al montaggio delle parti, che per noi ha risonanze quasi grammaticali (sintattusan), l’altra al “governo” o piuttosto al controllo e alla conduzione (diakubernàn:

kubernetesè il timoniere o il comandante di una nave), ma entrambi sono proposti come proprietà della fronesis, dell’intelligenza attiva, capace di ottenere effetti.

Vi è dunque, fra domanda e risposta di questo frammento di dialo- go, un chiasmo, la proposta decisiva anche se implicita di un rispecchia- mento interno, di una traslazione, di una vera e propria “metafora” fra l’organizzazione del mondo e la saggezza divina: in definitiva, una

tautologia. Solo postulando noi in partenza una fronesis in qualche modo sintattica e governatrice, siamo in grado di ri–conoscere l’ordine del mondo come suo segno e quindi di affermarne l’esistenza.

Tant’è vero che il risultato del ragionamento sarà così stabilito poco più in basso: «nella natura di Zeus si trovano un’anima regale e un’in- telligenza regale in forza del potere della causa»; tale da poter costituire una vera e propria “anima del mondo”. Più in generale «l’intelligenza appartiene al genere di quella che abbiamo chiamato causa di tutte le cose» (nous esti genoustes tou panton aitiou). (Filebo, d) Intelligenza e causa si implicano a vicenda, possono essere viste l’una per l’altra, perché appartengono allo stesso genere, partecipano dunque della stes- sa essenza. Riconoscere l’una correttamente significa vedere anche l’altra. Era la tesi svolta in termini antropologici, invece che come qui cosmologici, nel brano del Fedone che abbiamo citato sopra.

Troviamo un’analoga affermazione — probabilmente però basata testualmente soprattutto su un breve inciso di Aristotele

dove si para-

. Ordine dal caos, ovvero metafisica e semiotica dell’agentività  gona Dio al capo di una casa bene ordinata o di un esercito — in Filone di Alessandria, tre secoli dopo. Si tratta di un testo particolarmente significativo perché Filone è il primo a fondere il pensiero greco e quello ebraico sul tema della creazione, aprendo una linea di analisi che sarà assai popolare fra i Padri della Chiesa.

Se si vede una casa costruita con cura, con vestiboli, portici, appartamenti per uomini e donne e per altre persone, ci si farà un’idea dell’artista: non si penserà che sia stata fatta senza arte e senza artigiani. E lo stesso si dirà di una città, di un battello [. . . ]. Allo stesso modo colui che è entrato, come in una casa o in una città grandissima, in questo mondo ed ha visto il cielo che gira in circolo e contiene tutto, i pianeti e le stelle fisse [. . . ] e la terra che ha avuto il posto centrale. . . costui concluderà che tutto ciò non è stato fatto senza un’arte perfetta e che l’artigiano di quest’universo è stato ed è Dio.

Di nuovo l’invito è di nuovo a ri–conoscere tautologicamente nella natura e in particolare nell’organizzazione del cielo uno spettacolo

meraviglioso, traendo da questa meraviglia l’evidenza della divinità