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1.3 – Rilevanza fondamentale dei confronti

Per motivi storico-geografici e inevitabilmente anche dal punto di vista artistico-culturale, il Patriarcato di Aquileia veniva a trovarsi in posizione intermedia fra l’Europa centrale e l’Italia peninsulare, fra il mondo “germanico” e quello “italico”, fra il potere imperiale e la sovranità papale: dell’uno e dell’altro dei due “emisferi”, però, non volle o non poté esser mai pienamente partecipe né totalmente oppositore; anzi, quasi sempre si pose come una sorta di intersezione fra i due “insiemi”, fungendo non soltanto – ciò che invece è di solito l’aspetto più noto e approfondito – da campo di battaglia ideale per i confronti armati fra opposti schieramenti fondati su alleanze dagli elementi interscambiabili non di rado in itinere, ma anche e soprattutto da territorio privilegiato di osmosi, scambio, comunicazione. Un tipico caso, ancorché non troppo spesso ricordato e

12 Eventualità che risulta praticamente inevitabile, d’altronde, qualora non si riesca a scongiurare il rischio cui si accennava alla nota precedente.

13 Sul primo, cfr. CAIAZZA 2001 e da ultimo PASTRES 2009; su ciascuno degli altri cfr. ora, rispettivamente, MORO

2009a, VOLPATO 2009 e DE VITT 2011.

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valorizzato come tale, di “regione di frontiera” nel senso di territorio che funge da cerniera tra culture, da ponte fra civiltà differenti ma continuamente e ineluttabilmente in relazione15.

In tale contesto, le residenze dei patriarchi non poterono certamente sottrarsi a un processo di commistione di modelli e influenze provenienti da tradizioni diverse e caratterizzati da origini remote nettamente divergenti, nello spazio e nel tempo: anzi, uno fra i più evidenti effetti di tale processo di “fusione” dovette esser manifestato proprio dalle residenze dei vescovi aquileiesi16. Dovendo necessariamente basarsi – a causa della quasi completa assenza di strutture in alzato – su dati perlopiù indiretti, in quanto non osservabili de visu ma ricavati da fonti documentarie, da riproduzioni “in scala” di matrice storico-artistica, da reperti archeologici di scavo e così via, risulta del tutto evidente l’importanza della comparazione fra quanto è via via emerso e almeno alcune situazioni similari o quantomeno assimilabili sotto l’uno o l’altro aspetto.

1.3.1 – Cenni di etimologia palatina

Prima di qualsiasi altra cosa, però, almeno un cenno va riservato a quello che può essere considerato uno degli elementi-chiave del presente lavoro di ricerca, ovvero il sostantivo latino medievale palatium (o palacium). È infatti quest’ultimo a essere prevalentemente impiegato nelle fonti, come termine tecnico, per identificare le residenze patriarcali propriamente dette.

Nella lingua italiana si definisce palazzo (in passato, anche: palagio) un fabbricato a uso prevalentemente abitativo caratterizzato da dimensioni piuttosto ampie e da soluzioni architettoniche di un certo rilievo, oltreché sovente dotato – pur essendo tipico del contesto urbano – di svariati annessi e pertinenze, dalle cantine alle scuderie, dal giardino al parco ecc.; in senso estensivo, lo stesso vocabolo designa poi le sedi degli organi di governo, degli uffici giudiziari e/o amministrativi, delle corti regali o principesche, delle rappresentanze di grandi enti o aziende e così via17. Simili accezioni derivano direttamente dal vocabolo latino medievale citato, che a sua volta non era altro che l’erede diretto dell’identica forma latina classica, generalizzazione di Palatium, nome proprio (derivato da quello della dea Pale, protettrice dei pastori) della più importante e famosa delle tre “punte” del colle oggi chiamato Palatino: coinvolto nel mito delle origini, fu frequentato sin dal VI-V sec. a.C. e più tardi riempito di templi, dopodiché ospitò un sobborgo residenziale di gente facoltosa e famosa (da Cicerone a Marco Antonio) poi trasformato in sede

15 Tra i tanti, vd. specialmente CAMMAROSANO 1999; cfr. pure CUSIN 1977, pp. 2-7 e 10-11.

16 Sulla commistione di modelli e influssi, vd. per es. SCHENKLUHN 2006, pp. 66-67 (Problemi di modello) e 73-75 (Sintesi e combinazioni); circa la «creazione di nuovi modelli» nell’Italia medievale, cfr. LE GOFF 2000, pp. 58-68.

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imperiale da Augusto (decima delle quattordici regiones augustee dell’Urbe), seguito da Tiberio, Caligola, Nerone e infine Domiziano e Settimio Severo, gli ultimi due committenti l’uno della grandiosa Domus Augustana architettata da Rabirio e l’altro del monumentale Septizonium proteso fino ai piedi del colle, che chiuse quella funzione di altissimo profilo istituzionale allorché Costantinopoli sostituì Roma come capitale dell’impero18.

Dunque si trattò di un significato esteso acquisito a partire dall’originario nome di luogo latino: sul colle Palatium, “Palatino”, da Augusto in poi ebbe sede la dimora degli imperatori dell’antica Roma – il cosiddetto “palazzo dei Cesari” – segnando il primo ampliamento semantico del sostantivo da toponimo a sinonimo di “residenza imperiale” (dalla domus di Nerone al palatium di Diocleziano, a Spalato), da cui sarebbe poi gradualmente ma più facilmente scaturito il senso ancor più ampio odierno, dopo la fase intermedia riservata alle dimore delle élite dominanti (dal Palazzo Ducale a quello Episcopale, dal Palazzo dei Signori a quello della Signoria e così via), alle sedi di rappresentanza delle alte magistrature (dal Palazzo Pubblico, del Comune o della Ragione al Palazzo del Gastaldo, del Podestà o del Capitano ecc.) o alla residenza delle famiglie appartenenti al patriziato, comprendente già nel medioevo non solo l’aristocrazia ma anche i commercianti più facoltosi19.

Fin dalla più remota antichità preromana, tali strutture di ampie proporzioni erano suddivise in due zone ben distinte: l’una comprendente i locali di rappresentanza, fra i quali almeno una grande sala (per i ricevimenti, negli immobili appartenenti ai membri dell’aristocrazia; per le

udienze, negli edifici riservati a sovrani, caso in cui era presente anche una sala del trono); e l’altra riservata ai diversi momenti della vita privata, zona quindi secondaria rispetto alla prima ma non per questo meno riccamente curata e arredata20. I prototipi romani – a partire dalla citata Domus

Augustana, sorta nell’ultimo ventennio del I secolo d.C. – erano planimetricamente vicini alla

domus tradizionale, di cui però moltiplicavano dimensioni e spazi: tale “modello” fu ripreso nelle principali località dell’impero (da Spalato a Treviri, da Milano a Costantinopoli) a mano a mano che procedeva il decentramento dell’amministrazione pubblica; né più tardi se ne discostarono molto le dimore dei re barbarici (es. il palazzo di Teodorico a Ravenna) o quelle dei sovrani musulmani21.

In età romanica, mentre andavano definendosi le linee di sviluppo che avrebbero portato ai palazzi pubblici (XIII-XIV sec.), alcuni elementi già consentivano di distinguere nettamente qualsiasi palatium rispetto agli altri tipi di civile abitazione, a partire dalle case-torri22: non soltanto

18 Tuttora efficaci le sintesi fornite in PAOLI 1990, pp. 26-30 e 260-263, e in STACCIOLI 1990, pp. 355-387; cfr. pure DU

CANGE 1938, VI, pp. 98-107, a.v. palatia. Per un quadro più ampio, vd. HOFFMANN – WULF 2004.

