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D ALLA FACIES D EI AL VULTUS L AURAE: L ’EPYST I

1. Nello Strozziano, e dunque nella tradizione extravagante γ, l’Epyst.,

3.6 D ALLA FACIES D EI AL VULTUS L AURAE: L ’EPYST I

Converrà muovere da brevi e puntuali coordinate per l’epistola I 6 indirizzata a Giacomo Colonna:388 a unanime parere degli studiosi (e in base a dati interni al testo),389 è scritta nell’estate del 1338 da Valchiusa (così la Magrini, Dotti, Wilkins e tutti gli altri).390 Questa datazione, che

387 V. FERA, Antichi editori e lettori dell’Africa, cit., pp. 168-69, e, prima, p. 120, nella

quale giustamente lo studioso rivendica l’«accostamento sfuggito finora alle ricerche degli studiosi» tra Afr., IX 92-105 e il De planctu nature (ed. HÄRING, cit., p. 837). Fera rimanda per altre possibili influenze sull’Africa a E. FENZI, Di alcuni palazzi, cupole e planetari nella letteratura classica e medievale e nell’ ‘Africa’ del Petrarca, in «Giornale storico della letteratura italiana», 153 1976, pp. 12-59, 186- 229: 218-22 (poi in ID., Saggi petrarcheschi, Fiesole, Cadmo, 2003, pp. 229-303). Ricordo inoltre che Alano è uno dei tramiti della fortuna della Consolatio di Boezio, cfr. almeno L. LOMBARDO, Rifacimenti della ‘Consolatio philosophiae’ in Bernardo Silvestre e Alano di Lilla, in «Mediaeval Sophia», 14 2013, pp. 83-95: 86.

388

Sull’illustre destinatario basti il rimando a M. SANTAGATA, Petrarca e i Colonna. Sui destinatari di R.v.f. 7, 10, 28 e 40, cit., a U. DOTTI, Petrarca civile: alle origini dell’intellettuale moderno, Roma, Donzelli, 2001, e il ricordo della Fam., II 9.

389

Cfr. il v. 44 (qui ricorre l’indicazioni del passaggio di due lustri dall’innamoramento, e dunque post 1337), e il v. 167 (qui Petrarca esplictamente fa riferimento al suo soggiorno a Valchiusa indicandone la durata annua): la narrazione si svolge dunque nel 1338.

390

«La lettera a Giacomo Colonna è sicuramente del 1338», U. DOTTI, La formazione dell’umanesimo nel Petrarca, cit., pp. 14-18; cfr. D. MAGRINI, Le epistole metriche, cit., pp. 82-84; E.H. WILKINS, The ‘Epistolae metricae’ of Petrarch, cit., p. 13; Epistulae metricae, ed. SCHÖNBERGER, cit., p. 336; A. NOFERI, L’esperienza poetica del Petrarca, cit., p. 222; L. CHINES, Lettere dell’inquietudine, cit., p. 98; B. KIRCOS, Per un commento all’Epyst. I 6 a Giacomo Colonna, cit., p. 46. Un unico parere lievemente discorde si legge (confinato tra parentesi) in una nota al Secretum di Enrico Fenzi, che però nella bella introduzione segue la datazione canonica al 1338. Così scrive lo studioso nella nota, dove però non è proposta alcuna soluzione o critica concreta, ma che lascia spazio a una giusta intuizione: «L’Epyst., attribuita sin qui agli anni 1338-39 (ma non ci giurerei) rende conto dei primi due momenti», Secretum, ed. a cura di E. FENZI, cit., p. 326 (nota 61). Tale datazione è penetrata in tutti gli studi petrarcheschi e non solo. Così ad esempio nel recentissimo volume della S. STROPPA, Petrarca e la morte tra ‘Familiari’ e ‘Canzoniere’, Torino, Aracne, 2014, p. 36, e in tutti quegli studi che citano la lettera in funzione dell’epistolario di Machiavelli (su questo si vedano le pagine seguenti).

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ad oggi non ha trovato alcun appiglio esterno, presenta però alcune problematiche e andrà respinta a favore di soluzioni più economiche, che badino a non «confondere azione e composizione»,391 come pure è stato già fatto per molti dei testi petrarcheschi e in particolare per quelli di anniversario. Su questa delicata questione si tornerà nelle pagine a seguire con dovizia di dati.

Segue un prospetto riassuntivo delle vicende narrate, che faciliti la lettura e l’analisi delle singole parti:

 vv. 1-3 presentazione dell’argumentum dell’epistola: la condizione di Petrarca;

 vv. 3-14 professione di aurea egestas e richiesta alla Fortuna di preservare soltanto la dimora e i libri;

 vv. 15-17 professione di modestia (con scarto rispetto al tempo passato, dominato da invidia e superbia);

 vv. 18-36 dichiarazione di incapacità nel tributare degne lodi a Dio, e riferimento alle future lacrime che Giacomo Colonna spargerà leggendo la presente epistola;

 vv. 37-49 inizio della narrazione memoriale che alterna passato e presente; disperazione del poeta consunto da amore a dieci anni dall’innamoramento; ricordo del primo incontro con Laura (vv. 37-39 e 42-43) e dei rinnovati assalti d’Amore, sino alla trasfigurazione del poeta (alter eram);

