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1. Nello Strozziano, e dunque nella tradizione extravagante γ, l’Epyst.,

3.5 L’Epyst I 5: Exul inops

L’epistola I 4, momento di pausa e refrigerio sub tegmine populi, si chiudeva quindi con un’unica nota negativa: «postquam pulsa retro presens hec cesserit etas» (Epyst., I 4 117), ‘dopoché quest’età presente, indietro respinta, sarà trascorsa’.362 Bigi traduceva, «quando questa età sarà trascorsa»,363 e Bianchi, più esaustivamente ma con più libertà, «quando questa nostra età, a dietro sospinta, avrà ceduto il posto a una nuova».364 Migliore, questa volta, la versione tedesca che coglie i toni del topico lamento petrarchesco contra la praesens aetas - «wenn unser Zeitalter abdanken mußte und fortging» -,365 età presente cui sembra direttamente richiamarsi l’epistola I 5 Exul inops horrensque habitu

361

Epistulae Metricae, ed. SCHÖNBERGER, cit., p. 334.

362

Tra le molte invettive contro l’età presente ricordo quella della penultima delle lettere in versi, indirizzata a Francesco Nelli (Epyst., III 33 4-6), nella quale Petrarca lamenta di essere nato nei tristia saecula.

363

Epystole metrice, a cura di E. BIGI, cit., trad. a p. 413.

364

Epistole metriche, a cura di E. BIANCHI, cit., trad. a p. 727.

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despectaque nuper, instaurando un forte legame liminare. L’ultimo verso della I 4 – un’epistola a prima vista così peregrina e invece così saldamente legata alla lettera precedente - ci introduce alla nuova e ancor più maesta prosopopea di Roma della I 5, nella quale si riflette l’età presente, che minacciosa incombe sull’ameno paesaggio valchiusano: dall’età respinta (pulsa retro aetas) dell’ultimo verso della I 4 si passa all’immagine di Roma respinta (despecta femina) del primo verso della I 5. Il legame di senso tra le due lettere è come sempre più chiaramente rinsaldato da sottili filigrane formali. Dissimulato e franto, un verso svela tale dialogo:

Postquam pulsa retro presens hec cesserit etas (Epyst., I 4 117);

[…] postquam laudataque retro

Tempora respicies […] (Epyst., I 5 114-15).

Lì la turpe età presente, qui una mitica e favoleggiata età dell’oro: «Alma fides et amor tranquillaque terris / pax vigeat» (ivi, 108-109), conseguente al ritorno del papa nella sede romana.366

La lettera, anche nota come Exul inops, ha goduto di notevole attenzione da parte della critica, e pertanto sarà qui solo cursoriamente citata per le sue varianti e per la messa in luce del macrotesto.367 Come nella lettera in versi I 2, il destinatario è ancora una volta Benedetto XII, di cui è nuovamente invocato l’aiuto, come padre e come marito (v.

366 Il distico appena citato andrà confrontato, seppur a distanza di molti anni (dal

1339 al 1353) e una volta variate le condizioni politiche, con la Fam., XVIII 1, nella quale l’età dell’oro aveva come garante un tale di umili origini (quidam e plebe humili, § 17), Cola di Rienzo: «Iam rediisse iustitia et pax et harum comites, alma

fides, tranquilla securitas, ad postremum aurei seculi vestigia videbantur» (§ 18).

Sul tema dell’età dell’oro legata contrastivamente ad Avignone, cfr. M. C. BERTOLANI, Petrarca e la visione dell’eterno, cit., pp. 110-14.

367

In particolare cfr., per la bibliografia pregressa e per le risonanze teologiche di quest’epistola, M.C. BERTOLANI, Petrarca e la visione dell’eterno, cit. La studiosa si sofferma sulla polemica della visione post mortem e si spinge forse troppo in là giungendo ad afferma che il maggior padre della canzone Spirto gentil è proprio Benedetto XII, in virtù del comune epiteto di padre, che però Petrarca riserva a molti altri (p. 106).

188

102).368 L’epistola riprende e condensa i motivi già visti e analizzati per la I 2, acuendone però i toni, e rendendo più flebili gli accenti. Andrà pertanto considerata, anche se di poco, posteriore.369 La datazione oscilla tra il 1336 e il 1337, come registrato da Wilkins, cui si rinvia.370

Esatto il gioco di rimandi che stringe le due prosopopee di Roma della I 2 e I 5, a partire dalla loro puntuale presentazione (Roma vocor – Roma erat) che, andandosi a collocare dopo un lungo preambolo, instaura un dialogo a distanza, e un effetto di persistenza, strettamente legato a un processo di memorizzazione.371 Eccole a confronto:

Roma vocor. Vultum ne, pater, cognoscis anilem

20 Gutturis ac tremuli, sonitum, et deformia segni

Membra mora, invalidis vix consistentia plantis? (Epyst., I 2 19- 21);

Ter fuit in foribus, sed ter reverentia vocem Continuit. Mesto interea sub murmure nomen 20 Roma erat, insonuit […] (Epyst, I 5 18-20).