19 Cfr. per es. CORTELAZZO -ZOLLI 1999, p. 1114, a.v. palàzzo.

20 Sulla casa romana, cfr. ancora PAOLI 1990, pp. 51-77.

21 Cfr. per es. AUGENTI 2002; sulla Domus Augustana, vd. ZANKER 2004.

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le maggiori dimensioni o il rispetto della consueta ripartizione interna fra gli ambienti propriamente abitativi e quelli di rappresentanza, ma anche la grande cura riservata all’esecuzione di determinati elementi costitutivi, dalle aperture (portali e finestre) agli impianti (latrine, canalette, butti ecc.), dalle differenti strutture edilizie (alcune derivate dall’ars fortificatoria, come le torri) alla presenza di spazi scoperti (corti/cortili, giardini, portici)23. Quanto all’ubicazione all’interno del tessuto urbanistico, diversamente dai palazzi privati, i palatia delle massime autorità erano innalzati in base a criteri che andavano ben al di là della semplice proprietà dei terreni: anche nel caso delle residenze vescovili, prevalse infatti il criterio di posizionare gli edifici più importanti in vicinanza delle mura, non troppo lontani dal centro e – se possibile – in prossimità delle acque (d’altronde, già nella “cittadella” dioclezianea di Spalato il palazzo vero e proprio si trovava presso le mura affacciate sull’Adriatico)24.

Nel frattempo, via via che era andata aumentando la sacralità riconosciuta ai sovrani tanto in Occidente quanto nel mondo bizantino25, anche nel palazzo ogni azione fu sempre più regolamentata, secondo complessi e rigidi cerimoniali di corte, pomposi e accuratamente concepiti, che prevedevano la partecipazione di diversi cerimonieri e dignitari (dai vari prepositi ai silenziari) oltreché la disponibilità di appositi ambienti e arredi: questi “rituali di palazzo” si diffusero a poco a poco in tutte le corti, favorendo la creazione di una molteplicità di dignità palatine – civili, militari e religiose – gerarchicamente ordinate e affidate a specifici sovrintendenti, come per es. il “maestro di palazzo” o maior domus (celebre fu per es. il “maggiordomo” merovingio, che acquisì sempre più poteri fino a dare origine a una nuova dinastia, quella carolingia)26.

Prima di procedere con il caso patriarchino, è necessaria un’ulteriore premessa: i documenti vagliati incominciano a menzionare palatia non molto presto (XII-XIII sec.), dopo avere in precedenza parlato di castra, di castella, di domus o di turres: di per sé ciò potrebbe far pensare che i “palazzi” siano una sorta di tarda “invenzione” giunta a coronare i progressi fatti registrare, anche in ambito abitativo-residenziale, nell’uscita dal “buio” altomedievale ... In realtà non è affatto detto che sia andata così!

23 Cfr. per es. i casi delle residenze genovesi e veronesi in CAGNANA 2000 e LUSUARDI SIENA 2012, pp. 63-66. Vd. inoltre, PESEZ 2003, pp. 144-147 (Le residenze). Il termine butto indica una buca nel terreno usata nel tardo Medioevo come immondezzaio per rifiuti domestici (resti di pasto, cocci fittili, frammenti vitrei o metallici ecc.), non di rado riconvertita a tale scopo dopo essere stata scavata a tutt’altri fini (cisterna, intercapedine, pozzo, silos o altro): cfr. fra l’altro CAIAZZA 1999, p. 22-23, e ID. 2004, pp. 36-37, ma soprattutto GUARNIERI 2009; per una panoramica più ampia, invece, vd. Sori 2001, in particolare pp. 151-181 e 247-288.