 vv. 50-57 primo tentativo di reazione dopo il decennale innamoramento di Petrarca in conseguenza del desiderio di libertà: vittoria con l’aiuto di Dio e scioglimento del nodo amoroso;

 vv. 58-63 rivendicazione di Laura saucia del dominio su Petrarca;

 vv. 64-88 fuga di Petrarca (sino ai confini dell’Oceano) e secondo tentativo di reazione;

 vv. 89-99 illusorio affievolirsi degli affanni d’amore;

 vv. 100-120 ritorno ad Avignone, nuova ricaduta nei lacci d’Amore e rinnovarsi dei voti a Dio al fine di scampare dal pericolo d’amore (tertia vota: per la terza volta);

 vv. 120-125 nuova fuga in litore secreto;

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 vv. 126-151 inseguimento dei phantasmata di Laura: di notte, nel sonno (vv. 126-136) e, di giorno, negli oggetti di natura (vv. 137-151);

 vv. 152-155 resa ai lacci di Amore e perdita di ogni speranza per il poeta, che potrà essere tratto in salvo (tutus) solo dall’aiuto di Dio, cui implicitamente si appella;

 vv. 156-163 inizio della seconda sezione: rappresentazione della sua vita in povertà e della solitudine nella campagna valchiusana;

 vv. 164-178 lontananza degli amici, inorriditi dalla natura del luogo e dalla vita di Petrarca;

 vv. 178-210 assidua compagnia dei comites latentes (i libri): descrizione dei colloqui; rappresentazione degli stessi;

 v. 211-235 vivida narrazione delle lunghe giornate trascorse con gli amici segreti;

 vv. 236-237 conclusione nel ricordo doloroso della cura amorosa.

Ripartiamo ora dal distico finale dell’Epyst. I 5, per mettere in luce i forti richiami formali e le connessioni sintagmatiche che ancora una volta congiungono le zone liminari delle singole lettere, palesando l’abile ordito della struttura del Liber epystolarum, nonché la nota condanna petrarchesca dell’amore sensuale.

Nel passaggio tra le due lettere, la I 5 e la I 6, sembra quasi riprodotto lo scarto figurale dal comparandum al comparatum tra le prime tre strofe e l’ultima terzina di Movesi il vecchierel canuto et bianco (Rvf 16), la cui «perfetta unità trascende la diversa dimensione e il diverso tono delle sue parti»:392 nei due esametri finali della I 5, la plebs

392

C. GALIMBERTI, Il sonetto XVI, in Lectura Petrarce. Letture del Canzoniere 1981-200, cit., vol. II: pp. 671-80: 672. Molto complessa la questione della datazione di questo sonetto che non mi pare abbia trovato ancora una precisa collocazione cronologica, come anche il sonetto 15. Comunemente si ritiene composto nel 1337 durante il primo soggiorno a Roma, ma non mancano pareri discordi per i quali si rimanda all’introduzione di M. SANTAGATA, Canzoniere, cit., pp. 68-69. Mi sembrano in particolare condivisibile le remore della Bettarini, che però non prende una posizione univoca: «La vecchiaia, il sentimento del tempo trascorso, la stessa ipotesi d’una plausibile doppia redazione per l’ultima terzina, potrebbero altresì essere spie d’una data più tarda, l’anno del Giubileo del 1350; ma anche questa è un’occasione non necessaria all’assolutezza del tema del peregrinus», R. BETTARINI,

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fidelis, al pari del vecchierel canuto et bianco, si dirige peregrinando notte e giorno verso Gerusalemme, figura della Gerusalemme celeste, riposo agli affannati e ricompensa per le fatiche, e dunque verso la visio plena summi boni (v. 116-17), «Hierusalem, peregrina exul noctemque diemque / que requies lassis mercesque erit ampla laborum» (Epyst. I 5 118-19).

La medesima costellazione di parole si trova nella sezione iniziale della I 6, dove, in un sottile gioco di rispecchiamenti, Petrarca si autorappresenta mentre, bruciato dall’ardente sete amorosa (sitis altera maior, v. 21), si autointerroga:

Quidve Helicone iuvat recubantem saepe profundo393 Eminus insanos vulgi risisse labores,

Ei labor alter habet, cui merces nulla quies ve? Quid facies preclara iuvat, si turbida mens est? Multa quidem meritasque Deo pro munere laudes Pendere non nostrae, fateor, fiducia lingue est. Sunt quae felicem facerent, nisi forte maligna

Roderet infaustum pectus sua cura perennis (Epyst. I 6 23-28).

Il dialogo tra i due loci delle epistole mi pare chiarissimo: tra l’explicit dell’una e l’incipit dell’altra tornano, chiasticamente disposte, le stesse parole chiave.

que requies lassis mercesque erit ampla laborum (I 5 119); si labor alter habet, cui merces nulla quiesve? (I 6 25).

