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Le pertinenze dell’impertinenza

.

“Impertinenza”, per la sua struttura linguistica, è parola negativa, che un prefisso privativo trae da una voce “pertinenza”, assai meno diffusa nel discorso comune. Rispetto ad essa, peraltro, come vedremo subito, sul piano sostanziale l’impertinenza va considerata piuttosto come termine contrario che logicamente contraddittorio. Costituisce cioè una tensione semantica con esso, ma non lo nega semplicemente e totalmente. Per comprendere meglio questa relazione, è opportuno proprio partire dal termine positivo.

a) “Pertinenza”, secondo il dizionario Sabatini/Colletti

, è il « Carattere di ciò che è pertinente, in rapporto con qualcosa [. . . ] anche, spettanza, competenza [. . . ] | beni di pubblica per-

tinenza, di proprietà pubblica| di tua, mia ecc. pertinenza, di tua,

mia ecc. proprietà, spettanza». Per il Devoto–Oli (: ) si tratta innanzitutto di «. competenza: la causa non è di perti-

nenza del tribunale». Ma “pertinente” è invece innanzitutto «. ciò che riguarda direttamente, attinente, relativo, riguardante, concernente [. . . ] . appropriato, opportuno». Guardando allo Zingarelli (: ) i risultati non sono troppo diversi: “per- tinente” è innanzitutto «ciò che riguarda direttamente un dato argomento, concernente, spettante» e “pertinenza” è innanzi- tutto “condizione o qualità di pertinente” e solo in secondo luogo “competenza”. Al centro di queste definizioni vi è quello che in termini semiotici potremmo chiamare una congiunzione non semplicemente casuale ma motivata, obbligatoria. Spettare,

. http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano.

 . Ai margini della teoria

concernere, appartenere sono tutte varianti della modalità del

dover essere congiunto. In sostanza, una relazione di proprietà. L’uso della lingua italiana mette però anche di più di quanto appaia da queste citazioni la pertinenza in relazione diretta al possesso. C’è infatti un’altra definizione ben distinta di pertinenza in tutti i dizionari, che abbiamo finora omesso solo per poterla sottolineare a parte col rilievo che merita. “Pertinenze” si chiamano in linguaggio giuridico gli elementi esterni a un bene immobile che ne fanno interamente parte (come un box)

; l’aggettivo relativo però cambia: un bene così legato si dice per lo più non pertinente ma “pertinenziale”».

Cerchiamo di chiarire ulteriormente il senso di questa espressione complessa. Anche la pertinenza espressiva, quella privilegiata dai lin- guisti, di cui abbiamo trovato prima le definizioni dei dizionari, ha un ruolo in un certo senso analogo perché è l’elemento decisivo di ciò che si usa chiamare non a caso la “proprietà” del linguaggio, vale a dire la sua esattezza, il suo perfetto contenimento nei limiti della grammatica e soprattutto del lessico, la sua coerenza concettuale. Questa “proprietà”, chiaramente metaforica, è un termine che può essere accostato alla “purezza” ancora del linguaggio o alla “compostezza” prescritta dalla buona educazione ai bambini. “Pertinente” nel senso più comune (“un intervento pertinente nella discussione”) è detto dunque ancora quell’enunciato che “appartenga” al suo tema dato.

Ciò che appartiene a un argomento (un poter–dire, poter congiun- gere al discorso) o a una competenza giuridica (un poter agire, dunque poter prendere nella sfera della propria azione, poter congiungere a essa) o a una proprietà immobiliare inseparabile (un poter disporre, ma non

poter dividere, dunque non poter non congiungere) è sempre caratteriz- zato dall’importanza del legame o della congiunzione. Chiameremo questa nozione di pertinenza proprietaria c–pertinenza.

b) Nella classica definizione del circolo di Praga sono invece trat-

. L’art. c.c. definisce le “pertinenze” come le «cose destinate in modo durevole al servizio o ad ornamento di un’altra cosa». «Per fare un esempio, un garage può essere destinato a pertinenza di un immobile. Le pertinenze possono essere classificate come degli ornamenti, nel senso che il bene che ha in pertinenza un altro bene, privato di quest’ultima non risulterà inutilizzabile» http://it.wikipedia.org/wiki/Pertinenza. Lo stesso significato è registrato dallo Zingarelli.

