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Quale ecologia della comunicazione?

.

Che la comunicazione in ogni società costituisca un sistema in cui ogni elemento dipende dagli altri che gli stanno a fianco, e forse perfino un organismo; e che dunque sia possibile parlare a questo proposito di un’ecologia, cioè di una rete di dipendenze reciproche in cui ogni elemento si definisce, si nutre e compete rispetto all’esistenza e alle attività degli altri suoi simili in maniera tale che un equilibrio di fondo regga la coesistenza di elementi diversi: questo è un pensiero diffuso fra chi si occupa di comunicazione anche se raramente esplicitato.

È abbastanza chiaro come vi sia sempre una fondamentale solidarietà

nella competizionefra i contenuti che circolano in una società, che si tratti di arti o di teologia, di narrazioni o di immagini; ed è chiaro che questa dipendenza reciproca si estenda anche ai supporti materiali di questi contenuti, alle pratiche che li producono, riproducono e diffondono, all’organizzazione sociale su cui si innestano — o forse che da questi ultimi fattori tale dipendenza venga generata. Per fare un esempio a caso, non è possibile pensare che il tema rinascimentale della dignità umana non sia collegato all’immagine dei “nani sulle spalle dei giganti” diffuso nel dibattito teorico, e che la prospettiva pittorica o la stampa o la Riforma, o l’inizio dello Stato moderno, le grandi esplorazioni ecc. non abbiano a che fare a loro volta con questi elementi. Tutto ciò, a sua volta, va messo certamente in relazione con l’introduzione della stampa, con le “vele e i cannoni” della marineria europea (Cipolla ), con le innovazioni economiche, tecnologiche, demografiche e militari che determinarono la fine del feudalesimo ecc.

Dopotutto, che la vita sociale o la cultura sia un’unità è il presupposto tacito non solo della moderna antropologia, ma anche della stessa 

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idea di storia a partire da Erodoto. I punti da capire sono però (i) se esiste un sottoinsieme preciso (isolabile) che definisca la comunicazione all’interno di questo carattere sistematico delle culture e (ii) se si possano individuare in esso degli elementi dominanti, la cui causalità determinerebbe la configurazione degli altri elementi e soprattutto (iii) se l’“ecologia” in questo caso sia una semplice metafora o un modello con capacità effettive di descrizione.

Nel corso degli studi sulla comunicazione sono stati proposti tre grandi ordini di elementi che costituirebbero la popolazione fonda- mentale di una possibile nicchia ecologica della comunicazione: a) la popolazione, la sua organizzazione materiale e ideale, il sistema di potere che la organizza; b) i supporti e gli strumenti di comunicazio- ne; c) i contenuti, i testi, i segni, le unità culturali che costituiscono l’Enciclopedia di una certa società, per dirla con Eco () o la sua semiosfera, per usare il termine proposto da Lotman ().

La prima generalissima ipotesi è comune a Marx (), a Max Weber (–), alla sociologia della conoscenza di Scheler e Man- nheim, in un certo senso anche a Lévi Strauss () e se non altro come assunzione tacita a buona parte degli studi storici: la dimensione simbolica apparterrebbe alla vita sociale e andrebbe spiegata nei termi- ni delle sue dinamiche fondamentali, comunque esse siano concepite: in definitiva la comunicazione è solo un epifenomeno della società e non gode di alcuna reale autonomia. Non è naturalmente possibile discutere qui di queste diversissime posizioni, che certamente hanno buone ragioni su questo punto: la comunicazione avviene fra esseri umani in un contesto sociale e l’organizzazione sociale ne è certamen- te il presupposto e la determinazione ultima, comunque essa sia a sua volta pensata. L’idea di un’organizzazione sistemica o ecologica della comunicazione suppone però, come ho scritto, una relativa autonomia di questa parte della vita sociale e soprattutto le sue trasformazioni: la discussione di questo articolo partirà da tale presupposto e dunque tralascerà la prima posizione.

Vi sono tre linee principali che potrebbero essere lette come di- versamente capaci di interpretare l’autonomia e l’interazione inter- na (ecologica) della comunicazione: quella che sulla tradizione di McLuhan () secondo cui l’interazione avviene fra media; quella semiotica basata sull’idea che l’ecologia della comunicazione riguardi i contenuti, la quale può essere vista o secondo il modello della se-

. Quale ecologia della comunicazione?  miosfera (Lotman) o dell’Enciclopedia (Eco) o della semiotica delle culture (Lorusso ), che sotto questa etichetta si sforza di com- prendere le dinamiche complessive dei sistemi comunicativi; e infine l’atomismo comunicativo che si incarna in maniera più esplicita nella teoria dei “memi” proposta per primo da Richard Dawkins () e poi largamente diffusa.

Esaminiamo rapidamente quest’ultima. Come aspetto e struttura degli esseri viventi sono determinati dall’azione di segmenti di DNA detti “geni” che nel modello classico della genetica molecolare sono intesi come elementi semplici e isolati (anche se con gli sviluppi recen- ti della biochimica le cose si sono un po’ complicate), così le culture sarebbero determinate da “memi” altrettanto semplici e isolati, che funzionerebbero per imitazione e replicazione in analogia a quel mo- dello replicativo di azione sociale che fu teorizzato da Tarde () e da Simmel (–). Secondo questo punto di vista, l’ecologia della comunicazione si ridurrebbe alla riproduzione, alla mutazione e alla concorrenza dei memi. Il problema che rende difficile accettare questa tesi è che, mentre sono stati fatti molti esempi di unità culturali com-

plessesoggette a diffusione e imitazione (si citano fra l’altro “religioni”, “ideologie”, “tecnologie”, “canzoni”, “barzellette”, “comportamen- ti alimentari”, “poemi epici”; http://it.wikipedia.org/wiki/Meme), nessuno è mai stato in grado di indicare plausibilmente dei memi

elementari che renderebbero plausibile il paragone con i geni, né di chiarire quale sarebbe il loro supporto materiale. Per questa ragione la teoria dei memi, che pure continua a godere di grande popolarità, è scientificamente declinata, diventando un luogo comune popolare che non ha corso nella ricerca scientifica, senza produrre studi ap- profonditi né scoperte né teorie significative, a parte la petizione di principio di definire memi le parti replicabili della società, e cioè tutta la cultura, se si tiene ferma la definizione di Taylor () per cui la cul- tura è “ogni capacità e abitudine acquisite dall’uomo quale membro di una società”, cioè in sostanza la parte ereditaria non biologica di ogni società. Mancando di ogni teoria sui memi elementari, la teoria me- metica non è neppure in grado di porsi il problema delle interazioni sistemiche, cioè del carattere strutturale dei contenuti sociali e risulta quindi certamente insoddisfacente per la fondazione di un’ecologia della comunicazione in senso proprio.

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.

Ci rimangono dunque due posizioni capaci di presentare un’ipotesi precisa riguardo al sistema della comunicazione. La prima è quella che va sotto il nome di Marshall McLuhan. Le varie società sareb- bero caratterizzate e determinate dai media che adoperano ed essi costituirebbero naturalmente un’“ecologia”, “poiché nessun medium esiste o ha significanza da solo ma soltanto in un continuo rapporto con altri media” (McLuhan : ). Il problema che bisogna porre a questo punto per cercare di capire meglio questa teoria è semplice ma fondamentale: che cosa è un medium? È (a) solo un mezzo di comuni- cazione, cioè in qualche senso un modo di convogliare messaggi, o (b) ha carattere più generale? Nel primo caso è (c) un complesso di regole e convenzioni (quale può essere un giornale, che può essere stampato con torchi piani o con gigantesche rotative, trasmesso per radio o televisione, diventare un sito web, mantenendo la sua caratteristica fondamentale) o è (d) una struttura materiale, una tecnologia specifica (come per esempio la stampa tipografica)? ma a quale livello tecnolo- gico stiamo ragionando? Per esempio la vecchia stampa per pressione e magari la litografia è (e) lo stesso medium della rotativa o (f ) no? e dunque libri, giornali, manifesti, riviste ecc. devono essere considerati lo stesso medium, e così tutti i diversi programmi della televisione, sia essa in bianco e nero a o colori, analogica o digitale, ecc? E in caso contrario (g), la vecchia radio a valvole, quella a transistor, la radio inclusa nei computer e quella dei cellulari sono mezzi diversi, anche se ricevono esattamente la stessa programmazione?

Non si tratta di questioni puramente definitorie, e dunque solo verbali. Se si vuol capire il funzionamento del modello ecologico è necessario aver chiaro di che cosa si parla. McLuhan, con la sua caratteristica argomentazione per esempi, si è guardato bene dal di- scutere in maniera esplicita che cosa dovesse intendersi per medium e perché. Però gli indizi sono chiarissimi. Fin dal primo paragrafo del suo capolavoro (intitolato non a caso in inglese Understanding

media), egli scrive: «in altre parola le conseguenze individuali e so- ciali di ogni medium, cioè di ogni estensione di noi stessi, derivano dalle nuove proporzioni indotte nelle nostre questioni personali da ognuna di tali estensioni e da ogni nuova tecnologia» (McLuhan : ).

