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9. A REE ‘ PERIFERICHE ’

9.2 V ELABRO , F ORO B OARIO E C IRCO M ASSIMO

A dominare la scena della depressione tra Campidoglio e Palatino che si estendeva fino alle rive del Tevere è, in due dei tre autori del circolo, la figura di Eracle e del suo mitico approdo a Roma. È, infatti, una storia di ormeggi quella del Velabrum843 e del forum

Boarium che si affacciavano nel punto di più facile attracco per chi risalisse il Tevere dalla

sua foce. Non a caso, già in una fase preurbana, proprio in quest’area si svilupparono gli intensi traffici legati al commercio del sale in direzione della Sabina.

Nell’immaginario virgiliano, Enea giunge a Roma esattamente in prossimità di questa conca, paludosa per le acque provenienti dall’Argiletum e circondata da boschi rigogliosi. Mentre Evandro e i suoi Arcadi sono riuniti ante urbem in luco844 per svolgere i riti in onore dell’Anfitrioniade, quindi, l’agnizione degli esuli troiani non può che avvenire attraverso il fogliame: ut celsas videre rates atque inter opacum / adlabi nemus et tacitis incumbere

remis / terrentur visu subito (Appendice 58V). Lo scorcio perturbante delle alte navi che, su

remi silenziosi, attraversano il bosco rende perfettamente la visuale oscurata degli Arcadi rispetto alle sponde del fiume.

La zona è rappresentata come irregolare nella sua morfologia (Pallante si rivolge a Enea da un tumulus) ma ben definita nelle sue caratterizzazioni essenziali: circondata da un nemus e dai colles (Appendice 60V). L’idea di una pianura cinta dagli elementi vegetali e orografici, d’altra parte, è resa bene anche dall’uso dei verbi (il bosco consonat e i colli resultant) che conferiscono all’area quasi la forma di una scaena teatrale alla quale i monti corcostanti (Aventino, Palatino e Campidoglio) fanno da cavea.

Nell’ottavo libro del Mantovano il paesaggio del Velabro si connota immediatamente anche per la peculiare densità cultuale. Sono diverse, infatti, gli altari collocati nella zona prospiciente il Tevere (Appendice 61V) ma tra questi spicca sicuramente l’ara, posta nel bosco (luco statuit), quae maxima semper dicetur nobis et erit quae maxima semper (Appendice 59V). Nella definizione dell’altare monumentale dedicato al culto di Eracle si ripetono due degli elementi icastici della grandiosità auspicata della Roma augustea. L’antichissima ara è infatti maxima, ex magnitudine fabricae845, ma la sua magnificenza è tale anche perché riconnessa alla sua eternità nel senso tutto romano di una

843 La cui estensione iniziale – che doveva andare dallo sbocco dell’Argileto sul Foro Romano fino alle pendici

dell’Aventino – subì un progressivo ridimensionamento.

844 SCHOL. VERON. ad Aen. 8, 104: ‘Ante urbem in luco’. In eo loco dicit, qui nunc Velabrum dicitur. Id enim

est lucus Herculi sacratus in quo postea Hercules aram Maximam consecravit.

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perpetuazione/continuità che si dipana tra passato e futuro (semper dicetur … erit …

semper). L’impiego del superlativo, se contestualizzato nella realtà del paesaggio ‘urbano’

della Roma evandrea, è tanto più significativo perché marca una sorta di separazione tra la straordinaria maestosità dell’ara e la povera dimora del sovrano. Una povertà, quella evandrea, che però non è miseria priva di scampo bensì valorosa modestia, preludio necessario e imprescindibile per la realizzazione di una maxima Roma.

La nona elegia del IV volume properziano si costruisce, notoriamente, proprio sul modello virgiliano anche se nell’opera dell’Assisiate l’attenzione alla topografia della Roma arcaica (in funzione etimologica) è decisamente elemento centrale nello svolgimento poetico. Il

Velabrum dove Eracle intende far riposare i suoi buoi (e riposare egli stesso) è il luogo

presso il quale la pianura ristagnava e dove il traghettatore (nauta) veleggiava (velificabat)

per urbanas aquas (Appendice 80P).