24 Per esempio vd. KRAUTHEIMER 1986, pp. 35 e 85-86, nonché BARRAL I ALTET 1998, pp. 20-21.

25 Sul tema vd. almeno LE GOFF 2006.

26 Cfr. DU CANGE 1938, V, pp. 181-184, a.v. 1-major; VI, pp. 462-466, a.v. praepositi; e VII, pp. 487-488, a.vv.

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L’apparentemente semplice sostantivo latino turris, per es., fin dall’antichità poteva indicare sia la “torre” propriamente detta sia l’intero castello e/o palazzo, soprattutto se di pertinenza sovrana: così, se regia turris è il “palazzo del re” già per Ovidio27, patriarchalis turris potrebbe benissimo indicare non tanto la torre del patriarca quanto – addirittura – tutto il suo palazzo o castello, e non soltanto per il mero fatto che fosse turrito o come minimo turriforme. In maniera similare, il vocabolo latino domus significa innanzitutto “casa, abitazione”, ma già dall’età classica può anche essere impiegato più genericamente nel senso di “dimora” o “sede”28: nello specifico residenziale-episcopale «i testi canonistici più antichi, riferendosi alla casa del vescovo, la chiamano domuncula» quantunque essa rivesta una «notevole importanza ecclesiastica poiché è segno della cattedralità della chiesa presso la quale sorge», dopodiché «tra X e XI secolo la residenza episcopale è indicata sempre con il termine domus episcopi» mentre con palacium si indica «la sede del potere» ovverosia l’edificio che ospita il sovrano29. In tale prospettiva, è evidente che l’eventuale menzione della domus domini patriarche costituisca un indizio attendibile della presenza non tanto di un edificio di non grandi dimensioni (una “casa” nel senso più generico del termine domus), quanto di qualcosa di molto più consistente benché designato in modo sostanzialmente metaforico: una “dimora” degna di chi deve risiedervi, cioè il vescovo, il metropolita, il patriarca (senza oltretutto dimenticarne l’ampio uso che del termine domus si farà in ambito imperiale durante l’età fridericiana)30. Nell’Italia settentrionale, «solo a partire dal XII secolo, nelle città ove il vescovo esercita il diritto o, di fatto, la signoria, la sua residenza, dopo una profonda trasformazione architettonica, diviene palatium, sede del potere e dell’amministrazione della giustizia»31 e nella vicina Francia «nei documenti di alcune sedi diocesane la parola palatium è usata solo a partire dalla seconda metà del XII secolo» stesso32.

In verità, nel Patriarcato di Aquileia l’adozione di tale terminologia “regale” è più precoce: nella città eponima, la più antica citazione nota – al momento isolata – risale addirittura al 1036 (palacium Aquilegie) per poi infittirsi proprio a partire dal XII sec. (palatium Aquilegiense nel 1139,

palatium nel 1175, patriarcale palatium nel 1189 ecc., compresi riferimenti indiretti come il

27 Cfr. per esempio CALONGHI 1975, col. 2811, a.v. turris («ogni edificio molto elevato, torre, castello, alto palazzo e simili»), eCASTIGLIONI -MARIOTTI 1996, p. 1340, a.v. turris.

28 Cfr. per esempio CALONGHI 1975, coll. 909-910, a.v. dŏmŭs («casa, abitazione, palazzo, dimora ... come luogo di abitazione, di residenza della famiglia»), e CASTIGLIONI -MARIOTTI 1996, p. 349, a.v. dŏmŭs.

29 GUYOTJEANNIN 1995, p. 191 (Discussione - Andenna).

30 Sul tema, vd. ora HOUBEN 2006 e CALÒ MARIANI 2006a, e cfr. pure MARTIN 2006.

31 GUYOTJEANNIN 1995, p. 191 (Discussione - Andenna).

32 GUYOTJEANNIN 1995, p. 191 (Discussione - Guyotjeannin). È interessante ricordare che Bernardo di Clairvaux, nel

De consideratione (1149/53), distingue nettamente domus e palatium, invitando il pontefice (nel principato ecclesiastico aquileiese si sarebbe rivolto al patriarca) a non occuparsi direttamente della cura rei domesticae (per dedicarsi a questioni di ben altro peso) senza però disinteressarsene e quindi, da un lato, ad affidarla a un oeconumus e, dall’altro, pretendere dai sacerdotes domestici una condotta all’altezza, come farebbe il bravo padre di famiglia (LAMBERTINI

1985, pp. 49-50). Sull’utilizzo del sostantivo palatium nel pieno Medioevo, cfr. pure GRECI 2007, pp. 119-121; per quanto riguarda invece la sua «immagine rappresentativa e simbolica», BARRAL I ALTET 2007.

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sollarium citato nel 1136)33, alla fine del quale si datano anche le più risalenti attestazioni esplicite finora conosciute per il palacium patriarcale di Cividale (1193)34, benché risulti implicitamente testimoniato anche in precedenza (solarium patriarche, 1091; curia patriarchalis, 1126; camera

patriarche, 1178)35. D’altro canto, si parla di domus del patriarca ancora a lungo e talvolta al plurale, come nella generica citazione suarum domorum in un atto del patriarca Folchero (1215), mentre rinvia specificamente alla nova domus di Cividale un documento del 1309 che però spiega chiaramente la sua “attinenza” palatina («nova domo palacii patriarchatus»)36, affine a quella delle due domus ivi attestate nel 1229 (una «sita in curia patriarchali ante solarium» concessa al magister e scutarius Gualtiero e l’altra del magister Giovanni Fulvio)37. Infine, è documentata una casaturri

domini patriarche a Udine nel 1278/83, così come ad Aquileia nel 131738.

Quanto a castrum – e al suo diminutivo castellum – il discorso potrebbe seguire percorsi similari se non altro per il fatto che in non pochi casi il palazzo patriarcale sorse all’interno di un maniero, sicché il sostantivo designante quest’ultimo poté spesso essere usato anche per indicare la residenza del presule39: una vera e propria sineddoche, nella quale si menzionava il “contenente” (castrum/castellum) per significare il “contenuto” (palatium). Particolarmente significative risultano poi le locuzioni “miste” castrum et palatium (per es. a Udine nel 1327 e 135940 o a Monfalcone nel 137941), castrum patriarchatus (es. a San Vito nel 133042) o palatium castri (es. a Soffumbergo nel 124743, a Udine dal 129544, a Gemona nel 129645), che furono talvolta precedute dalla menzione delle “case-torri” del patriarca (come quelle poc’anzi ricordate, documentate a Udine e Aquileia tra tardo Duecento e primo Trecento46) e a loro volta precedettero le non meno interessanti ma più tarde espressioni domus palatii e domus residentiae (ancora a Udine, nel 1424 e 142947).

Praticamente inesistente, in ambito patriarchino, è invece il termine patriarchìo, derivato dal latino tardo patriarchium (a sua volta da greco πατριαρχεĩον) per indicare univocamente la

33 HÄRTEL 2005a, docc. 1, 7, 25 e 36, nonché SCHUMI 1883, doc. 79, p. 89. Per sollarium si deve intendere non tanto una generica «domus contignatio», quanto un ligneo «cubiculum maius ac superius»: DU CANGE 1938, 7, p. 511, a.v. 1. Solarium (e cfr. PICCINI 2006, pp. 441-442, a.v. solarium).

34 HÄRTEL 2005a, docc. 39 e 66 (per Cividale).

35 Nell’ordine: LEICHT 1897, docc. II e VI, pp. 217 e 222; e COLUSSA 1999, p. 76, n. B10.

36 Rispettivamente, HÄRTEL 2005a, doc. n. 60, e LEICHT 1917, doc. 51.

37 COLUSSA 1999, p. 76, n. B13 e nt. 54.

38 ZENAROLA PASTORE 1983, pp. 38 e 90; BLANCATO 2013, pp. 332, 437 e 439, docc. 93, 148 e 149.

39 Sui sostantivi castrum e castellum, cfr. tra l’altro DU CANGE 1883, II, pp. 208-210 e 213-214, a.vv. castellum e

castrum, e PICCINI 2006, pp. 152-154, a.vv. castelerium, castellanum e castrum.

40 LEICHT 1917, n. 79, e LEICHT 1925, n. 180.

41 LEICHT 1925, n. 279.

42 LEICHT 1917, n. 98.

43 SCHUMI 1887, doc. 145, p. 114.

44 BLANCATO 2013, p. 468, doc. 166. Per il Trecento:LEICHT 1925, nn. 130 (1335) e 221 (1366). Cfr. per esempio il

palacium castri del vescovo di Genova, attestato almeno dal 1116: vd. CAGNANA 2000, pp. 146-147.

45 BLANCATO 2013, p. 478, doc. 170.

46 Rispettivamente, ZENAROLA PASTORE 1983, pp. 38 e 90.

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residenza di un patriarca, particolarmente utilizzato per definire un tempo l’antica sede del papa e della curia romana nei pressi della basilica di San Giovanni in Laterano48 e più di recente la sede patriarcale esistente in Venezia, che pure si potrebbe definire non a torto l’ultimo e più lontano retaggio – per quanto indiretto, considerata la mediazione di Grado – delle residenze dei patriachi di Aquileia.

1.3.2 – Fra la domus episcopi e la Pfalz regia/imperiale

I punti di riferimento per la realizzazione dei palazzi dei principi-vescovi aquileiesi furono sostanzialmente due: la “residenza vescovile” (in latino, domus episcopi) e la “residenza regia” (in tedesco, Königspfalz), molto più tardi impropriamente ribattezzata “residenza imperiale” (Kaiserpfalz)49. I primi esempi furono quelli voluti da Carlo Magno: dalla celeberrima residenza di Aquisgrana (Aachen) al meno noto ma simbolicamente importantissimo palatium Caroli di Roma, sorto accanto alla San Pietro costantiniana secondo il tipico accostamento per contrasto di una manifestazione del potere temporale (imperiale) alla più evidente espressione del potere spirituale, la domus Dei50.

D’altronde, «all’importanza e alla pluralità delle funzioni del vescovo corrispondono – o dovrebbero corrispondere – ambienti importanti e ampiamente articolati» tipici dell’episcopium: «abitazione del vescovo, cappella privata, sala delle udienze, sale di riunione, uffici (per collaboratori, chierici, laici), tesoro, archivio, bagni, corti, magazzini, depositi, mensa, ambienti per la carità, alloggi per domestici e aiutanti, foresteria, ospizio, ospedale, scuola»51. A osservazioni teoriche di questo tipo fanno riscontro grandi difficoltà pratiche, a partire da quella di riuscire a «identificare nell’ambito delle città le residenze episcopali», cosa in apparenza inconcepibile «data la presenza di centinaia di episcopati nel mondo antico» eppure effettiva, a causa di «mancanza di testimonianze epigrafiche, disinteresse degli scavatori, perdite oggettive», ma – forse – soprattutto dalla presenza di elementi costitutivi (per esempio la “sala di rappresentanza”, il “portico interno a

48 Il cosiddetto patriarchio Costantiniano, consacrato insieme all’originaria basilica lateranense (giunta a noi nella sua versione sei-settecentesca) quali Domus Dei nel 324 e in seguito sostituito dal Palazzo del Laterano; il complesso fu prima sede pontificia fino all’inizio del XIV sec. (cfr. GIGLIOZZI 2003, pp. 61-74).

49 All’epoca si parlava di Königspfalz, “residenza reale”, sostantivo di cui il similare Kaiserpfalz, “residenza imperiale”, è sinonimo solo in apparenza: fu infatti coniato da studiosi ottocenteschi senza tener conto che il re non poteva fregiarsi del titolo di “romano imperatore” se non dopo essere stato incoronato tale dal papa. Sulla rilevanza e sul valore effettivo del termine tedesco Pfalz nel Medioevo, vd. in particolare THON 2001 e cfr. LEISTIKOW 2006; attualmente la Pfalz è univocamente la “reggia”, di cui è sinonimo il Königspalast, “palazzo reale”: vd. DIT 2000, pp. 506 e 688, a.vv.

Königs|~ e Pfalz.

50 Cfr. D’ONOFRIO 1983, pp. 177-179 (e cfr. pp. 75 e 77), ma soprattutto ID. 2007.

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colonne” o il “portale a timpano”) che in se stessi risultano tutt’altro che univocamente identificativi, poiché coincidono con quelli dei palazzi imperiali (e gentilizi)52!

Se anche nell’area patriarchina dal punto di vista linguistico l’originaria domus episcopi fu soppiantata dal palatium episcopale, ciò fu conseguenza diretta della «profonda trasformazione architettonica»53 che – come si è poc’anzi ricordato – le primitive dimore vescovili subirono dal punto di vista strutturale in concomitanza con l’aumento del “peso” politico-economico dei rispettivi titolari. I quali non dovettero far altro che guardare al più eminente “modello” allora a disposizione: quello costituito dai palatia del sovrano medievale per antonomasia, l’imperatore, architetture direttamente ispirate a quelle del Caesar/Augustus dell’antica Roma. Ciò fu tanto più vero, nel caso dei presuli nord-adriatici, all’indomani dell’alto riconoscimento da essi ottenuto nel 1077, con il quale il patriarca di Aquilea divenne anche a tutti gli effetti un Landesherr54, signore territoriale, al quale era riconosciuto il dominium terrae e la cui dimora si configurò come vera e propria “sede del potere”55.

Il sostantivo femminile tedesco Pfalz, “residenza, palazzo”, nella sua versione più illustre costituita dalle residenze regie cui si ispirarono appunto quelle fatte poi erigere dai grandi seniores feudali, designava una dimora non sempre di grandi dimensioni e con funzioni primariamente abitative (si pensi al caso di Soffumbergo/Campeglio, “casino” e “riserva” di caccia dei patriarchi)56 ma, soprattutto, fruita non in maniera continuativa durante l’intero anno solare bensì per tempi ridotti, variabili dai meri soggiorni occasionali alle soste stagionali o della durata di diversi mesi57. Numerosi erano comunque i complessi di grandi proporzioni adatti a dare ospitalità in maniera adeguata – cioè offrire ristoro e soprattutto alloggio, grazie a una copiosa “manovalanza” – sia al sovrano sia almeno alla parte a lui più vicina del nutrito novero di membri del suo seguito (quella che Peyer definiva la «corte più ristretta», mentre «il resto del seguito ... si accampava nei dintorni»)58, oltreché dare riparo e cibo alle loro cavalcature.

Anche l’antistite aquileiese fu quindi “obbligato” a dotarsi di un certo numero di residenze temporanee – multiple sedi del potere patriarchino – sufficientemente ampie da poter ospitare lo stesso presule con il suo entourage e, all’occorrenza, in grado anche di accogliere degnamente l’imperatore di passaggio, i suoi delegati o eventuali altri ospiti d’alto rango (es. papa, re ecc.), fornendo loro sia il vitto che l’alloggio (tedesco Gastungspflicht, latino medievale albergaria più

52 Cfr. REAL 2003, pp. 95-96; e RUSSO 2007, p. 79 (da cui sono tratte le citazioni).

53 GUYOTJEANNIN 1995, p. 191 (Discussione - Andenna).

54 Sul patriarca come signore territoriale, SCHMIDINGER 1954.

55 Si rilegga ancora quanto asserì Andenna in GUYOTJEANNIN 1995, p. 191.

56 Vd. infra, cap. 5; inoltre cfr. CALÒ MARIANI 2006b.

57 Cfr. per es. D’ONOFRIO 1983, p. 187, o PEYER 1990, p. 167.

58 PEYER 1990, p. 172 (altrove, es. a p. 208, l’autore ricorda che in un secondo tempo ebbe luogo la «separazione fra gratuità dell’alloggio e venalità del vitto»).