Nella prima delle due prosopopee, con toni più solenni e più patetici, è la stessa Roma, ancora giovane sposa, a parlare in prima persona e a rivolgersi al papa, alme parens. Nella seconda, con toni più dimessi, la prosopopea di Roma, ormai vecchia, è presentata dall0 sguardo sbigottito dell’exul inops («videbar matronam michi nosse sacram», vv. 7-8): solo dopo tre topici tentativi (ter vocem continuit, v. 19), Roma finalmente riesce a parlare (insonuit, v. 20) e dire maesto sub murmure il suo nome. Questa volta la vecchia Roma è filtrata - anche nella finzione narrativa di un genere che, per statuto, dovrebbe affondare le

368 Il rimando sarà di certo a Phars., II 388 «Urbique pater est urbique maritus», il

verso è richiamato da Velli a proposito della canzone Spirto gentil, per la quale lo studioso ricorda inoltre l’intersezione anche con la nostra lettera «Postquam a complexu sum cari abiecta mariti / et patris et domini» (Epyst., I 2 vv. 48-49), cfr. G. VELLI, Il Dante di Francesco Petrarca, cit., p. 193.

369

Ai vv. 91-96 vi è esplicito riferimento alla quaestio della visione beatifica (cosa cioè vedono i beati) e alla risoluzione dogmatica proposta e imposta da Benedetto nel 1336.

370 E.H. WILKINS, The ‘Epistolae Metricae’ of Petrarch, cit., p. 28 e da qui i rimandi agli

studi precedenti.

371

Cfr. M. SANTAGATA, Connessioni intertestuali nel ‘Canzoniere’ del Petrarca, cit., passim.

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sue radice nella realtà – dagli occhi di Petrarca: un esiliato che guarda una città costretta all’esilio. Il dolore, come ovvio, raddoppia e la lettera, come evidenziato da Houghton, si tinge dei toni elegiaci dell’Ovidio che scrive da Tomi durante la sua relegatio.372

Ancora una volta, l’analisi delle connessioni tra unità testuali contigue «si è dimostrata della massima utilità per lo studio dei legami interni all’opera».373 Tuttavia, diversa è la portata di questa lettera a Benedetto XII, cui segue, in maniera apparentemente incongrua quella che è unanimemente considerata la più bella delle metriche, l’epistola a Giacomo Colonna su Laura, la I 6. Rispetto al primo invito rivolto a Benedetto XII a lasciare Avignone e tornare a Roma, quello della I 5 presenta fortissime «risonanze teologiche della parola»,374 già a partire dall’esplicito riferimento dei vv. 91-96 alla polemica sulla visione beatifica (illa gravis quaestio de visione Dei),375 nonché dal concorrere di termini chiave quali simulacra, visio, merces, iubar, caligo (cfr. Fam., II 12). Qui, nella I 5, viene delineandosi per la prima volta quella «geografia spirituale da rispettare tra storia ed eternità» per cui «è necessario abbandonare Avignone-Babilonia per giungere a Roma, Gerusalemme pellegrina, e di lì attendere l’avvento della Gerusalemme

372

Cfr. L.B.T. HOUGHTON, Exiled Rome and Augustus Pope, cit.

373

M. PRALORAN, Alcune osservazioni preliminari, cit., p. 79. Subito dopo, Praloran proseguiva e precisava l’utilità del metodo appronatato da Santagata «per il riconoscimento di tutta quella rete di segni che la avvolge mettendo in luce l’intima consapevolezza dell’ordine (pur così spesso segreto e inaccessibile sul piano semantico) da parte dell’autore»; «Questa coerenza macrotestuale tuttavia appare meno visibile sul piano della progressione generale e della trasformazione dei valori semantici, cioè sul piano della diacronia e dunque della narratività» (p. 79). Cfr. A. NOFERI, Frammenti per i Fragmenta di Petrarca, a cura e con una nota di L. TASSONI, Roma, Bulzoni, 2001, pp. 182-83: da qui la distinzione tra autoritratto e autobiografia.

