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A partire proprio dalla sanzione ufficiale del tema all’interno del Carme secolare, l’idea della potenza incontrastata di Roma sembra diventare realmente centrale nell’opera oraziana … come non lo era stata – sebbene sporadici cenni alla questione non manchino nemmeno nella produzione degli anni precedenti – fino a quel momento. Il poeta, infatti, lavorando alla prima epistola del II libro e al IV volume delle Odi – entrambi, a quanto sappiamo dalla

456 Il collegamento tra l’origine dei giochi e la sottomissione dei Latini, ricordato dallo stesso Orazio (HOR.

Car. Saec. 66-67, sancisce ulteriormente il ruolo decisivo riconosciuto a questa prima e decisiva fase

dell’affermazione del dominio romano come sorta di preconizzazione del destino ecumenico dell’Urbe (PARK POE 1984,67:“Roman religious conservatism preserved in the ritual the prayer for Latin obedience, to become partly a quaint reminiscence of the past, partly a symbol of the growth of Empire”). Vd. anche COARELLI 1993, 220.

457 Sul valore dei cambiamenti di ambito topografico patrocinati da Augusto nella celebrazione dei ludi vd.

PARK POE 1984, 64-68.

458 CIL VI 32323 (= CIL VI 877a-b = CIL VI 32324 = AE 1892, 1 = AE 1988, 20-21 = AE 1994, 178 = AE

2002, 192 = AE 2003, 146).

459 ROMANO 1991, 931-932 e GAGÉ 1931. Significativa in questo senso è, soprattutto, la strofe conclusiva del

carmen: Haec Iovem sentire deosque cunctos / spem bonam certamque domum reporto, / doctus et Phoebi chorus et Dianae / dicere laudes.

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biografia svetoniana, fortemente ‘promossi’ da Augusto460 – torna con insistenza a fare riferimento all’ambizione universalista della potenza romana.

Roma viene definita:

- potens461 (Appendice 58H) mentre, “stipata in un ristretto teatro”, ammira la messa in scena di drammi e commedie dei suoi poeti più celebri;

- formidata Parthis (Appendice 59H)462, temuta dai Parti, nel senso di ispiratrice di profondo terrore. Dal sostantivo formido, -is deriva, infatti, il suo nome la personificazione della paura e dell’orrore, etimologicamente equiparata a Μορμώ; - princeps urbium (Appendice 66H) con riferimento al riconoscimento, da parte dei

Romani (suboles), del ruolo di vates di Orazio;

- domina (Appendice 67H). Si tratta di una variatio rispetto al precedente princeps, sebbene qui il contesto di riferimento sia tornato ad essere l’elogio di Augusto, riconosciuto come tutela praesens463 dell’Italia e della stessa Roma.

Ora, come si nota, se in Orazio il tema dell’eternità di Roma rimane ancora a livello di auspicio a causa della eccessiva prossimità del disastro delle guerre civili464, così non accade per quanto riguarda l’idea di ecumenicità del dominio romano che sembra decisamente più salda, sviluppatasi con vigore già a partire dal II secolo a.C.465. E infatti se il riferimento alla prima è un hapax del Carme secolare, la seconda trova interessanti manifestazioni anche nella produzione precedente del poeta di Venosa.

In Car. 3, 3, 44 (Appendice 33H), ancora in riferimento al problema partico (Medi), Roma viene definita ferox affinché possa (possit) dettare legge ai Parti e “stenda [extendat] terribile [horrenda] sino alle estreme spiagge il suo nome, là dove il mare separa l’Europa dagli Afri e gonfio il Nilo feconda i Campi”. In maniera del tutto analoga, poi, l’Urbe viene additata come regia nel libro I delle Epistole (Appendice 44H), dove l’aggettivo – in netto contrasto con i vicini parvus, vacuus e inbellis – non ha qui il solo significato di ‘splendida’, ‘grandiosa’ ma soprattutto di ‘regale’, degna di essere la sede di un re.

460 SUET. Vita Hor. 10. Vd. BRINK 2011, 464-494 e 562 ss.

461 Così viene definita anche Alba in PROP.4, 1, 35 (Appendice 26P).

462 L’esametro in questione è apparso a molti una reminiscenza ciceroniana del celebre O fortunatam natam me

consule Romam (QUINT.Inst. 11, 1, 24; vd. PASCAL 1916e, più tardi,TRAGLIA 1987,105-106)anche se il contesto ha fatto ritenere a G. Pasquali che sia Cicerone che Orazio riecheggiassero, in maniera indipendente, un non meglio specificato verso di Ennio. Vd. PASQUALI 1950,127-128.In generale vd. ALLEN 1956.

463 Sulle implicazioni religiose di questa invocazione ad Augusto e sull’occorrenza di praesens nella

produzione dell’epoca vd. BRINK 2011,49-53.In Orazio, con riferimento al princeps, ritorna in Car. 3, 5, 2 e – abbastanza prevedibilmente – Ep. 2, 1, 15.

464 LA PENNA 1963, 66-68.

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La scelta lessicale di Orazio non è certamente neutra soprattutto se si rammenta che l’enigmatico attributo ricorre nel poeta di Venosa in un solo altro contesto, quello della celebre invettiva contro la privata luxuria delle regiae moles di Car. 2, 15 (Appendice 31H). La forte pregnanza semantica del termine, per tutte le implicazioni politiche ad esso riconducibili, è evidenziata d’altro canto dalla forza con cui il principato ha sostanzialmente bandito “irrémédiablement […] du vocabulaire officiel” aggettivi come regius o regalis, non a caso messi in relazione dal Venosino con condannabili espressioni della aedificatio privata.

Tornano qui alla mente, però, i delicati passaggi del de architectura all’interno dei quali Vitruvio spiega l’utilità dell’esistenza di vestibula regalia alta all’interno delle dimore dei

nobiles, quod in domibus eorum saepius et publica consilia et privata iudicia arbitriaque conficiuntur466. Tralasciando per il momento la discussione relativa al ruolo ricoperto da queste righe nel processo di progressiva “identificazione tra magnificentia pubblica e privata, in nome dell’avvenuta scomparsa del confine tra le due sfere”467 che trova forse la sua giustificazione nella redazione tardo-repubblicana del trattato468, quello che importa qui sottolineare – sulle orme di Pierre Gros469 – è soprattutto l’utilizzo dell’aggettivo altus come “commentaire concret” e “justification architecturale” di regalis. Se, infatti, Vitruvio sembra impiegare qui il termine per rendere la straordinaria impressione di maestosità che dovevano suscitare nei visitatori i colonnati degli ambienti d’accesso alle domus dei potentes, quorum

cogitationibus respublica gobernatur470, non è strano che Orazio riprenda questa stessa immagine quasi a voler definire l’intera Roma, nelle sue straordinarie e celebrate altezze, dimora del nuovo princeps civitatis471.

466 VITR. 6, 5, 2.

467 ROMANO 1994, 69. Vd. anche COARELLI 1989, 178-179.

468 Sulle questioni relative alla problematica datazione del trattato vitruviano vd. GROS 1997, IX-LXXVII che

propende per ascrivere la redazione principale del testo tra il 36 e il 25 a.C. (così anche ROMANO 1994, 72).

Contra ROMANO 1987, 15-30 che dichiarava di condividere “le argomentazioni di quanti sostengono una datazione del trattato vitruviano negli anni successivi al 27 a.C.”. Ciò soprattutto sulla base della dedica ad Augusto in quanto promotore di una imponente attività edilizia che presupporrebbe almeno il 28 a.C. (fatidico anno dell’attribuzione ad Ottaviano dell’incarico di restaurare i templi di Roma) ma anche in relazione al ruolo tutto augusteo rivestito dall’Urbe in qualità di “centro geografico, climatico, etnico” e politico del mondo.

469 GROS 1989.

470 VITR. 1, 2, 9. Anche definiti nobiles […] qui honores magistratusque gerundo praestare debent officia

civibus in VITR. 6, 5, 2.

471 Principes civitatis erano definiti ironicamente da Cicerone gli uomini più in vista e più ricchi della città, la

cui dignitas cercava di manifestarsi nella realizzazione di aedificia magnifica (CIC. Off. 1, 138 ss.; parad. 5, 37: Atque ut in magna familia servorum sunt alii lautiores ut sibi videntur, servi, sed tamen servi, atrienses ac

topiarii, pari stultitia suae, quos signa, quos tabulae, quos caelatum argentum, quos Corinthia opera, quos aedificia magnifica nimino opere delectant. Et «summus» inquit «principes civitatis». Vos vero ne conservorum quidem vestrorum principes estis).

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D’altra parte, che l’altezza di un edificio – e diremo qui, di una città – fosse elemento determinante nella definizione del nuovo modello augusteo di auctoritas, dignitas e

magnificentia, concorrono a dimostrarlo, secondo Pierre Gros, sia la preziosa descrizione

vitruviana della basilica di Fano472 che il fortunato reimpiego – ancora in età augustea – delle columnae insigni magnitudine del teatro temporaneo voluto, nel 58 a.C., dall’edile Marco Emilio Scauro473. Queste, infatti, in seguito alla demolizione della struttura teatrale, vennero reimpiegate prima nella dimora del magistrato e, alcuni anni più tardi, per ornare – secondo la volontà del princeps – la regia del nuovo teatro di Marcello474.

Come si può vedere, quindi, nella definizione della Roma augustea – ma anche, inevitabilmente, del fenomeno urbano in senso più generale – l’intento degli autori del circolo è prevalentemente rivolto alla sua specificazione in relazione ai canoni della

maiestas imperii.

L’estensione oltre i suoi confini canonici (sebbene il profilo urbano rimanga sempre fortemente caratterizzato dalle mura), l’esponenziale crescita verticale, l’amplificarsi della densità abitativa (che richiede, secondo l’ottica vitruviana, una sostanziale corrispondenza fra “tipologia sociale” e “tipologia abitativa”) sono tutti elementi che – tanto in un’opera trattatistica come quella di Vitruvio475, quanto nella diversificata produzione poetica dei tre autori del circolo – trovano la loro giustificazione nell’affermazione del potere ecumenico dell’Urbe.

Nella sua nuova funzione di capitale imperiale, Roma sembra progressivamente appropriarsi di un attributo – quello della maiestas – che fino a quel momento era stato riconosciuto al

populus romanus tout-court al fine di descrivere figure in grado di distinguersi per dignità e

potere476. Questa nuova fase storica e urbanistica prescrive, invece, non solo un progressivo

472 VITR. 5, 1, 6-10: Non minus summam dignitatem et venustatem possunt habere comparationes basilicarum,

quo genere Coloniae Iuliae Fanestri conlocavi curavique faciendam, cuius proportiones et symmetriae sic sunt constitutae.

473 Per il nesso augere – auctoritas (sempre in relazione alla basilica di Fano) vd. VITR. 5, 1, 10: ipsae vero

columnae in altitudine perpetua sub trabes testudinis perductae et magnificentiam inpensae et auctoritatem operi adaugere videntur.

474 L’opera venne terminata, con molta probabilità, già nel 17 a.C. ma fu dedicata solo tra il 13 e l’11 a.C.

ASCON. in Scaur. 27C Lewis: In huius domus atrio fuerunt quattuor columnae marmoreae insigni magnitudine

quae nunc esse in regia theatri Marcelli dicuntur. PLIN. NH 36, 5-7 e 114: colonne di trentotto piedi in marmo luculliano. Cfr. 17, 1-6 per le altrettanto celebri colonne – di 6 piedi di marmo d’Imetto – della dimora dell’oratore Lucio Licinio Crasso. Anch’esse, prima di essere collocate nell’atrio privato della domus, vennero impiegate per ornare la scena teatrale in occasione dell’edilità di Crasso. Non è parso un caso a P. Gros che l’unica altra occorrenza dell’aggettivo regalis all’interno dell’opera vitruviana si trovasse proprio in relazione alla descrizione del muro di scena dell’edificio teatrale (VITR. 5, 7, 6-9). Vd. GROS 1989.