. Quale ecologia della comunicazione?  Media sono dunque tutte le “estensioni” e le “tecnologie”. Del resto il sottotitolo del libro è chiarissimo: i media da capire vi sono indicati come “extensions of man”. I paragrafi della seconda parte del capolavoro di McLuhan sono dedicati coerentemente alla parola, parla- ta e scritta, alla luce elettrica, alle strade, al numero, all’abbigliamento, agli alloggi, al denaro, agli orologi, alla stampa, ai fumetti, a “ruota, bi- cicletta e aeroplano” e via elencando: tecnologie o piuttosto strumenti concreti e astratti. Siamo evidentemente nella tesi (b). È “l’effetto e non il contenuto” (McLuhan : ) a caratterizzare l’azione del me- dium, viene sostenuto con coerenza in tutto il libro. Questa posizione fa sì che i media perdano qualunque caratterizzazione comunicativa: siano o meno portatori di contenuti, non importa: l’efficacia e il ruolo ecologico della lampadina elettrica sono gli stessi sia essa usata solo per illuminare o anche per trasmettere segnali, per esempio lampeg- giando secondo un codice. La teoria autentica di McLuhan insomma è un pensiero dell’ecologia delle tecniche, non della comunicazione. Si può accostare da questo punto di vista agli scritti di sociologia e filosofia della tecnica diffusi a partire dal primo Novecento: vi è una sterminata letteratura di e su queste posizioni

. Naturalmente ci sono delle differenze importanti, come il fatto che, pur in un quadro di svi- luppo storico, McLuhan non si occupa del cambiamento della Tecnica, ma dei media al plurale e al minuscolo, indicando relazioni sempre conflittuali fra loro. Il punto che ci interessa però è un altro. È eviden- te che nella versione generale del discorso originario mcluhaniano non vi è quella relativa autonomia della comunicazione che andiamo cercando; anzi essa è del tutto negata e superata dalla prevalenza delle tecnologie, di tutte le tecnologie rispetto ai contenuti che per caso accada loro di veicolare. Con il che potremmo escludere anche questa posizione rispetto alla domanda di questo articolo.

Vale la pena però di aggiungere che anche una prospettiva me- diologica moderata, quale è sostenuta da molti studiosi di storia dei media contemporanei, non è in grado di risolvere il problema. È dif- ficile immaginare un’ecologia dei mezzi di comunicazione proprio perché questo concetto mette assieme intuizioni diverse: quella (i) dei supporti della comunicazione, (ia) delle superfici di iscrizione (per

. Per una raccolta di interventi prevalentemente sociologici sul tema si veda Maldonado (a cura di), .

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esempio carta o muro o schermo) o (ib) degli spazi di presentazione (per esempio scena, circo, parlamento) dove la comunicazione viene materializzata; (ii) quella delle tecnologie con cui (iia) l’iscrizione o (iib) la presentazione vengono realizzate (per esempio penna, stilo, inchiostro, pennello, macchina da stampa, ciclostile, rotativa, proiezio- ne cinematografica, visualizzazione elettronica a pixel da un lato, e dall’altro luci, macchine teatrali, regia, musica di scena, attrezzi ecc); (iii) quella dell’organizzazione di tali contenuti in generi (tragedia e commedia; giornalismo e fiction; romanzo e poema epico; gioco, manuale ecc. con le loro varianti e sottogeneri).

È evidente che ogni singolo fatto comunicativo è la combinazione di diversi di questi “fattori mediali”: un libro (di carta) stampato (con una macchina da stampa offset) utilizzando inchiostro, il cui testo è stato

compostosu un computer con un certo software e poi magari tradotto con l’aiuto di un altro software e formattato per la stampa con altri ancora, contiene un romanzo e più specificamente un giallo, ma lo stesso romanzo può essere fruito su un lettore o su un computer o al limite su uno smartphone usando schermo e “inchiostro elettronico” al posto della carta oppure tradotto in cinema e teatro e videogame; o invece sullo stesso libro (la stessa carta lavorata da una delle diverse macchine citate) si sarebbe potuto imprimere un trattato di filosofia e sullo stesso schermo dopo il poliziesco appare una notizia o una chat. Questa sovrapposizione di “fattori mediali” che c’è sempre stata, fin da quando si scriveva su tavolette ricoperte di cera o su frammenti di argilla, è particolarmente esaltata dagli sviluppi della comunicazione moderna e contemporanea, in particolare da quel grande fenomeno che si usa chiamare convergenza. È ovvio che tutto ciò sottolinei la compresenza di elementi comunicativi diversi, come accade in tutti gli sviluppi tecnici: la cucina, per esempio, è fatta di materie prime edibili, pentole e posate, fuoco o altri elementi riscaldanti, ricette, pratiche d’azione. Il che non significa però che sia sensato utilizzare le metafora di un’ecologia per descrivere questo sistema, soprattutto alla luce del fatto che non è possibile isolare se non concettualmente espressioni pure dei “fattori mediali” ma sempre ogni fenomeno comunicativo è già determinato da un complesso di tali fattori. La convivenza e la competizione dunque avvengono fra prodotti comunicativi e non fra “mezzi di comunicazione”, che in quanto tali non sono mai presenti

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.