374

M.C. BERTOLANI, Petrarca e la visione dell’eterno, cit., p. 107.

375 Un nuovo esplicito riferimento alla quaestio («quid videant anime felices corpora

postquam exuerint», vv. 13-14) torna nella II 5. Il problema se le anime dei giusti godano o meno della visione di Dio prima del giudizio universale è affrontato nell’ottimo M.C. BERTOLANI, Petrarca e la visione dell’eterno, cit.: a Giovanni XXII che sosteneva che la visione di Dio è differita al momento della resurrezione dei corpi si oppone Benedetto XII, cui spetta la risoluzione della questione: secondo quest’ultimo la visione avviene post mortem, secondo quanto riportato nella costituzione dogmatica stilata nel 1336, con l’enciclica Benedictus Dei.

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celeste».376 Nel finale la lettera indica in Gerusalemmen il luogo della visio plena summi boni, 377 cui aspira sospirando la plebs fidelis:

[…] Hic eternus honos, ibi visio summi Plena boni, cui suspirat plebs illa fidelis Ierusalem, peregrina exul noctemque diemque,

Que requies lassis, mercesque erit ampla laborum (Epyst. I 5 116- 19).

Qui però non saranno i sospiri d’amore del primo dei Fragmenta: il rimando, come nota la Bertolani, è alla letteratura monastica che, «avvertiva Leclercq, è tutta letteratura di suspiria».378 Si legge nelle Enarrationes in Psalmos (121, 2): «In peregrinatione suspiramus, in civitate gaudemus», e la manicula petrarchesca indicava coloro i quali ad caelum suspirant (f 95v, Par. Lat. 1994).379 Dai sospiri ‘monastici’ nascono le lacrimi e i sospiri del Canzoniere: «proprio perché originariamente i sospiri dovrebbero nascere dalla nostalgia del cielo e ad esso essere rivolti, se ingenerati dall’amore per una creatura diventano segno del peccato che fa dimenticare all’uomo il proprio stato di viatore al punto da indurlo a considerare il mondo come la patria».380 In tal senso, quest’epistola così profondamente teologica prelude alla lettera più profana della raccolta, nella quale Petrarca - sospirando ad Lauram (non ad caelum) - si autorappresenta quale disperato peregrinus ubique.

376

M.C. BERTOLANI, Petrarca e la visione dell’eterno, cit., p. 112.

377

Per la bibliografia pregressa su Gerusalemme rimando a M.C. BERTOLANI, Petrarca e la visione dell’eterno, cit., passim (in particolare si veda É. LAMIRANDE, L’Église céleste selon Saint Augustin, Paris, Études Augustiniennes, 1963, § L’Église pélerine et la Patrie céleste, pp. 161-84).

378

M.C. BERTOLANI, Petrarca e la visione dell’eterno, cit., p. 119. Cfr. inoltre C. DELCORNO, Bibbia e generi letterari nel Medio Evo, in «Annali di Storia dell’Esegesi», 1991, pp. 547-64. Per il rapporto con Agostino, che di fatto costituisce l’accessus ai testi scritturali, si rimanda alla bibliografia indicata in L. GERI, “Dopo i perduti giorni”. La preghiera nei ‘Rerum vulgarium fragmenta’, cit., p.23, nota 6.

379

Su questo codice, di cui la Bertolani riporta in appendice tutti i marginalia petrarcheschi (ivi, pp. 236-69), si veda D. COPPINI, Petrarca, i Salmi e il codice Parigino Latino 1994 delle ‘Enarrationes’ di Agostino, in Petrarca e Agostino, a cura di R. CARDINI ed EAD., Roma, Bulzoni Editore, 2004, pp. 19-38. Il ms. fu acquistato da Petrarca il 16 marzo 1337. Anche l’En. In Ps. 136 è piena di lacrime e sospiri.

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Poche le varianti della I 5 che riporto di seguito: Epyst., I 5 11-17

Alma tamen facies, multo venerabilis evo Plurima servabat sortis monimenta vetuste; Nil quoque plebeium, nil vile sonantia verba Argumentum animi, et generoso spiritus ore Scintillans; que summa vie, que causa gemendi, Unde ageret sese, nomen, patriamque genusque Querere mens fuerat, quod cum sermone Latino Iunctus erat latius senio iam tritus amictus. v. 14 Que summa vie] quo ferret iter Str 381

Epyst., I 5 46-48

Cynigerum morsu illustrem clarumque loquantur Miltiadem Marathone sua natumque catenis Conspicuum et tanto redimentem busta parenti.

v. 48 tanto redimentem busta parenti] patrie ornatum pietate patriisque Str 382

Epyst., I 5 90-96

[…] Memor omnia servas.

Te tamen illa gravis tum quaestio forte tenebat Carcere corporeo et mortalibus eruta vinclis Quid videat bene nata cohors cessante serenum

Nube iubar faciemque Dei, seu cernere pure

Corpora dum fractis surgent rediviva sepulcris, Nec prius incipient […].

v. 93 cessante serenum] sine nube serenam Str v. 94 nube iubar] effigiem Str

I due interventi petrarcheschi ai vv. 93-94 sono correlati e funzionali

381 Il movimento è simile a quanto già visto per la var. n. 16 di fase γ dell’Epyst., I 3,

v. 95.

382

Su questa variante cfr. E. BIANCHI, Le ‘Epistole metriche’ del Petrarca, cit., p. 264. Probabilmente l’alternativa è volta a fugare l’identitas con la sonora clausola virgiliana (Aen., VI 116; VIII 550).

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all’espunzione dell’effigies e all’inserimento del termine iubar, qui fortemente connotato in chiave teologica, come già evidenziato dalla Bertolani, che ne ricorda la «larga fortuna nella letteratura patristica, al pari di tutto il lessico della luce, spesso associato al problema della visio mystica».383 Merita una nota la lezione di fase γ, ad oggi mai segnalata: in coppia con il volto divino, vi era in un emistichio allitterante, «effigiem faciemque Dei». Petrarca torna sul primo dei due termini, per sanare forse l’incongruenza quasi iconoclasta della iunctura. Tra l’effigies e la facies sembra esserci la stessa distanza additata da Tertulliano, nel suo De idolatria, tra εἶδος e εἴδωλον, tra idea e idolo, o, citando Petrarca, tra idea ed esempio («In quale parte del ciel, in quale ydea era l’exempio», Rvf 159 1-2). Rileggiamo insieme il bel passo dell’apologeta cristiano, che non dovette essere noto al poeta:

Quando enim et sine idolo idololatria fiat, utique cum adest idolum nihil interest quale sit, qua de materia, qua de effigie, ne qui putet id solum idolum habendum, quod humana effigie sit consecratum. Ad hoc necessaria est vocabuli interpretatio: εἶδος graece formam sonat;

ab eo per diminutionem εἴδωλον deductum, aeque apud nos formulam fecit. Igitur omnis forma vel formula idolum se dici exposcit. Inde idololatria omnis circa omne idolum famulatus et servitus. Inde et

omnis idoli artifex, eiusdem et unius est criminis (De idololatria, III,

PL 1, 0665A).

Di fatto, se la parola facies ci riporta direttamente alla questione della visione ‘faccia a faccia’ con Dio - come si legge ad esempio nell’epistola ai Corinzi: «Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem» (Cor., 13 12) –, il termine effigies non è mai utilizzato in tal senso dalle auctoritates petrarchesche in materia religiosa, né altrove da Petrarca: l’effigie è sempre umana (humana effigies, corporis effigies) e spesso associata al volto di Laura o a quello dello stesso Petrarca. Si pensi al rimprovero che Agostino nel Secretum muove alla «brama degli occhi prossima all’idolatria»384 di Petrarca: «Quid autem insanius quam,

383 M.C. BERTOLANI, Petrarca e la visione dell’eterno, cit., p. 101 (si rimanda in

particolare al § Idoli, icone, pp. 154-67). Si veda inoltre EAD., La visione beatifica: una disputa avignonese (Fam. II 12), in Motivi e forme delle ‘Familiari’, cit., pp. 611- 37, ed. EAD., Dall’immagine all’icona, in «Quaderns d’Italià», 11 2006, pp. 183-201.

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non contentum presenti illius vultus effigie, unde hec cuncta tibi provenerant, aliam fictam illustris artifiis ingenio quesivisse, quam tecum ubique circumferens haberes materiam semper immortalium lacrimarum» (Secr., III 156 p. 225). È dall’effigie del volto di Laura che derivano tutti gli errori (cuncta): nella seguente Epyst. I 6 si trova una delle tante occorrenze del termine al v. 119 («corporis effigies») che forse, al momento della raccolta unum in locum, avrà fatto scaturire la riflessione e la riscrittura petrarchesca.

