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3.1 – Da Aquileia a Grado, Nova Aquilegia “propedeutica” a Venezia

Nell’antica metropoli di Aquileia – città romana di origini quantomeno celtiche, come hanno provato vari scavi degli ultimi decenni – il Cristianesimo attecchì precocemente, dando vita a una realtà ecclesiale vivace e articolata (tuttora oggetto di studi e dibattiti)5 che a poco a poco dilatò la propria influenza dall’arco alto Adriatico all’area alpino-danubiana e oltre. Il notevole prestigio raggiunto sotto il vescovo Cromazio – poi considerato santo – coincise con l’affermarsi della primazia della Chiesa di Aquileia su oltre una ventina di diocesi, leadership confermata da papa Leone Magno con l’invito rivolto nel 442 all’antistite aquileiese Gennaro a riunire i suffraganei6.

4 MENIS 2012, p. 17, scrive: «il Patriarcato di Aquileia è l’erede diretto della Chiesa aquileiese paleocristiana» (cfr. pure ib., p. 23: «l’epoca paleocristiana era finita e si preparava un mondo nuovo. Il Medio Evo era alle porte»).

5 A tale proposito, fra i molti rinvii possibili, cfr. l’abile sintesi proposta in CUSCITO 2009.

6 Vd. PASCHINI 1990, p. 72, e MENIS 2000; ma soprattutto, su san Cromazio di Aquileia, vd. i recenti PIUSSI 2009 ePERSIC -DRIUSSI 2010. Su Leone I papa, vd. CAVALCANTI 2000.

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A una simile affermazione non poté non corrispondere pure una concretizzazione urbanistico-architettonica: così anche nella capitale della decima regio augustea Venetia et Histria sorse una residenza vescovile, almeno dal IV secolo. Per quanto verosimilmente non fosse la prima a sorgere in loco, infatti, almeno sotto quello stesso episcopus Teodoro promotore delle due famose aule cultuali parallele (cui appartenevano i grandi pavimenti musivi tuttora visibili in situ e che furono all’origine del modello della “cattedrale doppia” esportato in seguito proprio da Aquileia) si dovette far innalzare una dimora ad uso del vescovo7, che fu ben presto sostituita dall’episcopio eretto a ridosso del fianco nord del quadriportico antistante la basilica c.d. “post-teodoriana” settentrionale (post 345 d.C.), le cui fondamenta furono scavate appena fra il 1956 e il 19718 ma la cui struttura e la cui posizione erano state riprese più volte nei secoli e anche a distanze notevoli, come per esempio a Parenzo – meno di due secoli dopo – per l’edificazione dell’episcopio a due piani (il primo a prevalente funzione residenziale, il terreno deputato perlopiù allo stoccaggio) del vescovo Eufrasio9.

A tutto ciò si aggiunse – e fu questo, probabilmente, l’elemento più rilevante – un’autorevolezza in costante crescita, fino al punto da consentire all’ordinario dell’Ecclesia aquileiese di essere chiamato “patriarca” e di respingere le delibere di un concilio ecumenico (il Costantinopolitano II) aderendo al cosiddetto “scisma dei Tre Capitoli”10.

Pur non escludendo ufficiosi precedenti (per es. in epoca gota), i principali storiografi contemporanei hanno ritenuto che i metropoliti aquileiesi abbiano apertamente fatto uso del nuovo “titolo” proprio in seguito a quella spaccatura nella comunione ecclesiale, secondo l’ipotesi a suo tempo avanzata da Cesare Baronio (1538-1607)11: basandosi sulla missiva di papa Pelagio I al patrizio Giovanni, nella quale il pontefice criticava gli scismatici domandandosi se ai concili generali avesse mai presenziato «uno di quelli che chiamano Venetiarum atque Histriae

patriarchae», G. Marchetti Longhi, P. Paschini, G.C. Menis e molti altri hanno ritenuto12 che ciò

7 Oltre all’ipotesi che fosse adibito a funzioni residenziali qualche spazio intermedio fra le due aule di culto principali, in anni recenti lo scavo di una piccola area (“Stalla Violin”) ubicata sul lato settentrionale di piazza Capitolo ha permesso di formulare nuove congetture: è stata infatti riportata in luce una vasta sala pavimentata a mosaico, affrescata alle pareti e dotata di ampia “abside” semicircolare, ambiente che potrebbe aver fatto parte del contesto abitativo annesso al complesso cultuale “teodoriano” (vd. TIUSSI 2011 e TIUSSI - VERZÁR - VILLA 2013, pp. 65-66). Sulla cattedrale doppia teodoriana, vd. innanzitutto la sintesi proposta in PIVA 1990, pp. 36-37.

8 Vd. BERTACCHI 1972, cc. 71, 75-77, 82-83 e 86 nt. 18; EAD. 1980, pp. 223- 228 (in fig. XII, l’episcopio aquileiese è indicato dalla lettera “N”); e infine EAD. 2003, p. 56 e tav. 40, n. 131.

9 Vd. MATEJČIĆ 1995 e cfr. CUSCITO 2009, pp. 293-294. Il complesso parentino, però, fu condizionato dal non eccessivo spazio disponibile e quindi i diversi elementi risultano molto più “addossati” di quel che dovette accadere ad Aquileia: lo si nota bene anche da un semplice confronto delle piante. Non del tutto d’accordo con Matejčić e Cuscito pare RUSSO 2007, p. 80, forse perché sollecitato in tal senso dai dubbi sollevati in BERTACCHI 1985, col. 383 (difficoltà di identificare i vari elementi della struttura aquileiese e le funzioni di ognuno, nonostante l’ampiezza di dimensi di un complesso forse nato per «accrescimento graduale» e non «frutto di un programma organico», ciò che a Parenzo lo stesso Russo ha invece dimostrato).

10 Sul quale, vd. almeno PASCHINI 1990, pp. 85-122.

11 Sullo storico ed ecclesiastico nativo di Sora, vd.PINCHERLE 1964.

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fosse avvenuto per la prima volta ad opera di quello stesso vescovo di Aquileia noto come Paolo o Paolino I (557-569) che di fronte all’avanzata dei Longobardi avrebbe poi scelto Grado come “rifugio”13.

In realtà, così come la sua decisione di ripiegare sull’isola non si configurò affatto fin dalla

partenza come il preludio all’abbandono definitivo della sede eponima – ne è indiretta conferma il fatto che il successore Probino (569-571), sebbene sia normalmente ricordato per aver operato al perfezionamento della nuova sede, in realtà morì non a Grado bensì ad Aquileia14 – parimenti la decisa presa di posizione inizialmente anti-imperiale e quindi anti-romana non fu grossomodo coeva all’aumentato “rango” del presule ma nettamente conseguente ad esso. Rispetto alla tradizionale datazione, infatti, l’adozione della “qualifica” patriarcale da parte dei vescovi-metropoliti di Aquileia si può senz’altro anticipare quantomeno agli anni 532/34, come già avevano supposto non pochi studiosi fra XVI e XIX secolo, a lungo ignorati su questo punto ma finalmente ripresi e valorizzati da Vittorio Peri vent’anni or sono15. Benché a tutt’oggi molti continuino a ignorare tale risolutivo recupero per riproporre acriticamente l’inesatta cronologia prospettata da Cesare Baronio16, si deve dunque concludere che il primo Aquileiensis episcopus chiamato patriarcha dovette essere un predecessore del vescovo Macedonio (539/57), per esempio il lombardo Stefano I, di cui s’ipotizza l’insediamento fra il 515 e il 521 e si ammette la conclusione del mandato episcopale fra il 533 e l’anno seguente17, o qualcun altro prima di lui. Poiché, in ogni caso, risulta evidente che «la ricostruzione più attendibile induce a fare risalire» addirittura «al tempo del regno degli Ostrogoti in Italia ... l’attribuzione ai vescovi di Aquileia dello stesso titolo di patriarca, che quel regime riservò anche in seguito ai diversi metropoliti d’Italia»18. Dunque, lo scisma tricapitolino «esercitò sì un ruolo chiave» ma nettamente «diverso da quello tradizionalmente addotto», giacché «impedì, allontanando Aquileia dall’influsso della “Città eterna”, la sistematica azione depurativa» messa in atto dal papato, consentendo pertanto al presule aquileiese di

13 Secondo la notissima ricostruzione di Paolo Diacono (Historia Langobardorum II, 10), ripresa da tutti gli storiografi e gli storici successivi. Sul patriarca Paolo I, vd.TAVANO 2006e. Sul pontefice Pelagio I, vd. SOTINEL 2000.

14 Historia Langobardorum III, 14; cfr. PIUSSI 2000, p. 126.

15 Da Juan Azor nel 1606 a Pierre de Marca nel 1644, da Enrico Palladio degli Olivi nel 1659 a Filippo Del Torre nel 1688, da Bernardo Francesco Giovanni Maria de Rubeis nel 1740 a Giusto Fontanini nel 1758, da Gian Giuseppe Liruti nel 1773 a Francesco di Manzano nel 1858: cfr.PERI 1992, pp. 43-47 (sugli studiosi citati, vd. rispettivamente DZIUBA

1996, DUBARAT 2004, CARGNELUTTI 2009b, VILLANI 2009,VOLPATO 2009,DI LENARDO 2009, ROZZO 2009 e CASELLA

2007).

16 Si legga fra l’altro MENIS 2012, p. 25; sull’errore del cardinale frosinate, cfr.PERI 1992, pp. 42-43.

17 Per esempio MORONI 1857, LXXXII, p. 115, pone l’inizio nel 515 e data la conclusione al 539; DI MANZANO 1858, I, p. 98, posticipa l’avvio al 521 e anticipa la fine al 534; con lui quasi concorda FEDALTO 1999, p. 300, che (in sintonia anche con Lanzoni) propone il periodo 521-533.

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mantenere il «nome di patriarca, quando ormai, quasi ovunque, la» Sede petrina «trionfava, imponendo la rinuncia» ai vescovi “fedeli”19.

L’autorevole patriarca Elia (571-586/7) e il suo successore Severo (586/7-606/7)20 parvero prediligere la più recente sede insulare, arricchita della nuova basilica intitolata alla santa martire calcedoniana Eufemia, dove nel 579 si tenne il concilio cui presenziarono i rappresentanti della trentina di diocesi allora in comunione con la Chiesa di Aquileia; ma fino al 606 mai il “primato” dell’antica capitale della Venetia et Histria fu in discussione21. Quell’anno però, su pressione dall’esarcato bizantino di Ravenna, a Grado fu eletto Candidiano (606-612?), primo presule decisamente filoromano22; dall’altra parte, gli oltranzisti “tricapitolini” rimasero fedeli all’abate Giovanni (606-619), sostenuto dai Longobardi, consacrato a Cividale per reinsediarsi da episcopus nella “Aquileia vecchia” (così ridefinita per es. da Paolo Diacono23, in riferimento all’appellativo di

Nova Aquilegia attribuito a Grado24) e presto significativamente definito summus patriarcha25. In laguna a Candidiano subentrò Epifanio (612?-616), mentre in terraferma il posto di Giovanni fu preso da un successore sul cui nome le fonti non concordano, pur propendendo per l’istriano Marciano26: in ogni caso, si diede così continuità alla doppia serie dei patriarchi «di Aquileia» che ebbe come inevitabile conseguenza non solo lo “sdoppiamento” della cathedra (resosi ovviamente

19 PECORARO 1998, pp. 10-11 (alla nt. 9, l’autrice ricorda – senza citare alcuna fonte ma verosimilmente rifacendosi a PERI 1992, pp. 59-61 – che alla fine la Sede romana «giustificò il titolo di Aquileia», ma «chiamando in causa la concezione di Patriarca minore, solo in apparenza identica alla qualifica romana»).

20 Sui due presuli, vd. TAVANO 2006b e ID. 2006f.

21 Cfr. PIUSSI 2000, pp. 126-127.

22 Sul quale, vd. VILLA 2006a.

23 Historia Langobardorum, IV 33: «in Aquileia vetere».

24 Il Chronicon Gradense afferma che fu il duca Beatus di Malamocco a spingere per l’ufficializzazione del trasferimento di sede a Grado ridefinendola “Nuova Aquileia” (vd. Chronicon 1890, pp. 37-38: «quatinus Gradense castrum novam Aquilegiam insitueret et totius Venetie et Histrie metropolim faceret») verso il 574/75 ca., anche se in realtà fu forse il patriarca Elia a muoversi in tal senso pochi anni dopo (cfr. CUSCITO 1990, p. 161), benché altri pensino che fosse stata denominata analogamente già dai primi presuli trasferitisi in laguna, a partire da Paolo/Paolino I (cfr. es. l’accenno in Vitæ

Episcoporum et Patriarcharum 1780, c. 9: «Hic Paulus ... ad Gradensem Insulam se contulit, quam novam Aquilejam appellavit») e sebbene lo sia stata di certo almeno ai tempi di papa Gregorio III con esplicito rinvio al predecessore Pelagio (cfr. Epistolae Langobardicae, 14, pp. 704-705: «Nove Aquilegie id est Gradensis patriarcha» e «Gradensem civitatem ... Novam dictam fuisse Aquilegiam»); l’appellativo fu poi rilanciato dal sinodo lateranense del 1053 («ecclesiae Novae Aquileiae patriarcha»), come ricorda tra gli altri TAVANO 1992, p. 149, ritenendolo però – sulla scia di R. Cessi – una «nuova definizione» che «per una serie di cause» è stata fatta «risalire anacronisticamente fino ai tempi di Elia» (vd. però le critiche mosse a tale impostazione in COLOMBI 2012, p. 174).

25 In un’epigrafe comacina del VII sec. Giovanni è definito così dopo aver inviato il missionario aquileiese Agrippino a Como per sostenere la chiesa locale, che aveva scelto di staccarsi da Milano e diventare suffraganea di Aquileia pur di restare fedele allo scisma tricapitolino: vd. TAVANO 1992, p. 144, e PIUSSI 2000, p. 127. Sul presule, cfr. VILLA 2006b.

26 Nel pur ben articolato duplice elenco edito in TAVANO - BERGAMINI 2000, p. 415, dopo l’abbas Giovanni nominato nel 606 non è indicato alcun altro nome (mentre, in parallelo, per Grado compaiono Epifanio e Cipriano) fino alla “comparsa” di Fortunato nel 628; negli elenchi proposti da PASCHINI 1990, p. 120, o FEDALTO 1999, p. 301, l’immediato successore del primo Giovanni è chiamato Maximus; ma nelle biografie dei patriarchi di Aquileia di anonimo trecentesco (Vitæ Episcoporum et Patriarcharum 1780, c. 9), in quelle più tarde di Antonio Belloni (BELLONI 1780, c. 30), nella sintesi edita in MORONI 1857, IV, p. 116, ecc. egli è sempre riportato come Martianus/Marciano ed è spesso detto istriano.

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indispensabile da un punto di vista innanzitutto ubicativo), ma anche – ed è ciò che più conta ai fini della presente ricerca – la “moltiplicazione” delle rispettive residenze27.

La storia delle dimore dei patriarchi di Aquileia insediati a Grado e poi traslocati a Venezia esula – di per sé – dalla presente ricerca, tanto per motivi per così dire geopolitici quanto per ragioni prettamente cronologiche: da un lato, difatti, i presuli “gradesi” gravitarono sempre al di fuori dell’orbita aquileiese in senso stretto, allontanandosene infine anche dal punto di visto più propriamente geografico e in maniera definitiva; d’altro canto, malgrado l’ufficializzazione dell’acquisita “venezianità” risalga appena alla metà del XV secolo, la presenza di un palatium patriarcale nell’isola della laguna friulana fu d’importanza secondaria già dall’XI-XII secolo28. Resta tuttavia auspicabile un futuro ampliamento dell’indagine in proposito, incominciando con il completamente dell’individuazione della residenza dei patriarchi all’interno dell’isola e con l’approfondimento dello studio delle testimonianze relative al sito, dalle attestazioni documentarie ai dati di scavo archeologico, dalle reminiscenze epigrafiche ai residui toponomastici – cui s’è già accennato nel capitolo precedente – e così via.

Quello che finora si sa circa l’episcopio gradese emerse dall’indagine effettuata nel 1988 – per conto dell’allora unica Soprintendenza per i Beni Ambientali, Architettonici, Archeologici, Artistici e Storici del Friuli Venezia Giulia – dall’archeologa Paola Lopreato, che completò le informazioni raccolte combinandole con le annotazioni e i disegni di un “doppio” scavo effettuato nel secondo decennio del secolo scorso (iniziato da Abramic per conto del governo austriaco nel 1918, fu ripreso e portato a termine da archeologi italiani nel 1920) sullo stesso sito29, che in età tardoantica-altomedievale evidentemente si affacciava sulla «strada dorsale del castrum (le attuali Calle Lunga e Calle del Palazzo)», l’unica arteria viaria insulare «in cui i tre nuclei insediativi» principali «trovavano comune riferimento», essendo disposta come «una dorsale» attraversante l’intera cittadina con un «sistema viario “a pettine”»30: una vasta area prospiciente il lato sud della cattedrale di Sant’Eufemia in parte occupata dal cimitero fino all’inizio del XX secolo, al di sotto del Campo Santi Ermacora e Fortunato, della sagrestia, della scuola materna e di alcune abitazioni private, ha così restituito un complesso direttamente comunicante con la basilica e di tale estensione, in cui si sono riconosciuti «i resti del palazzo episcopale» sorto prima del vescovo Elia,