Diverso è il caso dell’ipotesi di un’ecologia semiotica, cioè di una rela- zione di tipo ecologico fra i contenuti di una cultura. La semiotica della cultura si basa sull’idea lotmaniana di una “semiosfera” analoga alla biosfera, un ambiente dove la comunicazione interagisce costituendo un grande “testo generale”, che suppone a sua volta un’Enciclopedia più o meno condivisa da tutti i suoi partecipanti. È un’idea che ha assunto negli ultimi decenni un aspetto sempre più empirico: inven- tari, registrazioni, la grande rete di Internet danno luogo a repertori o contenitori che hanno effettivamente una forma testuale (e even- tualmente un’organizzazione ipertestuale) sempre più vasta e globale. È possibile studiare questi grandi repertori in quanto tali, come fa per esempio la linguistica dei corpora; oppure estrarne porzioni signi- ficative e pertinenti alla ricerca. Su tali macrotesti si applicano bene nozioni come quelle di grammatica, di genere, di Enciclopedia, di sistema semantico. Ci sono limiti di principio alla possibilità di de- scrizione coerente di questi sistemi (l’Enciclopedia somiglia più a un

rizomaricco di anelli e giri tortuosi, dalla geometria indefinita, piutto- sto che a un ordinato Albero di Porfirio). Ma è possibile ritagliarvi dei confini e dei découpages e considerare sottoinsiemi che sono domi- nabili: possiamo chiamarle con Lotman semiosfere. Di più, all’analisi essi si mostrano organizzati secondo il principio della differenza e della negazione, come già suggeriva Saussure e poi Bateson. Proprio questo carattere oppositivo dell’organizzazione delle semiosfere rende pertinente il livello ecologico: gli elementi di contenuto si oppongono fra loro, sono significativi in quanto alternativi (e viceversa). Proprio questo permette di vedere le relazioni fra loro in termini analoghe ai comportamenti delle popolazioni studiate dall’ecologia biologica.

Le diverse semiosfere sono in rapporti reciproci complessi: si li- mitano a vicenda, competono, si sostituiscono, si oppongono, ma hanno bisogno ognuna di un confine, dunque di altre semiosfere. Il loro funzionamento interno è soggetto a fenomeni di evoluzione, trasformazione, crescita ma anche di involuzione e irrigidimento. È dunque giusto porsi il problema dell’ecologia semiotica di queste se- miosfere, come ho già fatto a partire dagli anni Ottanta (Volli a). L’ecologia semiotica riguarda innanzitutto i rapporti fra i testi e i loro elementi; il problema genetico o memetico della ricombinazione di

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elementi e della loro concorrenza, ma anche quello delle misletture, su cui richiamo l’opera di Harold Bloom (in particolare ) e per un esempio di analisi empirica particolarmente interessante l’analisi di Piero Boitani () sulle vicissitudini della figura di Ulisse.

Vi è certamente anche l’altra dimensione dei soggetti di queste ope- razioni e del loro rapporto con le semiosfere. In realtà semiosfere ed ecologie sono costrutti teorici e i soli soggetti empirici sono messaggi e parlanti/lettori. È all’azione, all’interesse, al piacere di costoro che il discorso dell’ecologia semiotica va riportato. Ma come le semiosfere riguardano fenomeni di massa piuttosto che singoli atti comunicativi, così lo sono i loro utenti, o parlanti o lettori che non sono persone singole, ma gruppi sociali. Le grammatiche, le competenze, le lingue non sono fatti mentali, tendenzialmente individuali, ma sociali. Ed è a livello sociale che si esercitano i fenomeni di senso caratteristici dell’ecologia semiotica: le mode (Ugo Volli  e ), le ideologie (Roland Barthes ), i rumors ( Jean Noel Kapferer ). È in questi casi che la competizione determina e non sempre per il meglio lo sviluppo della “nicchia ecologica” di una semiosfera. Ed è anche qui che si verifica la possibilità per i contenuti di superare i limiti del loro mezzo d’origine, di migrare, di evolversi e metamorfizzare, di usare i lettori come loro tramite, di adattarsi ai formati mediatici e ai codici dei generi. Lo studio sella cultura sub specie communicationis non può che partire di qui.

Capitolo VIII