La presenza del nauta e l’evidente dipendenza etimologica – almeno nella concezione properziana – di Velabrum da velificare mostra come il poeta scelga, fra le due tradizioni trasmesse da Varrone, quella che legava l’origine della pianura alle operazioni di traghettamento a pagamento846. Il paesaggio dipinto da Properzio è sorprendentemente rispondente a quello che doveva essere l’aspetto della valle del Velabro – o di una sua parte cospicua – durante i periodi di piena del Tevere847.

La pianura tra Campidoglio e Palatino, infatti, si trovava a soli 5-6 m s.l.m., posizione che la esponeva a subire le ingiurie del vicino corso d’acqua ogni qual volta si fosse verificato un fenomeno esondativo. Il dato è confermato dal fatto che già per una fase preromulea si ricorda l’esistenza di un sistema di collegamento nautico tra l’Aventino e le pendici nord- occidentali del Palatino848.

La navigazione, però, non era sempre possibile e non tutta la valle del Velabro, almeno a partire dalla seconda metà dell’VIII secolo a.C., era soggetta a questo genere di allagamenti849. Come è stato messo in luce da Albert J. Ammerman e Dunia Filippi, infatti, già all’epoca dei primi lavori posti in atto per l’allestimento della piazza del foro Romano si procedette a un riempimento dell’area più a nord-est con tremilacinquecento metri cubi di

846 VARRO Ling. 5, 43. Tibullo opta, invece, per la dipendenza di Velabrum da vehere (trasportare), TIB. 2, 5,

33-36. Una immagine non dissimile rispetto a quella suggerita da Properzio è in OV. Fast. 6, 405-406. Cfr. anche Ov. Fast. 2, 391; 6, 401.

847 Allagamenti che potevano arrivare a coinvolgere la via Appia. CIC. Quint. 3, 7, 1 (54 a.C.): Romae et

maxime in Appia ad Martis mira proluvies. Crassipedis ambulatio ablata, horti, tabernae plurimae. Magna vis aquae usque ad piscinam publicam.

848 VARRO ling. 5, 43; PLUT. Vit. Rom. 5, 4. Proprio questa condizione di liminalità e la presenza di zone

paludose – all’angolo nord-occidentale del Palatino – fecero sì che perlomeno sul versante palatino dell’area si sviluppassero diversi culti dalla precipua connotazione infera (FILIPPI 2005, 95-96).

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terra. Ciò portò a un innalzamento del piano di calpestio (fino a circa 8 m s.l.m.)850 che ridusse sensibilmente il rischio di allagamenti stagionali in questa sezione851.

Il fatto che, già a partire dal periodo di fondazione, non tutta la pianura compresa tra Campidoglio, Palatino e Aventino fosse propriamente navigabile durante i fenomeni alluvionali potrebbe spiegare la persistenza – testimoniata da Varrone852 – di un Velabrum

maius, esposto alle esondazioni del Tevere, e di uno minus poi risparmiato da questi

fenomeni853. Come sappiamo dall’erudito, infatti, il minus era la parte di bassura che si spingeva più all’interno del centro romano, fino alle soglie dell’Argileto (del quale raccoglieva le acque insieme a quelle sorgive provenienti dal Campidoglio), mentre il maius si estendeva fino a raggiungere le pendici dell’Aventino854. La suggestiva ipotesi, peraltro, potrebbe giustificare l’impiego properziano del plurale Velabra che non sarebbe da interpretare come una forma ellittica ma piuttosto come il retaggio di una realtà toponomastica definitasi attraverso il differente grado di alluvionabilità dell’area855.

Un’altra breve considerazione sull’aderenza della descrizione dell’Assisiate alla realtà geomorfologica del Velabrum merita di essere fatta. Gli studiosi che si sono occupati recentemente della ricostruzione dell’area, infatti, hanno messo in evidenza come il costante deflusso delle inondazioni tiberine impedisse di vedere nel Velabro una vera e propria palude se non per aree molto circostritte856 … smentendo così le testimoninaze degli autori augustei ma, soprattutto, certa storiografia moderna857. Principali imputati di questo ‘processo’ sono stati Varrone e Properzio, accusati di aver contribuito alla costruzione di una sorta di ‘mito’ topografico del Velabro paludoso. In realtà, però, almeno per quanto riguarda l’Assisiate, l’idiosincrasia tra l’antica realtà geomorfologica della depressione del

Velabrum e la sua percezione letteraria potrebbero non risultare così insanabili.

850 FILIPPI 2012, 151.

851 A segnare il limite di massima infiltrazione delle acque, come sappiamo dallo stesso Properzio, si trovava la

statua del dio Vertumno, collocata all’altezza di una repentina deviazione della Cloaca Massima così realizzata per spezzare l’onda di piena (PROP. 4, 2, 7-10; OV. Fast. 6, 409-410). F. GUIDOBALDI, C. ANGELELLI, s.v.

Velabrum, in LTUR, V, Roma 1999 (in part. pp. 102-108 e 107).

852 VARRO Ling. 5, 156: Lautolae ab lavando, quod ibi ad Ianum geminum aquae caldae fuerunt. Ab his palus

fuit in minore Velabro, a quo, quod ibi vehebantur lintribus, velabrum, ut illud maius de quo supra dictum est.

853 F. GUIDOBALDI, C. ANGELELLI, s.v. Velabrum, in LTUR, V, Roma 1999, (in part. p. 103). 854 VARRO Ling. 5, 43-44. Vd. COARELLI 2012, 65-73.

855 FEDELI, DIMUNDO, CICCARELLI 2015, 1124.

856 FILIPPI 2005, 96: “il dinamismo provocato dall’entrata e uscita delle acque, impediva la formazione di un

habitat paludoso. L’unica zona, nel tratto indagato tra la futura basilica Aemilia e il fiume, in cui è stata documentata la presenza di sedimenti prodotti da acque stagnanti è quella presso l’angolo sud-occidentale del Palatino, precisamente sotto la chiesa di S. Anastasia (quindi vicino al Lupercal)”. Il fatto che la zona non fosse completamente paludosa sembra peraltro essere confermato dalla precoce frequentazione del sito con scopi commerciali. Le parziali e stagionali esondazioni del Tevere, infatti, potevano limitare l’impianto di strutture residenziali ma non la percorribilità dell’area.

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Se, infatti, Varrone fa esplicito riferimento a una palus, l’impiego properziano di stagnabant (che implica la percezione di immobilità e richiama stabulis del v. 2 e statuit del v. 4) si colloca in netto “contrasto ossimorico” con l’evidente idea di movimento etimologicamente concentrata sia in flumen che in Velabra (in quanto, come si è detto, ricollegato a velabrum

facere)858. L’immagine di una zona stagnante, quindi, per il forte nesso etimologico sotteso

all’idea del riposo erculeo, perde di per sé qualsiasi valenza di indicatore geomorfologico per assumerne uno esclusivamente eziologico. Qualora poi si volesse attribuire alla scelta verbale di Properzio una valenza consapevolmente topografica, non si potrà dimenticare che l’immobile stagnare è posto in netta opposizione rispetto alla dinamicità del vicino flumen: è possibile che nell’Assisiate – diversamente dalla fonte varroniana – esistesse la consapevolezza di una duplice natura del Velabrum, solo stagionalmente soggetto a inondazioni che lo rendevano, seppur per brevi periodi, navigabile (aspetto dinamico) e paludoso per una parte perimetralmente circoscritta (aspetto statico)?

Una migliore comprensione della complessità geomorfologica dell’area da parte di Properzio potrebbe emergere anche dal v. 20 della medesima nona elegia del IV libro, dove il poeta si riferisce alla futura sede del mercato del bestiame come agli arva Boaria, una zona pianeggiante e asciutta. È qui che i buoi erculei sanciscono il celebre toponimo con i loro muggiti (boare), mentre il dio vaticina la futura grandezza di quello che allora era un semplice pascolo: nobile erit Romae pascua vestra forum (Appendice 81P).

Significativo in questo senso è anche il riferimento all’aridità dei luoghi che circondano Eracle dopo la conclusione della lotta con Caco che Properzio ambienta – diversamente da Virgilio – sul Palatino pecorosus859: terraque non ullas feta ministrat aquas. È questo certamente un paesaggio funzionale all’introduzione del topos del dio assetato e, conseguentemente, all’aition del culto di Bona Dea, ma non si potrà non notare un netto distacco rispetto all’immagine con cui Properzio, aprendo l’elegia, aveva descritto quegli stessi luoghi tra Palatino e Aventino.

Il testo properziano si conclude, come doveroso, con la consacrazione dell’ara Maxima da parte di Eracle che per il poeta è resa maxima per il fatto stesso di essere stata eretta dalle mani del dio (Appendice 82P)860.

858 Così FEDELI, DIMUNDO, CICCARELLI 2015, 1126.

859 Appendice 75P. Sulle ragioni etimologiche (Palatium < balare) che, anche in queto caso, muovono la scelta

properziana cfr. VARRO Ling. 5, 53 e FEST.245, 3-5L.

860 Che Ercole stesso abbia eretto l’ara è sostenuto anche da LIV. 1, 7, 11; OV. Fast. 1, 587 e, diversamente da

quanto pensa Servio, da VERG. Aen. 8, 268-272 (cfr. SERV. ad Aen. 8, 268-272 dove si sostiene che il Mantovano avrebbe alluso alla fondazione del culto da parte di Potitii e Pinarii). Per DION. HAL. Ant. Rom. 1, 40, 2-4 fu Evandro a istituire il luogo di culto (cfr. TAC. Ann. 15, 41).

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È il solo Orazio a fornire uno scorcio, seppur suggestivo, dell’area del Velabrum (qui al singolare) così come doveva apparire in età triumvirale, ristretto tra il vicus Tuscus e l’area del foro Boario. Nel sermo dominato dalle figure di Stertinio e Damasippo, la mitica sede degli approdi virgiliani e properziani appare in tutta la sua misera realtà. Ormai il Velabro è associato, per la sua forte caratterizzazione commerciale, alla zona emporica prospiciente il Tevere. Qui, fin dalla tarda età repubblicana, si raccolgono olearii ma anche macellai, fornai, indovini e lenoni861, mentre per l’età imperiale non mancano attestazioni epigrafiche relative all’esistenza di un negotiator penoris et vinorum862, argentarii863, un

margaritarius864, un [a]urarius865 e un [th]urarius866.

Così, quando l’arricchito (e lussurioso) Nomentano invita a casa sua tutta la marmaglia di Roma non possono mancare l’impia turba del vicus Tuscus e tutti i venditori del Velabrum (Appendice 115H). Insieme con loro, alla dimora dell’ospite giungeranno pescatori, fruttivendoli, uccellatori, profumieri, parassiti e pollaioli. Si tratta, non a caso, degli esponenti delle professioni più degradanti di Roma, giacchè destinate – secondo Cicerone – a soddisfare i frivoli piaceri materiali dell’uomo (ministrae sunt voluptatum)867.

Relativamente alle attestazioni di riferimenti attribuibili in maniera dubbia alla macro-area ‘Velabro - Foro Boario - Circo Massimo’, se ne sono individuati sostanzialmente due tipologie:

- quello ai templa Pudicitiae in Prop. El. 2, 6 (Appendice 83P);

- le diverse allusioni a corse di carri e aurighi contenute in Hor. Ser. 1, 1 (Appendice 116H), Verg. G. 1, 511-514 (Appendice 62V) e 3, 103-112 (Appendice 63V), Verg.

Aen. 5, 144-147 (Appendice 64V) e 8, 635-637 (Appendice 65V) e in Prop. El. 4, 2

(Appendice 84P).

Per quanto concerne il riferimento properziano all’inutile erezione di templi dedicati alla Pudicizia, l’infinito perfetto statuisse è stato variamente interpretato sia come riferimento (in senso più proprio) ad un passato imprecisato, sia (con valore di aoristo) al presente augusteo con implicita allusione ad una sfiducia del poeta nei confronti della restaurazione dei templi e dei costumi patrocinata dal princeps868. Per quanto riguarda l’eventuale intervento di

861 PLAUT. Capt. 489; Curc. 482-484. Una doppia fila di ambienti sotterranei, rinvenuta nell’area, è stata messa

in relazione con i magazzini di queste attività (BARIVIERA 2012, 428).

862 CIL VI 9671 = ILS 7487. Un altro vinarius in CIL VI 9993 = ILS 7485. 863 CIL VI 9184.

864 CIL VI 37803 (un venditore di perle). 865 CIL VI 33933.

866 CIL VI 467 = AE 1893, 49. Vivide per questa fase sono le testimonianze contenute in IUV. Sat. 6; MART.

Epigr. 11, 52, 10; 13, 32, 1-2.

867 CIC. Off. 1, 150 che cita anche TER. Eun. 257. 868 FEDELI 2005, 209-210.

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Augusto sui due luoghi sacri destinati alla dea a Roma (uno sul Viminale e l’altro, appunto, nel foro Boario) non è, però, pervenuta alcuna notizia.

Permanendo molti dubbi, quindi, relativamente al fatto che in El. 2, 6 l’Assisiate potesse alludere ad una concreta realtà urbana, si è scelto di collocare in questa sezione il riferimento per due ordini di ragioni. Innanzitutto il fatto che il poeta abbia impiegato il termine templum, attestato solo in relazione alla sede della Pudicitia Patricia869, e in secondo luogo per la concreta possibilità che il sacellum dedicato alla Pudicitia Plebeia870 sul Viminale possa essere, in realtà, una duplicazione eziologica dovuta a Livio871.

Relativamente ai cenni – spesso in termini metaforici – a non meglio precisate corse di carri e cavalli, non sembra possibile andare oltre la pur plausibile ipotesi che siano stati in qualche maniera ispirati dai ludi ambientati nel circus Maximus872. La scelta di collocare tali descrizioni all’interno di questa specifica macro-area è peraltro opinabile, considerata l’attestata esitenza – per l’età presa in esame – di almeno un altro circus sul suolo di Roma. A far propendere, però, per un inserimento dei brani in questa sede è stata soprattutto l’ambivalente funzione del Circo Flaminio che, diversamente dal circus collocato nella

vallis Murcia, è sempre stato coinvolto in una serie piuttosto ampia di attività differenti,

tanto da sembrare “more similar to a forum or marketplace, rather than a racing track”873. Il suo statuto non ‘formalmente’ circense874, quindi, fa preferire questa scelta pur dovendo tenere in doverosa considerazione il fatto che, anche in età augustea, nell’area del Circo Flaminio si svolsero dei ludi, seppure di carattere occasionale875, e che quindi – volendo riconoscere un’influenza dell’esperienza urbana sulle descrizioni degli autori in analisi – non si può escludere che esse siano state ispirate da corse ammirate in quest’altra sezione cittadina.

Secondo alcuni commentatori, a deporre a favore dell’idea che le descrizioni circensi siano frutto di una esperienza diretta degli autori sarebbero, soprattutto, tre elementi: la consistente presenza di termini tecnici (auriga; currus; carceres), l’uso di formule fortemente espressive

869 LIV. 10, 23, 5 (templum); 10, 23, 3 (sacellum); FEST. 282L (signum). Vd. anche JUV. Sat. 6, 307.

870 LIV. 10, 23, 5-10 (modicum sacellum); FEST. 270L (sacellum). Sulla sua erezione per volontà della matrona

Virginia nel 296 a.C. vd. LIV. 10, 23, 9-10.

871 Sulla questione NATHAN 2003.

872 L’edificio compete a questa macro-area in quanto la vallis Murcia, al cui interno si colloca, rientra nel

contesto del Velabrum ampiamente inteso.

873 G. PETRUCCIOLI, s.v. Circus Flaminius, in MAugR, Portsmouth 2002. 874 Cfr. WISEMAN 1974;ZEVI 1976,1047-1050.

875 CASS. DIO 55, 10, 7-8 riporta che Augusto, in occasione dell’inaugurazione del tempio di Marte Ultore (2

a.C.), allestì due venationes. La prima, svoltasi presso il Circo Massimo, avrebbe previsto l’impiego di 260 leoni, la seconda – nel Circo Flaminio appositamente riempito con l’acqua del Tevere – quello di almeno 26 coccodrilli (per questo genere di spettacoli vd. LO GIUDICE 2008). Vd. anche VAL. MAX. 1, 7, 4; LIV. 2, 36 e VARRO Ling. 5, 154 che ci informa relativamente ai ludi Taurii.

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(come la sineddoche oraziana ungula per equus) e il ricorrere di elementi spiccatamente visivi. Emblematici in questo senso sono, in particolare, i brani virgiliani dove si riscontra un uso sapiente dei verbi di percezione proprio ad accentuare la visualizzazione delle gesta narrate (nonne vides; consonat; resultant)876.

A ben vedere, però, l’estrema topicità del tema – per il quale il modello è sicuramente omerico877 – genera una certa ripetitività nelle immagini proposte dagli autori. Virgilio, per esempio, riprende praticamente ad verbum sè stesso in G. 3, 103-104 e in Aen. 5, 144-145, mentre la dipendenza di Orazio da Ennio è ormai acclarata dalla critica878.

Se vale la pena soffermarsi su un aspetto in particolare di queste descrizioni ‘circensensi’ tutto sommato stereotipate, merita una riflessione il differente contesto all’interno del quale la similitudine (fortemente urbana) dell’auriga e della corsa dei carri viene impiegata dai tre autori del circolo:

- in Virgilio – coerentemente con la predisposizione apocalittica del Mantovano che all’epoca della stesura delle Georgiche è particolarmente sentita – i cavalli impegnati in una corsa incontrollata sono visiva raffigurazione del folle incrudelimento delle guerre (soprattutto intestine) che coinvolgono Roma: saevit toto Mars impius orbe879; - per Orazio, invece, in quegli stessi anni, l’immagine dell’auriga che incalza i concorrenti che gli stanno davanti senza accorgersi di chi lo raggiunge beatamente dalle ultime file (risparmiandosi sterili lotte per il vertice), è l’immagine perfetta per concretizzare espressivamente la perdizione alla quale può recare una vita condotta all’insegna dell’avaritia e dell’invidia nei confronti del prossimo880;

- da ultimo, con la tipica stravaganza che lo contraddistingue, Properzio fa assumere le sembianze dell’auriga-desultor881 a Vertumno (dopo che il dio aveva già dichiarato di potersi immedesimare nelle vesti della fanciulla, del mietitore e del cacciatore ma anche in quelle di Bacco, Apollo e Fauno882) per dimostrare l’intrinseca versatilità della divinità che, infatti, deriverebbe il suo nome da vertere883.

876 DELLA CORTE 1986, 28. 877 HOM.Il. 23, 103-111.

878 ENN. Ann. 263Sk; 463-465Sk. Che, peraltro, possono aver ispirato anche Virgilio. Vd. FRAENKEL 1931,

125, n. 1.

879 Appendice 62V. 880 Appendice 116H.

881 L’immagine dell’auriga-desultor, nella sequenza properziana, compare subito dopo quella del cacciatore.

D’altra parte, venationes e corse acrobatiche (oltre che con i carri) erano spesso associate nei giochi circensi (SUET. Iul. 39, 2-3).

882 Seguono quella dell’auriga, le immagini di Vertumno nelle vesti di pescatore e pastore (PROP. 4, 2, 37-40). 883 Appendice 84P.

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Anche nel reimpiego di questa similitudine dai marcati tratti cittadini si manifestano, quindi, le forti peculiarità autoriali che inducono i tre poeti al reimpiego del contesto urbano in base alle specifiche esigenze apocalittiche, moralistiche o eziologiche.

Infine, merita un breve cenno anche lo sporadico riferimento virgiliano alla cavea affollata presso la quale, durante magni circenses, si sarebbe verificato il mitico ratto delle Sabine. Così come riprodotta sullo scudo di Vulcano, la scena sembrerebbe anacronisticamente ambientata all’interno di una struttura adibita agli spettacoli circensi. Ora, se le fonti attribuiscono alternativamente a Tarquinio Prisco884 e a Servio Tullio885 la creazione di un primo impianto ligneo nell’area che ospiterà poi il Circo Massimo nella sua forma monumentale, l’ambientazione del celebre rapimento nella vallis Murcia durante le gare ippiche in onore di Conso potrebbe spiegare lo ‘spericolato’ riferimento virgiliano886. In un’area di Roma in cui da tempo immemorabile si collocava una struttura destinata ad ospitare le gare equestri – alla cui monumentalizzazione, peraltro, Augusto contribuì con decisione887 – sembra di poter comprendere l’anacronistico riferimento di Virgilio, frutto di una sorta di inscindibilità storico-culturale tra il luogo e il suo monumentum caratterizzante che ammiccava all’auditorio dei contemporanei.

Per concludere con i riferimenti circensi, una menzione a parte meritano i due riferimenti contenuti in Hor. Ser. 1, 6 e 2, 3 che possono essere collocati – con un maggior grado di probabilità – proprio nell’area del complesso ai peidi dell’Aventino. Nel caso della terza satira del II volume oraziano (Appendice 114H), a far propendere per una identificazione del passaggio con l’edificio situato nella vallis Murcia è, innanzitutto, l’utilizzo da parte del

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