27 Circa la diversa tradizione gradese rispetto a quella aquileiese sulle cause della “divisione” e la propria giustezza, cfr. CAMMAROSANO 1990, pp. 153-154: l’a. sottolinea «l’ampia interpolazione degli atti del concilio del 579 ... corroborata dalla confezione di un altro falso» legittimante «l’attribuzione a Grado della dignità metropolitana con un decreto» attribuito a Pelagio II, sicché «quella che era stata una iniziativa papale di ammonizione e di richiamo all’unità romana diventò una» fasulla giustificazione della «traslazione di sede in favore di Grado».

28 Sull’intera questione, cfr. in particolare RANDO 1994, pp. 13-20 e 73-83.

29 LOPREATO 1988, p. 325.

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da questi ingrandito e abbellito, quindi sopravvissuto «con tarde ristrutturazioni e minor fasto fino all’età altomedievale», dopodiché fu rimaneggiato per altri usi, devastato da un incendio e infine adibito a uso cimiteriale31. Prima che l’intero complesso palatino-ecclesiale patriarcale andasse a regime, peraltro, la basilichetta di Santa Maria forse era già stata utilizzata come «cappella della villa vescovile, residenza estiva del patriarca» aquileiese32, se corrisponde al vero ciò che a distanza di molto tempo sarebbe stato ricordato durante il concilio di Mantova (827) e cioè che, prima di rifugiarvisi di fronte alla calata longobarda, «i vescovi di Aquileia erano soliti ... trascorrere l’estate» sull’isola «per sfuggire la calura»33.

Chiarita parte della storia e l’esatta ubicazione del vescovado, sussistono comunque dei dubbi non dissipati a causa di un’esplorazione inevitabilmente incompleta: è però assodato perlomeno che, trovandosi a poca distanza dalle muraglie perimetrali meridionali del castrum, l’edificio era stato «condizionato dalla disponibilità di spazio», piuttosto limitata; ciononostante, doveva essersi sviluppato su due piani e sicuramente presentava un ampio vano «corredato da pilastri» (presumibilmente la sala di rappresentanza), dotato di ipocausto «e affiancato da due ali laterali» formate da molti «piccoli ambienti di servizio»34 (quelle «cellette irregolari e oblunghe» che settant’anni prima erano state erroneamente interpretate come «una serie di umili costruzioni addossate al Duomo a detrimento dell’edificio ed estranee al tipo basilicale»)35.

Questa residenza insulare fu mantenuta in pristino dai patriarchi “gradesi” – così definiti dall’VIII-XI secolo dopo aver anch’essi ottenuto il riconoscimento della dignità patriarcale e ricevuto il pallio dal pontefice (VII secolo) – fino al momento della “migrazione” di titolo e rango nella laguna veneta, benché già dal tempo del patriarca Fortunato II (803/26) fosse venuta «meno la potenza politico-religiosa di Grado e con essa il suo dinamismo costruttivo»36: dall’XI-XII secolo – ma taluni indizi fanno pensare addirittura al X – il patriarca ormai detto tout-court «di Grado» ebbe una propria dimora nella città marciana, precisamente il grande palazzo patriarcale affacciato sul Canal Grande, contiguo alla chiesa di San Silvestro Papa e dotato di cappella palatina (Santa Maria

31 LOPREATO 1988, pp. 326-332.

32 CUSCITO 2009, p. 342 (ivi, nt. 49, l’autore correttamente assegna a Carlo Guido Mor l’ipotesi e sottolinea come la medesima funzione fu ipotizzata da Ezio Marocco per la più antica basilica gradese, quella i cui resti (scavi) sono visibili al centro dell’attuale piazza Biagio Marin, già piazza della Corte). Va ricordato che a Grado le chiese di Santa Eufemia e Santa Maria costituivano un caso anomalo di cattedrale doppia: vd. PIVA 1990, pp. 72-73.

33 CAMMAROSANO 1990, p. 142 (evidentemente rinviante, in particolare, a Concilia 1908, p. 589, rr. 9-10: «quatinus aestivo tempore ibi degentes Aquileiae pontifices possint ardorem aestatis evadere»). D’altronde, se a Grado gli Aquileiesi si erano, in parte, già temporaneamente rifugiati ai tempi di Attila, MORONI 1857, LXXXII, p. 115, vede i prodromi della duplicazione della sede almeno ottant’anni prima: «nel 484 il famoso Teodorico ... eseguì la temuta invasione; laonde Marcelliano vedendosi in pericolo ad Aquileia, si recò a stabilire la sua residenza nel castello di Grado, in cui la continuarono per più di due secoli diversi suoi successori, finché divenne altra cattedra patriarcale, distaccata da quella di Aquileia. Nel 500 diventò vescovo Marcellino romano, che ... di sovente passava da Grado in Aquileia ... Stefano I ... esercitò simultaneamente il pastoral ministero in Grado e in Aquileia ...».

34 LOPREATO 1988, pp. 332-333.

35 LOPREATO 1988, p. 325, riprendendo parole di Guido Calza (1920).

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de’ Patriarchi, altrimenti detta “Oratorio d’Ognissanti”) e altri annessi edilizi a riempire l’insula

realtina cui è stata di recente dedicata una notevole monografia di taglio primariamente architettonico, partita dai pionieristici studi documentali di Wladimiro Dorigo37. Quest’ultimo aveva già ampiamente dimostrato le ragguardevoli dimensioni del palatium citato come tale almeno dal 1164 (nel 1070 domus maior con solarium e cum caminatis), nel quale i prelati risiedettero dapprima «almeno di quando in quando» (es. in Rivoalto erimus, 1093), dopo il 1156 «con carattere di stabilità» e dal 1177/78 ca. potendo pure contare sulla «prima attestazione della disponibilità pontificia ad autorizzare la residenza stabile a Venezia» dei presuli stessi, mentre «i canonici verosimilmente continuarono a officiare in S. Eufemia di Grado»38.

Patriarca «di Venezia» de facto, il presule gradese diventerà tale pleno jure solo nel 1451, allorché papa Nicolò V – con la bolla Regis aeterni – sopprimerà il titolo Gradensis trasferendolo al “nuovo” presule39: questi, insieme a tutte le proprietà e i diritti della Chiesa gradese, erediterà anche la residenza “silvestrina”, che però presto allivellerà a terzi (nel 1486 i confratelli della Schola di San Rocco vi fissarono la loro prima sede) decretandone l’inizio della fine, dopo averle fin dal ’51 preferito come propria residenza il palazzo già episcopale ubicato accanto alla basilica di San Pietro di Castello – da allora ridefinita “patriarcale” e “metropolitana” – sull’isola di Olivolo (sede della diocesi olivolense o castellana, soppressa dallo stesso Nicolò V contemporaneamente a quella gradese); dimora che quattro secoli più tardi lascerà – decretandone l’inizio della rovina – per trasferirsi definitivamente nel palazzo patriarcale ricavato nel 1840/70 dal rimaneggiamento

37 In ordine cronologico: DORIGO 1998 (ma la prima presentazione pubblica delle sue ricerche avvenne a Venezia il 18 maggio 1997) e ROSSI – SITRAN 2010. Tra fine Duecento e primo Trecento l’edificio fu assoggettato direttamente alla Santa Sede, onde sottrarlo alle pretese territoriali del vescovo di Castello/Olivolo.

38 DORIGO 1998, pp. 36-37.

39 Cfr. EUBEL 1913, p. 266 nt. 18 Graden., ID. 1914, pp. 120 e 160, nt. 1 Castellan. e nt. 2 Graden., nonché TAVANO

1986, pp. 296-297; su papa Niccolò V, MIGLIO 2000.

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dell’appendice seicentesca del Palazzo Ducale addossata dal lato della piazzetta dei Leoncini alla basilica di San Marco, eretta dal 1807 al rango di cattedrale40.

Quasi vent’anni fa Dorigo sottolineò che il sorgere a Rialto di un complesso patriarcale tanto vasto (capace di ospitare, nel corso del summit fra papa Alessandro III e Federico I Barbarossa del 1177, circa quattrocento persone nell’aula longa satis et spatiosa – poi chiamata sala magna – del grande patriarche palatium, in quo papa erat hospitatus) era stato possibile «non tanto per munificenza del ducato ... quanto per il consolidarsi di sicurezza e autonomia alla fine della secolare lotta contro Aquileia (1180), con sistematiche conferme pontificie di prerogative e giurisdizioni antiche e nuove, e con l’acquisizione al patriarca, in quanto primate della Dalmazia, delle