. Le pertinenze dell’impertinenza  ti “pertinenti” quelli che (di nuovo) appartengono al nucleo

indispensabile delle proprietà definitorie di un fonema (e per estensione, con gli opportuni adattamenti, di altre unità lingui- stiche o semiotiche più estese), perché lo contrappongono ad altri simili, ne demarcano per così dire il confine rispetto a questi — in contrapposizione a quei tratti liberi o facoltativi che non sono

propridell’unità linguistica in questione, dunque non le appar- tengono in senso pieno. In italiano, per esempio, il carattere sordo o fricativo non è proprio al fonema /s/, non gli appartie-

negiacché non lo definisce, ma è un’alternativa che appartiene invece alla definizione delle varianti regionali della fonologia italiana. Alla stessa maniera il genere non è un tratto definitorio (sempre in italiano) di lessemi come /tigre/ o /nipote/; non gli è pertinente, non è chiamato in causa dalla loro definizione come accade invece nel caso del /toro/ o della /mucca/. E però nei casi reali le varianti libere sono sempre presenti. So- no obbligatorie, in una forma o nell’altra, ma variabili. Questi tratti devono avere un rapporto di giunzione (non ci potrebbe essere un bovino che non fosse né maschio né femmina — né castrato — o una esse né sorda né fricativa. Quel che è indifferente (o meglio, che dipende da un altro ordine di fattori) è la scelta fra la congiunzione o la disgiunzione. Bisogna notare che non solo in certe situazioni ci potrebbe essere una variante obbligatoria e in altre situazioni un’altra, ma anche che in certe situazioni una variante può riuscire oppositiva, in altre no. La fonologia offre abbondanti prove della neutralizzazione di opposizioni che all’origine sono pertinenti, come per esempio la lunghezza delle vocali in greco e latino che nel corso dello sviluppo storico di queste lingue si perde.

In definitiva la distinzione fra tratti pertinenti e facoltativi è ana- litica, non è un semplice dato di fatto. Dipende dalla scelta di una pertinenza (ogni tratto è pertinente rispetto a una pertinenza particolare), e questa scelta ha a sua volta carattere pragmatico. Nel caso più chiaro, quello linguistico, essa ha certamente a che fare con la costruzione o il riconoscimento di una lingua a partire da un certo numero di varianti presenti sul territorio, il che spesso non è affare dei linguisti ma dei politici e dei militari. Dunque questo tipo di s–pertinenza (come la chiameremo) riguarda non tanto il livello dell’organizzazione empi-

 . Ai margini della teoria

rica, ma quello dell’analisi dell’unità linguistica (che naturalmente è sempre presupposta dal suo uso e comprensione in ogni determinata situazione).

c) Appare però interessante richiamare oltre alla classica nozione strutturalista di pertinenza, quella pragmatica o dialogica

. Dan Sperber ha pubblicato quasi trent’ anni fa in un importan- te libro scritto con Deidre Wilson () dedicato a una nozione di “relevance” che è stata (impropriamente? impertinentemente?) tra- dotta nell’edizione italiana usando l’espressione “pertinenza” (anche se certamente nella nostra lingua il lessema “rilevanza” esiste e può assumere proprio il senso previsto da Sperber e Wilson). La loro de- finizione si incentra sul rapporto fra gli interlocutori comunicativi, invece che su quello fra l’utente del linguaggio e i testi. È dunque un concetto pragmatico — la potremmo chiamare p–pertinenza —, che probabilmente per questa sua collocazione disciplinare in un am- bito tradizionalmente filosofico–linguistico ha suscitato una troppo

. Per chiarirne la portata, al di là della stretta tecnica di costruzione delle unità lingui- stiche iniziata nel circolo fonologico di Praga, e proseguita poi attraverso Hjelmslev nella semiotica greimasiana, mi permetto di citare qui un brano estremamente significativo di un autore oggi considerato laterale nel canone semiotico, ma invece interessantissimo e straordinariamente utile per la sua lucidità teorica. Nel seguito di questo articolo, facendo riferimento alla pertinenza nel senso strutturale del termine, mi riferirò al concetto così analizzato come s–pertinenza. Scrive Luis Prieto (, p. ): «Ci sembra che la nozione di “pertinenza” così come è stata elaborata dai fonologi figuri tra le nozioni di provenienza semiologica da cui si può trarre il maggior profitto [. . . ] Da una parte in effetti il problema che i fonologi si pongono nei confronti dell’identità sotto cui il soggetto parlante conosce i suoni della lingua si pone in generale nei confronti dell’identità sotto cui un soggetto conosce un oggetto materiale qualsiasi, poiché in nessun caso la pertinenza delle caratte- ristiche che determinano tale identità risulta dall’oggetto stesso; e d’altra parte, come nel caso dei suoni, è sempre a partire dal punto di vista da cui il soggetto considera l’oggetto materiale che si spiega questa pertinenza. L’identità sotto cui un soggetto conosce un oggetto materiale è ovviamente la stessa cosa che il modo in cui lo concepisce: in effetti conoscere un oggetto sotto una certa identità non è in definitiva altro che riconoscerlo come membro di una classe e quindi come appartenente all’estensione di un concetto [. . . ] Per quanto concerne l’identità sotto cui il soggetto parlante conosce i suoni, questo punto di vista è quello dei rapporti che essi intrattengono con i significati. Ma un significato non è in definitiva se non un’identità sotto cui il soggetto parlante conosce il senso, cioè quel che “si dice” nell’atto di parole, e quindi un modo di concepirlo. La pertinenza del modo in cui il soggetto parlante concepisce i suoni della lingua presuppone così un modo particolare di concepire un altro oggetto — il senso — appartenente a un “piano”, o in termini più rigorosi, a un universo di discorso diverso da quello cui appartengono i suoni».

. Le pertinenze dell’impertinenza  limitata attenzione nel mondo semiotico, ma che si presta molto bene all’analisi dell’impertinenza comunemente descritta nei dizionari, e naturalmente anche di quella contestativa.

A costo di apparire impertinente io, mi permetterò nel seguito di questo articolo di accostare al concetto di s–pertinenza quello di

c–pertinenzae di p–pertinenza, mettendole in relazione fra loro senza lasciarmi frenare dalle differenti radici teoriche e culturali di queste diverse accezioni.

In particolare trovo opportuno richiamare qui la serie di definizioni di Sperber & Wilson, che chiariscono in maniera approfondita questa linea di interpretazione dei fenomeni comunicativi:

Comunicazione ostensivo–inferenziale. Il comunicatore produce uno stimolo che rende mutuamente manifesto al comunicatore e al destinatario che il comunicatore vuole, tramite questo stimolo, rendere manifesto o più manifesto al destinatario un insieme di ipotesi I (Sperber & Wilson: ). Un fatto è manifesto a un individuo in un momento dato, se e solo se questo individuo è capace in quel momento di rappresentarsi mentalmente quel fatto e di accettare la rappresentazione come vera o probabilmente vera. [. . . ] Un ambiente cognitivo per un individuo è l’insieme dei fatti che gli sono manifesti. (Ivi: )

Da queste definizioni si vede che la comunicazione ostensivo– inferenziale è un processo in cui un emittente modifica in maniera esplicita l’ambiente cognitivo di un destinatario, inducendolo a cambiare le sue ipotesi sulla realtà:

Pertinenza: condizione: un’ipotesi è tanto più pertinente in un contesto dato

quanto maggiori sono i suoi effetti contestuali [cioè quanto maggiore è la modifica che essa comporta dell’ambiente cognitivo del destinatario in quel contesto, uv].

Condizione: un’ipotesi è tanto più pertinente in un contesto dato quanto

minore è lo sforzo necessario per trattarla.

Principio di pertinenza:

Ogni atto di comunicazione ostensiva comunica la presunzione della propria pertinenza ottimale.

Presunzione di pertinenza ottimale:

a) L’insieme delle ipotesi I che il comunicatore vuole rendere manifeste al destinatario è abbastanza pertinente affinché lo stimolo ostensivo meriti di essere trattato dal destinatario.

 . Ai margini della teoria

b) Lo stimolo ostensivo è il più pertinente tra tutti quelli che il comuni- catore poteva utilizzare per comunicare I. (Ivi, p. –)

Come nel caso dei principi di Grice, anche queste definizione di Sperber e Wilson possono essere prese per regole di buona educazio- ne o addirittura per criteri morali. In realtà si tratta d’altro: emittenti e destinatari conoscono che queste sono le convenzioni del gioco comu- nicativo e si regolano su di esse. Potremmo addirittura dire che il con- testo comunicativo è non solo p–pertinente, ma anche s–pertinente per il senso degli interventi in una conversazione (cioè per la maggior parte dei testi reali), dato che ne determina essenzialmente il valore, costituendo opposizione rispetto ad altre significazioni basate sullo stesso significante. Che lo voglia o meno, ogni comunicazione è presa nella maglie di questo gioco, e deve tenerne conto. Non essere per- tinenti secondo la definizione di “relevance” può portare ad essere impertinenti, ma più facilmente condannerà all’irrilevanza.

La p–pertinenza, come la s–pertinenza, inoltre, ha a che fare con un dover essere congiunti. Ma in questo caso la modalità non agisce sul piano dell’organizzazione della forma dell’enunciato, che come abbiamo visto brevemente è s–pertinente solo se rientra nella carat- teristiche definitorie e oppositive dell’entità linguistica astratta (un certo fonema, un certo lessema ecc.) in cui la si vuole includere; né nel contenuto enunciativo, come nel caso della c–pertinenza o ap- partenenza. La p–pertinenza è invece una congiunzione obbligatoria che si riferisce al livello enunciazionale, cioè a quel che appartiene alla conoscenza reciprocamente presupposta (all’enciclopedia, al frame comune) degli interlocutori.

d) Da queste considerazioni è chiaro che l’appartenenza e la (buo- na) delimitazione sono caratteristiche rilevanti, anche se non forse le più evidenti a prima vista, che riguardano tutte le nozioni di pertinenza che abbiamo incontrato.

La questione della pertinenza interpella dunque ciò che è proprio, anche nel senso francese di proprie, vale a dire pulito: ciò che è proprio (c–pertinente) dire — senza cadere nell’impertinenza o nel linguaggio “sporco” — e ciò che è proprio (p–pertinente) alla comunicazione e che è permesso di intendere senza scorrettezza; per esempio nell’e-

. Le pertinenze dell’impertinenza  nunciazione di una frase: i giusti tratti fonologici (s–pertinenti), non la

foneticamateriale (“etic”) che denuncia spesso genere, etnia, prove- nienza geografica, età, educazione: tutte cose su cui la Costituzione italiana — e con essa ogni political correctness — impone di non fare discriminazioni improprie.

A questo punto siamo in grado di notare che esistono palesemente

appropriazioni impropriedel linguaggio, pertinenze dell’impertinenza. In certi casi, cioè, la pertinenza non appare più pertinente, non c’entra più o viene allontanata con una forza che non è necessariamente solo linguistica, ma magari sociale e materiale: si impone l’impertinen- za. Essa si può caratterizzare allora come la liberazione dalla proprietà,

l’uscita dai vincoli del collegamento e dell’appartenenza: un linguaggio “improprio”, una risposta che non rientra nel tema della domanda,

una comunicazione che fuoriesce dai limiti della relazione sociale in cui si dovrebbe collocare, un discorso “sconcertante”. E però è chiaro che la lingua (almeno l’italiano e qualche altra lingua neolatina, già in inglese questo ragionamento sarebbe difficilmente proponibile) con l’opposizione fra /pertinenza/ e /impertinenza/ fa una sorta di mossa del cavallo, sposta il fulcro semantico dall’appartenenza nel senso vasto che caratterizza il termine positivo a una violazione più o

meno sostanziale delle norme socialiche assegnano a ogni parlante un suo posto nella vita collettiva, per il termine negativo

. Nel seguito di questo saggio cercheremo di confermare questa diagnosi con qualche esempio, o meglio indicando qualche tipico campo di applicazione dell’impertinenza.

.

In primo luogo, possiamo considerare l’impertinenza come dispo- sitivo essenziale di ogni linguaggio della “contestazione”, o meglio

. Ad esempio: Devoto/Oli: impertinenza sf . Arrogante mancanza di riguardo o di rispetto, insolenza, impudenza [. . . ] . Atto o espressione insolente e maligna, insolenza, scortesia. Zingarelli impertinenza sf . Qualità di chi, di ciò che è impertinente [ = persona poco riguardosa, sfacciata e simili; atto o discorso insolente e irrispettoso] . Atto o discorso sconveniente e importuno. (http://www.dizi.it/impertinenza): impertinenza . (sf.) L’es- sere impertinente; sfacciataggine, arroganza, insolenza. <> cortesia. Sinonimi: arroganza, derisione, faccia tosta, imprudenza, inopportunità, insolenza, irriverenza, maleducazione, presunzione, scortesia, sfacciataggine, spudoratezza.

 . Ai margini della teoria

dell’uso contestativo del linguaggio. Chi contesta, chi rifiuta per qual- che ragione e in qualche misura l’ordine sociale, chi si ribella alle istituzioni e alle gerarchie, soprattutto a quelle che regolano la vita quotidiana e familiare, risulta per forza impertinente o “insolente”: pa- rola interessante, questa, perché appare più drastica di quella intorno a cui stiamo lavorando, ma il cui significato etimologico la rimanda al latino solere e la riporta dunque all’“insolito” (Cortellazzo — Zolli , vol. III: ). E chi è insolente/impertinente, sfida per forza l’ordine, prova a disgiungersene, a modo suo contesta, anche se finge di non farlo, com’è il caso del “buon soldato Schweik” (Hašek –) e di Bertoldo (Croce ). Come ha abbondantemente mostrato Foucault (per esempio ) e ha ripreso poi Barthes (), l’ordine linguistico e quello sociale in certa misura si tengono. Rompere quello vuol dire insidiare questo.

Contestare è secondo il dizionario etimologico Pianigiani

. Voce forense, che presso i Romani valeva prendere, chiamare in testimonio, indi intimare, incominciare una lite davanti al giudice col produrre ciascuna parte

i propri testimoni. Presentemente nei tribunali conserva presso a poco la stessa significazione, ma più comunemente si usa per Obiettare dei fatti nell’atto introduttivo di una lite; Opporsi a una domanda, a una pretesa e simili.

È nell’ultimo senso — di opposizione e in definitiva sovversione a una pretesa dell’autorità costituita — che questa parola si è imposta negli ultimi quarant’anni in italiano e in altre lingue europee. Ma al lin- guista non sfugge che “contestar” è la parola spagnola per “rispondere” e il semiologo non può certo considerare irrilevante che la composi- zione della parola corrisponda a un termine chiave della semantica, quel “contesto” che fu già inteso da Roman Jakobson, in uno dei saggi formativi del paradigma comunicazionalista dominante ancora oggi, in maniera metonimica come una designazione della realtà esterna alla comunicazione, ciò intorno a cui essa verte; dunque qualcosa di ben diverso dal senso comune della parola “contesto”, quell’intorno del frammento preso in considerazione che alcuni hanno proposto di definire col neologismo co–testo.

. Le pertinenze dell’impertinenza  Possiamo arguire da questa traccia che vi è qualcosa dell’asse per- tinenza/impertinenza (o proprietà/improprietà) che si può capire andando a frugare nella crepa che si insinua nella disgiunzione fra co–testo e contesto, in particolare in quell’ambito tipicamente lin- guistico della conversazione dove si risponde (“a tono” o meno)? In questo senso (e non solo in questo, come vedremo), l’impertinenza è un fenomeno dialogico.

.

Il campo privilegiato in cui si incrociano impertinenza nel senso di negazione della “rilevanza” (p–pertinenza) apparentemente data nel discorso e impertinenza nel senso di mancanza di rispetto e violazione dei ruoli sociali è quello del comico, e in particolare del “motto di spirito” (inutilmente complicata traduzione del tedesco Witz, che ne mette in rilievo comunque il carattere linguistico). Che cosa sia la “pas- sione senza nome” (Hobbes , in Prezzo : ) espressa da quella “smorfia” che è il riso, non è mai stato chiaro alla semiotica come alla filosofia, anche se parecchi (per esempio Vico  in Prezzo : –) vi hanno individuato il tema dell’incongruenza che cerchiamo qui di comprendere in termini di pertinenza e impertinenza.

Al tema ha dedicato un libro tanto importante quanto poco letto Sigmund Freud (), particolarmente significativo dal nostro punto di vista perché la sua psicologia del comico e dello “spiritoso” si fonda sull’analisi di testi raccolti in pubblicazioni varie e dunque costituisce non solo un’estetica della battuta

, una classificazione per tipi e alla fine una eziologia del piacere che provoca, ma un inizio di possibile analisi testuale (se non proprio semiotica) degli effetti di “spirito”. Non è questo il luogo per discutere in sufficiente dettaglio le analisi freudiane, che hanno spesso una notevole rilevanza innovativa dal punto di vista teorico e andrebbero riviste con cura, perché contengono una fertile teoria del senso, piuttosto diversa da quelle di ispirazione linguistica e filosofica su cui si è costruita la semiotica, perché il suo interesse

. Forse una traduzione migliore dell’oggetto di Freud il “witz” del “motto di spirito” dell’edizione italiana standard di Boringhieri.

 . Ai margini della teoria

secondario è la significazione involontaria o preterintenzionale del sogno, del lapsus, dell’umorismo.

Ci basterà dire che per Freud la motivazione del Witz è simile a quella del sogno

. Alla base di questo tipo di produzione vi sono, secondo il padre della psicoanalisi, spinte psichiche contrastanti che da un lato premono per far emergere e dall’altro per nascondere dei contenuti psichici urgenti ma interdetti, per esempio l’aggressività o l’atto di “denudamento” simbolico a fini sessuali che sarebbe per Freud la premessa o la sostituzione della seduzione. Fra il bisogno