475 Come notato da E. Romano, “espressioni come civium infinit frequentia, come innumerabiles habitationes,

o come tanta multitudo o alto spatio multitudo [contenute in VITR. 2, 8, 17 n.d.r.] concorrono tutte a dare come l’impressione di uno sviluppo oltre i limiti finora conosciuti, l’effetto di una grandiosità senza precedenti, l’immagine di una città che si slarga, che cresce in altezza, che si moltiplica”

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e in certo modo rivoluzionario scivolamento di tale grado di auctoritas dai cittadini più eminenti dell’Urbe al princeps477 ma anche una sostanziale sovrapposizione tra quest’ultimo e la città di Roma in quanto concreta manifestazione del nuovo potere.

Il celebre passo svetoniano (urbem neque pro maiestate imperii ornatam et inundationibus

incendiisque obnoxiam excoluit478) al quale si è soliti fare riferimento per dimostrare la nozione politica e ideologica alla base dell’interessamento di Ottaviano/Augusto per le operazioni di rinnovamento urbano, trova le sue radici proprio nella prefazione al primo libro del de architectura dove si precisa la diretta cura del princeps de opportunitate

publicorum aedificiorum, ut civitas per te non solum provinciis esset aucta, verum etiam ut maiestas imperii publicorum aedificiorum egregias haberet auctoritates479.

In questa fase, il monumento pubblico non solo contribuisce a sancire – come sosteneva Emilio Gabba – “il nuovo legame fra il potere che lo ha promosso e chi ne fruisce”480 ma si pone nel ruolo di intermediario tra la realizzazione della maiestas urbis e della maiestas

principis entrambe funzionali alla realizzazione della ecumenica maiestas imperii.

Nel complesso ‘sistema’ dell’ideologia augustea, infatti, alla centralità di Roma si ricollegano inscindibilmente, in un proficuo rapporto di reciprocità, la centralità dell’Italia e di Ottaviano/Augusto, così che dalle sorti dell’Urbe dipendono necessariamente quelle del

princeps481.

Emblematica in questo senso è, ancora una volta, l’epistola oraziana di apertura al secondo libro dove per la prima volta è attestato il termine maiestas proprio in riferimento ad Augusto. Nel bel mezzo della canonica recusatio, il poeta di Venosa si sofferma – subito dopo aver ricordato la chiusura del tempio di Giano e il terrore suscitato da Roma nelle file dei Parti – nell’elogiare la grandezza e la potenza del princeps in contrapposizione al

parvum carmen e “in direzione di un’idea di sovranità che ingloba non solo la potestas, ma

anche la dignitas”482. Solo in una fase di consolidamento del principato augusteo – alla quale infatti appartiene cronologicamente questa testimonianza (14-13 a.C.)483 – mi pare si possa concepire tale accostamento che è però la manifestazione sintomatica di una presa di

477 È lo stesso Augusto a definirsi, a partire dal fatidico 27 a.C., pari agli altri magistrati in quanto a potestas

ma superiore a tutti per auctoritas in RG 34, 3. Della straordinaria portata di questo lento ma inarrestabile processo di trasferimento di autorità dal populus romanus al princeps è una chiara testimonianza il senatus

consultum de Cn. Pisone patre (del 20 d.C.) “where Piso's neglect of maiestas domus Augusta is paired with

his neglect of ius publicum” (CHAMPLIN 1999, 118). La prima edizione commentata del documento, scoperto negli ultimi anni del Novecento, è in ECK,CABALLOS,FERNANDEZ 1996.

478 SUET. Aug. 28, 3. 479 VITR. 1 praef. 2.

480 GABBA 1980, 51. Cfr. WALLACE-HADRILL 2008,144-210. 481 PROP. 3, 11, 66 (Appendice 17P). Cfr. PROP. 3, 11, 50. 482 HOR. Ep. 2, 1, 258 (Appendice 59H). CICCARELLI 2003, 258. 483 Interessante la ripresa del tema in OV. Tr. 2, 512.

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coscienza diacronicamente ben più dilatata e che vedrà le sue massime espressioni solo nei decenni successivi.

È in Ovidio, infatti, che questa sostanziale identità tra urbs e princeps trova la sua più piena espressione. Per il poeta di Sulmona, durante l’esilio pontico, è lo stesso Augusto a portare in sé l’immagine di Roma al punto che, guardandolo, si può avere l’impressione di vedere l’intera Urbe484:

Quid nostris oculis nisi sola palatia desunt? Qui locus ablato Caesare vilis erit.

Hunc ego cum spectem, videor mihi cernere Romam; nam patriae faciem sustinet ille suae.

Al termine di questo capitolo vale la pena soffermarsi – seppur brevemente – su una questione dirimente per chiunque si dedichi allo studio del fenomeno urbano. Fino a questo punto, infatti, si è visto con quanta accortezza le fonti abbiano proposto un modello di

maiestas urbis totalmente incentrato sull’edilizia pubblica che si configura, in questa fase,

come vero e proprio “strumento di politica ideologica” oltre che economica485 coordinata direttamente da Ottaviano/Augusto. Se consideriamo, però, la città come uno “spazio globale” che intreccia ambito pubblico e ambito privato, relazioni politico-sociali e aspetti estetico-funzionali al fine di sostanziare tale concetto di maiestas urbis e – attraverso di esso – quello ecumenico di maiestas imperii, non possiamo che riconoscere a Roma, con Annapaola Zaccaria Ruggiu, una articolazione prevalentemente “sintattica”486.

All’interno della complessa e interconnessa idea di città gioca un ruolo fondamentale anche l’edilizia privata che non può essere ridotta a semplice ambito concorrente rispetto all’iniziativa pubblica … soprattutto in una fase storica (e urbana) in cui si richiede che tutti gli sforzi delle diverse componenti civiche collaborino nella realizzazione della maiestas

urbis. Il dibattito tra antagonismo pubblico e privato in ambito edilizio sembra non a caso

trovare – dopo secoli di accesa polemica contro la luxuria – proprio in questi anni una ricomposizione in Vitruvio. Pur nella dichiarata superiorità dell’iniziativa pubblica, infatti,

484 OV. Pont. 2, 8, 17-20. 485 GABBA 1980, 51.

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la tanto deprecata aedificatio privata trova la sua giustificazione proprio nel ruolo da essa stessa giocato nella grande e complessa realtà cittadina487.

Vestibula regalia alta, atria et perystilia amplissima, silvae ambulationesque laxiores ad decorem maiestatis perfectae, bybliothecas, pinacothecas e basilicas saranno concessi ai nobiles che, nell’esercizio delle loro cariche e magistrature, dovranno tramutare le rispettive

dimore private in edifici pubblici giacché al loro interno si tengono d’abitudine sia publica

consilia che privata iudicia arbitriaque488.

L’idea di città e la sua materializzazione fisica trovano, quindi, il loro senso intrinseco nell’interazione delle differenti componenti dell’urbanitas romana che, auspicabilmente conciliate, consentono a Roma di porsi a “modello complessivo di articolazione politica, amministrativa, sociale, ma anche urbanistica ed estetica”489. Si spiega così, chiaramente, il valore politico e ideologico impresso all’attività augustea di rinnovamento edilizio che promuove l’idea già ciceroniana di una stretta interconnessione tra una forma ordinata di città ed esercizio del buon governo. La città diventa sostanza ed espressione del potere in quanto attraverso di lei – capace com’è di plasmare lo stesso concetto di cittadinanza – si può affermare l’egemonia di una intera civiltà.

La maiestas urbis e, conseguentemente, imperii non può che manifestarsi, quindi, nella grande fase del rinnovamento augusteo, attraverso la realizzazione di una serie di istanze estetiche e funzionali a livello urbano (pulchritudo, utilitas, dignitas e venustas) in grado di legittimare il potere di Roma in quanto realtà politica capace di imporre un proprio modello cittadino indipendente.

In questo contesto, come si è tentato di dimostrare, l’idea aristotelica della ‘limitazione’ come strumento in grado di consentire all’entità specifica – che questi limiti si è imposta – di raggiungere il valore di modello, svolge una parte decisiva.

Definire per trattenere nella memoria, per trovare e/o cristallizzare un’identità, per integrare ed integrarsi non solo a livello locale ma soprattutto universale.

A questa precipua esigenza pare rispondere non solo la riorganizzazione amministrativa cittadina del princeps – non a caso realizzata sulla base di una struttura settenaria – in 14

487 Pur nella costante contraddizione tipica dell’età augustea e nell’impossibilità di datare con precisione la

redazione del de arhitectura, pare che anche in questo tentativo di mediazione tra maiestas pubblica e luxuria privata si possa adombrare il sentore di uno o più interventi sull’opera post 28 a.C.

488 VITR. 6, 5, 2. Secondo questo stesso principio – legato al ruolo ricoperto dai soggetti all’interno della

‘macchina’ pubblica piuttosto che a una valutazione di natura morale (come accadeva, per esempio, in Cicerone) – Asinio Gallo, nel 16 d.C., giustificherà la gerarchizzazione sociale in base al concetto degli

ordines (TAC. Ann. 2, 33).

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regiones ma anche, come si è visto, il restauro e la monumentalizzazione delle mura e delle

rispettive porte di accesso a partire dal 12 a.C.

A prescindere dalla controversa tradizione dei sette colli, poi, non si può trascurare di notare come l’elemento collinare sia assurto a modello topograficamente preminente nella descrizione virgiliana dell’Urbe tanto che le Romanae arces divengono, da questo momento in poi, un vero e proprio nesso sinonimico per indicare non solo Roma ma tutte le città, come Costantinopoli e Mosca490, che – in qualche misura – intenderanno raccogliere la sua eredità.

Non è un caso, quindi, che Properzio (Appendice 31P), ricordando uno dei miti fondativi di Roma, faccia rivolgere a Tarpea l’estremo saluto ai Romani montes (e alla Roma montibus

addita491) ponendolo sullo stesso piano dell’addio rivolto a Vesta che è qui non solo il nume tutelare dell’itera città ma anche la divinità alla quale la giovane aveva votato – secondo la tradizione raccolta dall’Umbro – la sua castità.

Per tornare brevemente al Mantovano, è oltremodo significativo che l’elemento orografico faccia la sua comparsa sia nelle Georgiche che nell’Eneide sempre in termini fortemente ‘oppositivi’ rispetto a realtà straniere, quasi a volerne ulteriormente sentenziare l’unicità. Nel caso di G. 2, 172 (Appendice 7V), sul finale delle laudes Italiae, Virgilio si sofferma in un esplicito elogio di Ottaviano a cui si rivolge con l’appellativo di maximus Caesar. Quest’ultimo, victor nelle estreme contrade dell’Asia, è celebrato per aver tenuto lontano (avertere) gli Indi ormai imbelli – da identificare più in generale con tutte le popolazioni orientali che si erano schierate al fianco di Antonio ad Azio492 – dalle rocche romane. Stornata la minaccia orientale, Virgilio menzionerà nuovamente le Romanae arces, questa volta nei primi versi nel libro X dell’Eneide (Appendice 24V) e anche qui lo farà per ricordare un terribile pericolo corso dall’Urbe.

Giove, riuniti in solenne assise gli dei dell’Olimpo, osserva con amarezza il campo di battaglia e rimprovera aspramente i magni caelicolae per aver affrettato indebitamente il tempo della battaglia; questo arriverà, infatti, secondo la sua stessa profezia, quando la fiera Cartagine (fera Karthago) varcherà le Alpi e rovescerà (immittere) sulle rocche romane un

magnum exitium.

490 BOWERSOCK 2006.

491 Il richiamo sembra qui al suo addio alle Romanae turres di El. 3, 21. 492 Così DELLA CORTE 1986, ad loc.

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A un ruolo non dissimile da quello dei colles assolve, infine, l’immagine del Tevere in generale e del flavus Tiberis/Thybris493 in particolare. Quest’ultima, riconosciuta da Domenico Palombi come una vera e propria creazione dell’età augustea494 (se non precipuamente degli autori del circolo mecenaziano), compare per la prima volta – quasi contemporaneamente – in Car. 1, 2, 13 (Appendice 27H) e Aen. 7, 30-31 (Appendice 18V)

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