Se dunque è chiaro il motivo della soppressione della lezione tràdita da Str, bisognerà ora riflettere sull’opzione di Petrarca che, come già detto, seleziona un tecnicismo teologico, iubar. Si parta anche qui dall’intratestualità: come scrive la Bertolani, il passo petrarchesco più vicino all’epistola in versi è un luogo del De otio (II 412), nel quale il significato letterale - iubar quale semplice splendore del sole - è accostato in parallelo al fulgore della visione del volto divino, seppur in maniera indiretta. I rimandi extratestuali sembrano invece meno convincenti: oltre ai Moralia in Job di Gregorio Magno e al commentario al Timeo di Calcidio, è citato Agostino dal De civitate Dei («Tunc erit et luctus, stridebunt dentibus omnes / eripitur solis iubar, et chorus interit astris», De civ. Dei, 18 23). A mio parere, il recupero andrà fatto risalire sì ad Agostino, ma al De vita beata, lì dove il santo spiega l’equivalenza tra la beatitudine e il possesso di Dio che si rivela come luce dell’anima: «Hoc interioribus luminibus nostri iubar sol ille secretus infundit» (IV 35), ‘quel sole segreto infonde nei nostri occhi interiori tale visione’, hoc iubar. Prosegue il santo: «Illa est igitur plena satietas animorum, haec est beata vita, pie perfecteque cognoscere a quo inducaris in veritatem, qua veritate perfruaris, per quid connectaris summo modo» (ibid). Al modello patristico si aggiungono quale modello i versi del De planctu naturae di Alano da Lilla,385 che sembrano contenere molti dei termini chiave petrarcheschi: così l’oculus cordis accecato dalla caligo carnis, e quindi la dicotomia che oppone all’umbra carnis proprio la luce divina, iubar:

Sic hominum ratio calcata cupidine, carni

385

Già la Bettarini ricordava alcuni versi del De planctu naturae quale modello del Canzoniere (vedi, a tal proposito, le pagine precedenti).

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Servit, et ancilla famulari cogitur illi.

Sic oculus cordis, carnis caligine caecus

Languet, et eclipsim patiens, agit otia solus.

Sic iubar humani sensus male palliat umbra

Carnis, fitque nummis ingloria gloria mentis.

(De pl. nat., XIII 59-64, ed. HÄRING, p. 859).

Oltre che per la limpida costellazione di termini e immagini tutte petrarchesche, il passo di Alano, mai considerato dai commentatori, è tanto più interessante poiché fa parte di una più ampia lamentatio contro l’avaritia e il lusso, che hanno sovvertito tutto: «Postquam sacra fames auri mortalia pungit / Pectora, mens hominis nescit ieiuna timere» (ivi, XIII vv. 1-2, ed. HÄRING, p. 857). Petrarca apre la lettera seguente, la I 6, alla nostra connessa, con un giro di esametri che e contrario ospitano una professione di povertà. L’ostentata e insistita dichiarazione di aurea egestas, che pare a prima vista così svincolata dal resto della lettera d’amore per Laura e per i libri, si ricollega all’offuscamento dei sensi causato secondo Alano dall’avarizia, che in Petrarca verrà sostituito dall’amore peccaminoso per Laura, amore che elegiacamente ha quale condizione connaturata la paupertas («non rura requiro / Divitiasque patris», Epyst., I 6 10-11).386

Qui solo cursoriamente si segnala che, sulla scorta dei molteplici rimandi della Bettarini per i Rvf, il peso di Alano nella produzione petrarchesca andrebbe significativamente riconsiderato, nonostante (o a partire da) il giudizio che sulla sua poesia Petrarca esprimeva nella Invectiva contra eum qui maledixit Italie (ed. Berté § 253): «Quid sibi igitur vult Gallus? An non videt quid alienigene quoque de se ipsis et de nostris senserit? Sufficiat sito Anticlaudianus Alani sui, paulo minus tediosus Architrenio. Poete ambo barbarici multum pariter se diffudunt, multum frustrum se torquent». ‘Al Gallo, che rivendicava erroneamente alla Gallia Stazio e Claudiano, gli basti l’Anticlaudiano del suo Alano, poeta barbarico, contorto e prolisso’. Ricordo infatti che Alano, come individuato già da Pietro da Parma e poi evidenziato da Fera, è tramite culturale di un altro dei nuclei centrali della poesia petrarchesca in

386

Si segnala intanto che questi versi vanno ad aggiungersi al novero individuato in G. RADIN, “Gloriosa simul et iucunda paupertas”. Petrarca e la tradizione francescana, in «Revue Des Etudes Italiennes», 50 2004, pp. 311-30.

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particolare nelle dichiarazioni metapoetiche e ne «la messa a fuoco di un ben preciso rapporto tra poeta-scriptor e auditor-lector».387