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Verità plurale

La verità si dice in molti modi, come l’essere per Aristotele (Metafisica, VII. ,  a –), ed anche esattamente per la stessa ragione, perché molti sono i modi, i livelli, le categorie della realtà e altrettanti i modi di parlarne. Ciò che è, è vero; vero è dire che è di ciò che è (e che non è, ciò che non è) (Metafisica, IV, ,  b) e naturalmente dire com’è ciò che è. Vera è dunque () la corrispondenza fra linguaggio e realtà, secondo la dottrina detta classica da Tarski; ma prima di questo, come sosteneva Heidegger, vero è () il non nascondimento, il non oblio, l’a–letheia dell’ente. Il darsi del mondo è già in questo senso vero senza bisogno di essere detto; ma questo darsi dipende dal linguaggio. Che io veda qui un albero, là un cespuglio; che l’albero abbia fiori il cui colore mi appare rosa, che il cespuglio sia verde, che si profilino contro un cielo che vedo azzurro, dipende da fatti, certamente, ma anche da decisioni codificate dal linguaggio. La distinzione fra albero e cespuglio non è scientifica né universale, ma linguistica e così la divisione dello spettro luminoso in colori. Non vi è una cosa come il cielo, ma in questa maniera si denominano in certe lingue un riflesso dell’atmosfera, cui noi assegniamo un colore a parte, mentre in inglese e il francese lo considerano identico a quello del mare (blu) e i poemi omerici non lo qualificavano se non come luminoso. . .

La verità per corrispondenza () è dunque effetto di linguaggio in un certo senso secondario, che deriva da una previa capacità del linguaggio di classificare il mondo, segmentando la sua ricchezza e densità in un numero molto limitato di entità culturali, tipi di cose, di azioni, di stati standard che costituiscono insieme il nostro lessico e la griglia della nostra esperienza (il che non equivale affatto a dire che il linguaggio costituisca il mondo, tanto meno che esso sia “soggettivo”). Il loro emergere è secondo un punto di vista diffuso nel Novecento, un momento più originario di verità. Anche nel linguaggio comune, del 

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resto, parliamo di una “vera vacanza”, di un “vero uomo”, di una “vera scalata”, intendendo con ciò non indicare dei discorsi, ma il rapporto fa ciò che stiamo designando e un certo paradigma o prototipo di quella cosa.

A questa verità () delle cose però si avvicina, ma è necessario anche distinguere bene un altro senso della verità che ha origine antiche, ma è stato molto valorizzato da alcune correnti della filosofia del Novecento: vero ) è secondo questa concezione ciò che è efficace. È una distinzione messa in evidenza da Marcel Detienne in quel grande libro del ’ intitolato Les Maîtres de vérité dans la Grèce archaïque: per Omero una profezia non è alethes se non è anche nemertes, efficace, esatta nel senso in cui una freccia colpisce il bersaglio, potremmo dire pure nel senso moderno self–fulfilling (Merton, Robert K., The

Self Fulfilling Prophecy, Antioch Review , ). Anche fuori dalle scienze sociali, il pragmatismo della linea James–Morris pensa che le proposizioni della scienza si possano dire vere soprattutto in questo senso (). Nelle lingue indoeuropee questo senso è conservato nel russo istina (e affini), ma soprattutto in lessemi come il neolatino

reale (e affini) e il germanico wirklich (e affini), che tutti indicano innanzitutto una capacità di avere effetto nel mondo.

C’è poi un quarto nucleo semantico della verità ed è quello che si ricama () al giusto, ciò che è corretto ed equilibrato: questo è il caso del russo pravda (e consimili), del lituano teisus (e affini): la verità sta nel mezzo, come dice il proverbio. Un quinto nucleo, forse il più importante di tutti, certo il più diffuso, riguarda () il credere, l’aver fiducia. Il latino verus da cui le parole di tutte le lingue neolatine, com- preso ovviamente l’italiano vero e anche il suo cognato wahr derivano da una radice indoeuropea che riguarda la fiducia e la credenza; ma anche l’inglese true con gli analoghi in tutte le lingue germaniche ha lo stesso senso originario.

Quel che mi sembra interessante sottolineare qui è che un significa- to analogo riguarda la parola ebraica per verità, cioè emèt, che è legata alla stessa radice di emunàh, che nell’ebraico biblico significa fiducia e in quello moderno fede, come spiega Martin Buber (Due tipi di fede), al verbo anì maamìn, “io credo” all’aggettivo fedele neemàn, o alla con- dizione di chi è fermo e fiducioso, che è il senso dell’espressione amen, ben nota anche in Occidente grazie al fatto che la liturgia cristiana l’ha ripresa dall’ebraico senza tradurlo. Tutte queste parole disegnano un

. Verità plurale  asse semantico di stabilità, fermezza, fiducia, fedeltà, che nel caso della verità si può applicare tanto all’asse della comunicazione, quello che collega enunciatore ed eununciatario, il primo considerato affidabile e

fedeleai fatti, il secondo fiducioso e convinto, quanto a ciò che è detto, un contenuto che è giudicato fermo e stabile quanto basta, così ben

radicatonella realtà da riuscire convincente. Nella teologia ebraica emèt è attributo divino, come viene ribadito al termine della recita della dichiarazione fondamentale di fede, shemà Israel (ascolta Israele), se essa è celebrata in pubblico; quando essa è recitata invece in privato, al suo inizio si pronuncia una formula che dichiara in maniera alquanto paradossale secondo il punto di vista occidentale Dio “re fedele” El

melech neeman, usando un’espressione il cui acrostico è ancora amèn, secondo una tecnica compositiva molto diffusa nella liturgia e nella poesia ebraica.

Questi esempi mostrano come sia vasto il campo semantico () della verità. Ma può essere interessante ampliare ancora un po’ il rag- gio dell’indagine, pur restando in ambito ebraico. Mi riferisco al mito del Golem, che è stato oggetto di una grande popolarità letteraria e anche cinematografica. Anche se le sue origini sono assai più antiche, come racconta Moshé Idel (Golem, State University of New York Press, Albany ; trad. it. Einaudi ), la figura del Golem diventa po- polare nel folklore ebraico orientale del XVI e XVII secolo, spesso in relazione al Maharal, Jakob Loew (–), il gran rabbino di Praga che è una delle maggiori autorità ebraiche del mondo askenazita. Ma in realtà, come racconta Gershom Sholem (Zur Kabbalah und ihrer Sym-

bolik, Rhein Verlag, Zürich ; trad. it. Einaudi, Torino, , cap. V) si tratta solo di uno spostamento di persona e di luogo, anche piuttosto improprio viste le ferme convinzioni antimagiche del Maharal. La storia originale ha luogo in Polonia a Chelm, e riguarda un rabbino attivo precedentemente a Rav Loew, anche se più giovane e molto meno longevo, vale a dire Eliyahu Ba’al Shem (–). Scholem cita una testimonianza cristiana del  (una lettera di Christoph Arnold a Johann Christoph Wagenseil:

Dopo aver pronunciato certe preghiere e dopo alcuni giorni di digiuno fanno con l’argilla la forma di un uomo, e la figura prende vita quando pronunciano su di essa lo shem hamephorash [il nome divino di quattro lettere, per gli ebrei impronunciabile UV]. E sebbene non sappia parlare,

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però capisce quello che si dice e le è ordinato, e presso gli ebrei polacchi sbriga anche tutti i lavori domestici, ma non può uscire di casa. Sulla fronte della figura scrivono emet, e cioè verità. Ma questa figura cresce di giorno in giorno, e mentre inizialmente era molto piccola alla fine è più grande di tutti quelli che abitano in casa. Ma per poterlo privare della sua forza — di cui tutti quelli che abitano con lui finiscono necessariamente per aver paura —, cancellano rapidamente dalla sua fronte la prima lettera, la aleph, dalla parola emet, in modo che resta solo la parola met, morto. Quando è accaduto questo il Golem crolla a terra e si dissolve nell’argilla o creta di prima. . . Raccontano che un certo Baal Shem, di nome rabbi Elias, costruì in Polonia, un Golem che crebbe al punto che il rabbino non poté più arrivare alla sua fronte e cancellare la lettera e. Allora avrebbe escogitato questo espediente: nella sua qualità di servo il Golem doveva togliergli gli stivali; pensava infatti di poter cancellare la lettera dalla fronte quando il Golem si fosse chinato, e così accadde effettivamente; ma quando il Golem divenne nuovamente argilla tutto il suo peso cadde sul rabbino seduto sulla panca, e lo schiacciò.

La verità si oppone dunque qui non alla menzogna o alla falsità (concetti assai diversi come spiega Maria Bettetini nella sua Breve

storia della bugia, Raffaello Cortina, Milano ), bensì alla morte. Togliendo la alef, !א, una lettera muta, che qui però “porta” la vocale “e”, si passa dalla verità alla morte. Essendo la alef prima della lettera dell’alfabeto, con valore numerico , secondo la tradizionale notazione aritmetica ebraica e dunque simbolo naturale dell’unità divina, come nota André Neher (Faust et le Maharal de Prague, Puf, Paris , trad it Sansoni ), quel che separa la verità dalla morte dal punto di vista dell’ebraismo è la consapevolezza dell’unità divina. È un punto di vista che può riuscire sconcertante per chi non conosce lo stile ermeneutico della Kabbalah, di cui erano grandi studiosi sia Elijah di Chelm che il Maharal; ma essa in fondo coincide con l’intuizione che l’universo sarebbe “morto”, pura materia inerte senza senso, se non fosse animato e spiritualizzato dalla divinità. Del resto, il famoso versetto di Giovanni : (“Io sono la via, la verità e la vita”) risulta molto meno enigmatico se si pensa che “via” (in ebraico alakha) è il nome della Legge, delle regole che caratterizzano la forma di vita ebraica; e che il rapporto non scontato fra vita e verità passa per quella contrapposizione alla morte che si rivela in maniera un po’ bizzarra nel mito del Golem.

La verità si dice in molti modi, ma tutti riguardano la sostanza del mondo. Com’esso sia e come sia descritto (); come questa sostanza sia

. Verità plurale  segmentata e resa intellegibile dal linguaggio (); come si possa agire efficacemente () e anche giustamente () su di essa. Ma soprattutto come essa sia solida, stabile e si possano fare affermazioni credibili su di essa, come cioè sia illuminata dallo spirito.

Capitolo VII