Se certa è la pace (requies) e ampia la ricompensa (merces) per chi si dirige metaforicamente e spiritualmente verso la Gerusalemme celeste – con eco delle Confessiones di Agostino, «inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te» (I 1) -, differente è la situazione per il Petrarca della I 6: la diversa fatica amorosa (alter labor) cui il poeta allude non Canzoniere, cit., p. 71. Cfr. E. FENZI, Note petrarchesche: R.V.F. XVI Movesi il vecchierel, in ID., Saggi petrarcheschi, cit., pp. 43-62; S. CHESSA, Il profumo del sacro nel ‘Canzoniere’ di Petrarca, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2005, pp. 4-23.

393

Cfr. Ecl., I 1 per il termine recubans, in rimando è in A. LA PENNA, L’integrazione difficile. Un profilo di Properzio, Torino, Einaudi, 1977, p. 257.

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potrà trovare alcun appagamento, ricompensa o pace (merces e quies).394 Tale interferenza palesa bene il noto errore teologico petrarchesco (i.e.: «usum Veneris conspectum divinitatis eripere», Secr., II p. 175) e permette inoltre di comprendere meglio il seguito della lettera, genericamente frainteso dai traduttori (e trascurato dagli studiosi).

Nel verso successivo, secondo una retorica adusta (ieri come oggi), segue una nuova serie di domande retoriche, di cui una non del tutto perspicua:

Quid facies praeclara iuvat, si turbida mens est? (Epyst., I 6 24).

Questa la traduzione dell’edizione curata da Rossetti:

«Grazia che giova e leggiadria di forme a chi torbido ha il cor?».395

Di seguito le versioni, tra loro simili, di Emilio Bigi ed Enrico Bianchi:

«A che giova la bellezza dell’aspetto, se la mente è ottenebrata?»;396

«A che serve un bel viso, se torbida è la mente?».397

Equiparabile alle ultime due quella degli Schönberger:

«Was nützt Ein schönes gesicht, wenn dein Geist verstört ist?».398

Si può intravedere nelle varie traduzioni la fisionomia affascinante di Laura (o almeno un indubitabile riferimento all’aspetto fisico): in tale direzione muove in particolare la traduzione di Bianchi (poi ripresa

394

Risuonano qui i versi virgiliani citati nella celebre Fam., II 9 17: «Nunc dextra ingeminans ictus, nunc ille sinistra. / Nec mora nec requies».

395

Poëmata minora, a cura di D. ROSSETTI, cit. (trad. di Quirico Viviani da Soligo e dell’abate Francesco dall’Ongaro), a p. 205.

396

Epystole metrice, a cura di E. BIGI, cit., trad. a p. 415; Epistole metriche, a cura di E. BIANCHI, cit., trad. a p. 729.

397 Epistole metriche, a cura di E. BIANCHI, cit., trad. a p. 729.

398 Epistole metriche, a cura degli SCHÖNBERGER, cit., trad. a p. 71. In tal direzione si

muove anche la traduzione francese che sceglie ‘le dehors’ del conte Anatolie de Montesquiou del 1843 riportata nella recensione di F. FABI MONTANI nel «Giornale arcadico di scienze, lettere ed arti», vol. 102 1845, pp. 299-324: 322.

200

dalla Chines)399 che sceglie la iunctura tutta petrarchesca e laurana, bel viso, sintagma che ossessivamente puntella il Canzoniere (Rvf, 13 2; 14 2; 18 2; 30 4; 27 28; 41 14; 42 13; 50 65; 55 17; 77 8; 85 7; 96 5; 116 2; 122 11; 125 47 et cetera), anche in posizione incipitaria (Rvf 257 In quel bel viso ch’i’ sospiro et bramo; 267 Oimè il bel viso, oimè il soave

sguardo).

È dunque possibile che i vari studiosi si siano fatti condizionare dalla protagonista assoluta di questa epistola, Laura, che sta per fare la sua comparsa nei versi seguenti, ma in questo passaggio sembra poco convincente che il riferimento vada alla bellezza della donna amata (o anche solo all’aspetto esteriore). La ricerca del bel viso è causa e conseguenza di questo annebbiamento, e non potrà essere, al pari, ciò che i caligantia lumina di Petrarca non riescono a vedere (la vista di Laura distoglie il poeta, non certo però dalla visio Laurae). Le traduzioni proposte da Bigi, Bianchi e gli editori tedeschi creano dei cortocircuiti logici, quasi dei paralogismi, che dovranno essere sanati, anche grazie al dialogo con la lettera precedente, andando, ancora una volta, a mostrare come le lettere in versi debbano essere lette non solo come pezzi unici (di varia e altalenante bellezza), ma come tessere di un unico edificio.

Prima di proseguire, proviamo a rileggere la vexata interrogativa, lasciando invariata la dubbia iunctura: ‘a che cosa giova la facies praeclara, se torbida è la mente?’. Una volta escluso il volto di Laura bisognerà ragionare ex novo sul passo in questione.

Qui, nella I 6, la lamentatio petrarchesca si volge verso un alter labor400 che, ottenebrando la mente del poeta, rende vana la suddetta facies praeclara: sono due – mi pare – le possibili soluzioni, della quali la prima è forse la più economica. Leggiamo il passo e la traduzione proposta: