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L’uso del superlativo maxima diventa ancor più significativo se lo si raffronta con un’altra occorrenza simile in G. 2, 534 dove Roma viene addirittura definita pulcherrima (Appendice 10V). L’Urbe compare qui all’apice di una sorta di climax ascendente che prende l’avvio dalla celebrazione dei veteres Sabini per soffermarsi, poi, su quella della fortis Etruria361 fino all’incoronazione della “più bella di tutte”: Roma.

357 L’idea oraziana troverà uno straordinario sviluppo nel libro XV delle Metamorfosi di Ovidio (OV. Met. 15,

422-435): sic magna fuit censuque virisque / perque decem potuit tantum dare sanguinis annos, / nunc humilis

veteres tantummodo Troia ruinas / et pro divitiis tumulos ostendit avorum. / Clara fuit Sparte, magnae viguere Mycenae, / nec non et Cecropis, nec non Amphionis arces: / vile solum Sparte est, altae cecidere Mycenae, / Oedipodioniae quid sunt, nisi nomina, Thebae? / Quid Pandioniae restant, nisi nomen, Athenae? / Nunc quoque Dardaniam fama est consurgere Romam, / Appenninigenae quae proxima Thybridis undis / mole sub ingenti rerum fundamina ponit: / haec igitur formam crescendo mutat et olim / inmensi caput orbis erit!

358 LABATE 1991, 173.

359 VERG. Aen. 2, 56; HOR. Car. 1, 16, 18; PROP. 2, 8, 10; 4, 1, 35. Cfr. OV. Met. 15, 422 (magna […] censuque

virisque); 15, 425 (divitiis); 15, 426 (clara […] magnae); 15, 428 (altae); 15, 431 (consurgere).

360 VERG. Aen. 3, 3; 3, 11; 7, 411-413; HOR. Car. 3, 3, 40-42; Epod. 16, 9-16; PROP. 4, 10, 27-30. Cfr. CIC.

Fam. 4, 5, 4 (prostrata et diruta […] iacet); Ov. Met. 15, 424 (humilis […] ruinas); 15, 425 (pro divitiis tumulos […] avorum) 15, 428 (vile solum).

361 Sulla volontà di Virgilio di “distinguere nella sua esaltazione due diversi gruppi di popoli italici […] le

stirpi acres, aspre e dure in guerra, i Marsi, i Sabelli, i Liguri e i Volsci; dall’altra [parte n.d.r.] le stirpi che coltivano la pietas, la iustitia, il lavoro pacifico: i vecchi Sabini, i vecchi Latini e i vecchi Romani (Remo e il fratello), gli Etruschi” vd. AA.VV. 1972, 150.

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Lo stesso attributo era stato riconosciuto alla città del Lazio, in diverse occasioni362, già da Cicerone, il quale vi fa ricorso per ben tre volte nell’ambito delle orazioni declamate contro Verre e contro Catilina. Il dato è tanto più interessante in questo contesto perché sembra manifestare una sorta di esasperazione dei termini elogiativi – non sempre motivata dalla realtà dei fatti363 – con i quali questi due autori descrivono Roma in fasi ben distinte della sua evoluzione urbana.

Tale atteggiamento retorico potrebbe trovare una giustificazione nella volontà, perlomeno da parte di Cicerone e Virgilio, di sancire la pulchritudo dell’Urbe non tanto in relazione alla mera sfera estetica ma piuttosto all’organicità e all’unitarietà civile, storica e ideale che in essa si manifesta in quanto civitas. Se, infatti, nel secondo discorso contro il propretore della Sicilia la bellezza e il prestigio dell’intera Urbe sono minacciati dall’uso ormai diffuso di sottrarre le opere d’arte alle comunità vinte al fine di rinchiuderle entro un ristretto numero di dimore364, nelle invettive contro Catilina sono ancora la pulchritudo, la ricchezza e la potenza di Roma ad essere messe in pericolo dalla sacrilega e scellerata congiura ordita da un gruppo di concittadini del console365. Al rischio del decadimento e della disgregazione materiale dell’Urbe – la cui massima espressione sono i signa sottratti al pubblico sguardo e gli incendi sventati dall’Arpinate – si sovrappone quello di uno sgretolamento dell’idea di

362 CIC.Nat. D. 3, 9, 21; Red. pop. 1, 4, dove Cicerone annovera sia la pulchritudo urbis che la maiestas civium

tra le res che più lo hanno fatto gioire al suo ritorno dall’esilio: Ipsa autem patria, di immortales! Dici vix

potest quid caritatis, quid voluptatis habeat; quae species Italiae, quae celebritas oppidorum, quae forma regionum, qui agri, quae fruges, quae pulcritudo urbis, quae humanitas civium, quae rei publicae dignitas, quae vestra maiestas! L’Arpinate, seppure delimitandone chiaramente la preminenza in un preciso contesto

geografico-culturale, sembra impiegare lo stesso aggettivo solo in relazione ad altre due realtà urbane: Siracusa (CIC.Verr. 2, 4, 117-118: maxima graecarum urbs, pulcherrima) e Capua (CIC.Leg. agr. 2, 91: urbs ex Italia pulcherrima).

363 Tanto da produrre, secondo E. La Rocca, l’immagine di una Roma “astratta, non aderente alla realtà dei

fatti” (LA ROCCCA 2012,55-56).

364 CIC.Verr. 2, 5, 127: In urbe nostra pulcherrima atque ornatissima quod signum, quae tabula picta est quae

non ab hostibus victis capta atque deportata sit? At istorum villae sociorum fidelissimorum plurimis et pulcherrimis spoliis ornatae refertaeque sunt. Il modello ciceroniano, non a caso, è Marco Claudio Marcello,

elogiato in Verr. 2, 4, 120-121 perché – vincitore di Siracusa – non plus […] populo Romano adpetivit quam

humanitas Syracusanis reservavit. Inoltre, non arricchendo le sue dimore private con ciò che era destinato alla

collettività, il generale fece sì che la sua stessa casa diventasse un ornamento per Roma: nihil in aedibus, nihil

in hortis posuit, nihil in suburbano; putavit, si urbis ornamenta domum suam non contulisset, domum suam ornamento urbi futuram.

365 CIC.Cat. 2, 13, 29: Quos vos, Quirites, precari, venerari, implorare debetis ut, quam urbem pulcherrimam

florentissimam potentissimamque esse voluerunt, hanc omnibus hostium copiis terra marique superatis a perditissimorum civium nefario scelere defendant. CIC.Cat. 3, 1, 1: Rem publicam, Quirites, vitamque omnium vestrum, bona, fortunas, coniuges liberosque vestros atque hoc domicilium clarissimi imperii, fortunatissimam pulcherrimamque urbem, hodierno die deorum immortalium summo erga vos amore, laboribus, consiliis, periculis meis e flamma atque ferro ac paene ex faucibus fati ereptam et vobis conservatam ac restitutam videtis.

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Roma in quanto comunità di cittadini in grado di contenere le forze centrifughe che ne sovvertirebbero l’ordine costituito366.

Sulla ragione per la quale la città del Lazio debba essere considerata imbattuta – e imbattibile – per bellezza Virgilio fornisce un’ulteriore interessante spiegazione: l’Urbe può essere a buon diritto definita pulcherrima in quanto septem una sibi muro circumdedit arces. Ancora una volta il Mantovano dimostra di tenere bene a mente l’insegnamento aristotelico: la bellezza di Roma in quanto città che si cristallizza in paradigma consiste nella sua misurabile grandezza, non solo politica ma anche pragmaticamente urbana.

A questo punto, parafrasando un famoso detto, verrebbe da domandarsi: è nata prima la città o il suo paradigma? È ovviamente difficile rispondere a quella che molto spesso si tramuta in una vera e propria domanda retorica, il caso delle sette alture circondate dalle mura di una sola città, però, può fornire alcuni interessanti appigli non solo in relazione a tale questione ma anche per quanto riguarda gli effettivi spunti di originalità della produzione letteraria di età augustea.

L’immagine dei sette colli – con la quale siamo abituati ancora oggi a identificare l’intera città di Roma – compare infatti per la prima volta proprio nelle Georgiche e non a caso per la sua straordinaria pregnanza verrà ripresa dallo stesso Virgilio, in una evidente autocitazione, anche in Aen. 6, 783 (Appendice 16V). In entrambi i casi, sia nel II libro delle Georgiche che nel VI dell’Eneide, il contesto è chiaramente celebrativo, celebrazione che – peraltro – passa ancora una volta attraverso quella di due grandi ‘progetti’ augustei: la piena realizzazione del dominio romano sull’ecumene (totus orbis terrarum)367 – che i poeti del circolo si rifiutarono di esaltare esplicitamente per dichiarata inadeguatezza – e l’integrazione al suo interno delle etnie italiche che ne costituiscono il nucleo più autentico, in pieno spirito post-aziaco. Se, infatti, in G. 2, 534-535 Roma è definita pulcherrima in quanto capace di abbracciare i sette colli come componente della sua morfologia urbana, lo è altrettanto poiché in grado – almeno in potenza368 – di assorbire all’interno della sua struttura politica le stirpi italiche. Queste ultime rappresentano, nell’ottica della coniuratio

Italiae e del ruolo sempre più centrale attribuito alla penisola e alla sua capitale da Augusto,

il fondamento ineludibile per la conquista ecumenica romana.

366 Non a caso, i sostenitori di Cicerone gli riconobbero l’appellativo di parens patriae (CIC.Pis. 6; PLIN.NH 7,

117; pater: CIC.Sest. 121; JUV.Sat. 8, 243-244; PLUT.Vit.Cic. 23, 3) mentre i detrattori quello di Romulus Arpinas (PS.-SALL.Inv. in Cic. 7; cfr. CIC.Cat. 3, 2). Vd. HAVAS 2000e, in generale, CLASSEN 1962.

367 Sulla centralità del tema in età augustea e sulla sua comparsa all’interno della produzione letteraria coeva

vd. CRESCI MARRONE 1993, 225-234.

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Nel VI libro dell’Eneide è Anchise a farsi latore di questa profezia: con gli auspici di Romolo la gloriosa e nobile (incluta) Roma, feconda di eroi, “uguaglierà il suo dominio alla superficie della terra e il suo spirito all’Olimpo” (imperium terris, animos aequabit Olympo) “e unica cingerà di mura i sette colli”. In questo passaggio sembra ancora più evidente la volontà di delimitare in termini spaziali non solo la città in sé e per sé ma anche la sua più alta emanazione, e cioè l’autorità ecumenica di Roma. Questa troverà i suoi limiti nella superficie terrestre e nella sede degli dei, sacralizzando per la prima volta la corrispondenza – o stretta interconnessione – tra eternità spaziale e temporale, tra espansione orizzontale ed estensione verticale369, tra perpetuazione dell’urbs e dell’imperium (oltre che dell’imperator). Come ha sostenuto Robert Turcan, infatti, è proprio in età augustea che si sostanzia questa ideale coincidenza in cui il principe “tend a s’annexer quelque chose de l’eternité de Rome”370 (accogliendo nella sua dimora il fuoco di Vesta, presiedendo ai giochi secolari del 17 a.C.371) e si fa garante – in subordinazione agli dei e in particolare ad Apollo372 – di questa aeternitas spazio-temporale. L’eternità di Roma che “ne signifie éternité trascendentale ou absolue, mais renaissance, rénovation ou perpétuation dans le monde et dans l’histoire”373 risiede infatti, intrinsecamente, nella sua fondazione augurale e nella sua rifondazione augustea. Non a caso, nella celebre seduta del 16 gennaio del 27 a.C., Ottaviano riceveva il titolo di Augustus fortemente connesso con l’augustum augurium374 – l’atto auspicale della fondazione di Roma – e perciò, sostanzialmente, con Romolo e con l’attributo di nuovo fondatore375.

L’idea di Roma e la sua realizzazione urbana, quindi, si muovono di pari passo con la concretizzazione dell’impero nella consapevolezza che Giove non vi aveva posto limiti né di durata né di potenza (nec metas rerum nec tempora), concedendo ai Romani un imperium

sine fine376.

369 Che in ambito romano l’espansione spaziale dell’urbs (sia in senso orizzontale che verticale) contribuisca

alla creazione del mito della sua magnitudo lo dimostra anche la testimonianza pliniana (PLIN.NH3,66-67):

Eiusdem spatium mensura currente a miliario in capite Romani fori statuto ad singulas portas, quae sunt hodie numero XXXVII, ita ut XII portae semel numerentur praetereantur ex veteribus VII, quae esse desierunt, efficit passuum per directum XX·M·DCCLXV. Ad extrema vero tectorum cum castris praetoriis ab eodem miliario per vicos omnium viarum mensura colligit paulo amplius LX p. Quod si quis altitudinem tectorum addat, dignam profecto aestimationem concipiat fateaturque nullius urbis magnitudinem in toto orbe potuisse ei comparari.

370 TURCAN 1983, 17.

371 OV. Fast. 3, 421 ss.; OV. Met. 15, 864 ss. 372 PROP. 4, 6, 43 ss.; HOR. Car. Saec. 9-12 e 65-68.

373 TURCAN 1983, 29. Ben prima del riconoscimento ufficiale del titolo di pater patriae (2 a.C.), peraltro, si

dovette riconoscere al princeps quello ‘ufficioso’ di pater urbium (vd. HOR.Car. 3, 24, 27, componimento

generalmente datato tra il 31 e il 28 a.C.).

374 ENN. Ann. 502V2; VERG. Aen. 7, 133 (SERV. ad loc.). Vd. anche SUET. Aug. 7 e OV. Fast. 1, 609.

375 Sull’attribuzione dell’appellativo di Augustus a Ottaviano in alternativa a quello di Romulus vd. TODISCO

2007 e sul valore sostanzialmente passivo del termine vd. MORANI 1984.

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La medesima intenzione – sebbene con un evidente spunto polemico – muove d’altronde anche Properzio in El. 3, 11. Nell’elegia legata al trionfo aziaco, l’Umbro si domanda come sia stato possibile che la città che si erge alta sopra i sette colli (septem urbs alta iugis) e che regge tutto il mondo (toto quae praesidet orbi) abbia potuto temere le minacce dell’innominata e innominabile Cleopatra. L’impiego – quasi simultaneo rispetto all’elaborazione virgiliana – del fortunato “espediente paronomastico” dell’urbs/orbis è qui, secondo Giovannella Cresci Marrone377, spia inequivocabile della sostanziale e progressiva identificazione tra capitale e ‘mondo’.

Tale sovrapposizione, che vede i suoi prodromi nella decisiva vittoria di Azio, inizia a diventare palese – insieme alla vocazione ecumenica di Roma – a partire dal fantomatico 22 a.C. (anno presumibile della stesura di El. 3, 11 ma anche della lettura – di fronte ad Augusto – del VI libro virgiliano) e troverà le sue manifestazioni più convinte in seguito alla restituzione delle insegne partiche tanto che

tra il 20 e il 10 a.C., il primato di Augusto, coniugato ai tratti della conquista ecumenica, finisce per divenire un elemento topico nel mondo intellettuale del consenso e un tributo immancabile nelle dediche al principe destinate a favorire la circolazione del prodotto letterario378.

È oltremodo interessante evidenziare ancora una volta quanto l’idea di aeternitas spazio- temporale sia continuamente collegata, in questi autori, ad una precisa e determinata limitazione degli spazi urbani di Roma che Properzio, per esempio, definisce chiaramente in relazione alla sua altezza e alla sua peculiarità orografica ma anche rispetto al suo confine murario.

Le mura di Roma, infatti, fondate e protette dagli dei (haec di condiderant, haec di quoque

moenia servant), nutrite con il latte della lupa di Marte (Appendice 27P), non devono temere

la scellerata regina che le ha chieste in dote all’obscenus marito (Appendice 12P) bensì solo Giove (Appendice 17P). L’elogio properziano della lupa optima nutricum delle mura, e quindi della potenza (res Romanae), di Roma è prezioso in questo contesto perché – oltre a definire in maniera chiara l’oggetto del canto properziano nel libro IV, in relazione al ruolo del poeta di novello Amfione e novello Enea (moenia namque pio conor disponere versu)379

377 CRESCI MARRONE 1993, 241.

378 CRESCI MARRONE 1993, 242. Sulla fortuna di questo “slogan” vd. OV. Ars am. 1, 173-174; Fast. 2, 684-

685: Gentibus est aliis tellus data limite certo / Romanae spatium est Urbis et orbis idem.

379 Nel preludio a quella che è stata definita una sorta di “anti-recusatio” (GÜNTHER 2006, 361), Properzio

dichiara di mettere a disposizione della patria il suo esiguo canto (parvus). Il poeta sembra però pienamente consapevole del ruolo giocato dalla poesia che si accinge a scrivere nella ‘costruzione’ e nella ‘crescita’ del mito cittadino, tanto da arrivare ad impiegare – proprio in riferimento ad essa – il verbo tecnico disponere e

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– evidenzia l’origine divina dei mitici gemelli fondatori ma anche “il carattere bellicoso dei discendenti della lupa”380.

Nel libro I dell’Eneide, non a caso, la preconizzazione dell’imperium sine fine è anticipata dalla imprescindibile fondazione romulea di Mavortia moenia (Appendice 12V) – forse una reminiscenza enniana381 – che, come abbiamo accennato, generalmente vengono definiti

magna (Appendice 13V, 14V).

Il richiamo a Roma come “città di Marte” non è isolato nel poeta mantovano che ricorre all’aggettivo Mavortius in riferimento all’Urbe anche nella parte conclusiva del VI libro della saga eneadica (Appendice 17V). In questo caso, però, il cenno al divino predecessore della stirpe non rimanda più alla città nel suo atto costitutivo bensì alla futura – agli occhi di Anchise – Roma augustea che potrà vantarsi di aver dato i natali al valoroso Marco Claudio Marcello.

La continuità di questo epiteto – che amplifica la sua valenza ponendosi anche in relazione con il successivo campus382, sede delle tristi esequie del giovane – è tanto più interessante se si tiene in considerazione la volontà di Anchise e di Virgilio (nonché di Ottaviano/Augusto) di identificare proprio nella figura del nipote/genero del princeps – strappato al suo glorioso destino da una morte prematura – il miglior germoglio della terra romulea e la maggiore speranza della stirpe iliaca383. In una sorta di ininterrotta prosecuzione del suo destino marziale, l’Urbe fondata da Romolo per essere assegnataria di un dominio infinito ne sancisce l’effettiva realizzazione attraverso figure come quella di Marcello. D’altra parte, se si vuole riferire non solo a Lavinio ma, per estensione, alla medesima Roma il passaggio del libro XI in cui Drance dichiara il suo sostegno ai Troiani (Appendice 25V), la mole delle mura cittadine viene definita fatalis, pericolosa e mortale esattamente come il dardo di Enea in Aen. 12, 919. In questi versi, infatti, l’anziano latino non solo si fa patrocinatore delle istanze di pace sostenute da buona parte dei suoi concittadini ma, quasi consapevole dell’ineludibile destino a cui le terre italiche sarebbero andate incontro, si dichiara anche felicemente disposto a fornire tutto l’aiuto necessario per elevare la nuova città caricando le spalle dei Latini con i saxa Troiana.

L’immagine proposta da Virgilio è straordinaria e rimanda, ancora una volta, non solo alla messa in opera delle mura cittadine come atto fondativo imprescindibile per un’entità urbana

l’aggettivo pius (rimando immediato al contesto virgiliano). Sulle molteplici valenze legate all’impiego di

disponere (cfr. LUCR. 1, 52; 3, 420) in questo contesto vd. GAZICH 1995, 299-310.

380 FEDELI,DIMUNDO,CICCARELLI 2015, 262. 381 MOUNTFORD 1929.

382 Sulla possibile doppia dipendenza di Mavortis da urbem e da campus cfr. NORDEN 1916, ad loc. e

CONINGTON,NETTLESHIP 1881-1883,ad loc.

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ma anche alla radicata matrice troiana384 – pienamente realizzabile solo con il decisivo contributo latino – della città di Roma. Quest’ultima è, anche materialmente, novella Troia in quanto eretta da Troiani con saxa Troiana, macigni che potranno rendere celebre l’Urbe così come avevano eternato la mitica, e a lungo impenetrabile, città microasiatica385.

Sebbene paradossale, non potendosi ipotizzare per Roma (né per Lavinio o Alba Longa) l’effettivo reimpiego del materiale edilizio troiano, lo scorcio proposto da Drance sostanzia l’idea secondo la quale, in certa misura, le mura erette da Enea (e dai suoi discendenti) in Italia sarebbero intrinsecamente composte della medesima ‘sostanza’ in cui erano state realizzate le opere difensive di Troia.

Il fecondo contesto sotteso ai saxa Troiana sembra trovare peraltro conferma nel dialogo tra questi versi del libro XI e la drammatica descrizione dell’imminente caduta di Ilio in Aen. 2, 608-612. Qui, infatti, Venere dipinge una scena dalle tinte apocalittiche nella quale non è difficile riconoscere un ideale richiamo alle parole dell’ambasciatore latino:

hic, ubi disiectas moles avolsaque saxis saxa vides mixtoque undantem pulvere fumum, Neptunus muros magnoque emota tridenti fundamenta quatit totamque a sedibus urbem eruit.

Lo scenario è desolante: Nettuno sta letteralmente frantumando le opere in muratura di Troia e ormai la città è ridotta a cumuli di macigni spezzati e blocchi sconnessi, avvolta da polvere mista a fumo386. I saxa Troiana, però, seppur divelti dalla loro sede originale e ormai ridotti a misere macerie troveranno idealmente nuova vita in nuove e più potenti mura.

La continuità ideale tra Troia e Roma sembra palesarsi, d’altronde, anche nella ricorrenza, in Omero così come in Virgilio, Orazio e Properzio, di epiteti che definiscono le due realtà urbane in maniera del tutto analoga. Seppur fortemente topici, infatti, aggettivi come εὔδμητος (ben costruito), ἐυτείχεος (ben munito, con buone mura), εὔπυργος (dalle belle e forti torri, ben turrito), ὀφρυόεσσα (edificato su alture, eccelso) ma, soprattutto, μέγας con riferimento non tanto all’estensione ma all’altezza e alla massa/densità della città387, sono stati identificati, nel contesto iliadico, come esclusivi di Troia388.

384 PROP.4, 1, 87: Troia cades, et Troica Roma resurges.

385 Per l’identificazione di Troia con le sue mura vd. CVA I tavv. 9-12.

386 L’immagine di Troia abbandonata torna anche in HOR. Car. 3, 3, 37-44 (Appendice 33H). 387 HOM.Il. 16, 448: ἄστυ μέγα Πριάμοιο.

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La straordinaria corrispondenza con gli epiteti riconosciuti fino a questo momento a Roma dai poeti del circolo è sicuramente interessante e, oltre a porre in evidenza un frequente ricorso ai nessi formulari, non può che far riflettere. Tenendo in debita considerazione il fatto che, nell’Eneide, per ben tre volte389, Troia viene definita città ‘alta’ in relazione alle sue mura (Troiae sub moenibus altae) e la stessa Roma compare, per la prima volta nell’epica virgiliana, con le medesime caratteristiche (altae moenia Romae)390, non si vorrà qui negare l’ampia diffusione di questa topica descrittiva per i centri urbani dell’antichità ma porre anche in rilievo la strettissima e consapevole sovrapposizione del nascente modello romano, rispetto al consolidato prototipo troiano-omerico391.

Secondo quanto fatto asserire perentoriamente a Giunone da Orazio nella terza ode romana, però, Roma è entità chiaramente autonoma rispetto alla patria di Enea ed anzi vedrà garantita la sua (eterna) sussistenza fintanto che di Troia rimarranno le sole ceneri392. Il duplice e ambiguo atteggiamento nei confronti della “città ancestrale” dei Romani è evidente, d’altronde, nella medesima politica augustea. Insediando una colonia di veterani nella regione troiana393, infatti, il princeps non sceglie come sede Troia ma Alessandria Troade la cui fondazione “aveva una chiara funzione apotropaica, utile a scongiurare qualsiasi potenziale catastrofe separando chiaramente Roma dalle sue origini orientali e valorizzando il suo ruolo dominante nel Mediterraneo orientale”394.

La necessaria cesura con Troia, che trova la sua giustificazione storica nel ruolo dominante concesso da Ottaviano/Augusto alla Penisola e alle popolazioni italiche nella creazione della potenza romana395, è in fondo la matrice stessa del sistema ideologico che si pone alla base dell’Eneide. Qui, infatti, Virgilio, nell’erudito intento di fondere le diverse tradizioni relative alle origini di Roma, non nega il fondamentale apporto troiano ma mette costantemente in

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