Allo stato attuale delle conoscenze e alla luce di quanto è stato possibile accertare nel corso delle ricerche esperite per la redazione del presente lavoro, pare giunto il momento di abbandonare definitivamente l’idea che i patriarchi di Aquileia abbiano risieduto dapprima ad Aquileia, quindi a Cividale e infine a Udine. Infatti, sull’esempio delle massime autorità dell’età di mezzo (imperatore, papa e altri sovrani e principi), e come d’altronde fece gran parte dei loro omologhi, anche i principi-vescovi seduti sulla cattedra ermacorea poterono disporre di un ben più ampio numero di edifici costruiti e/o rimaggiati al preciso scopo di offrire la migliore accoglienza e ospitalità possibile al patriarca stesso e anche al suo seguito, per periodi di tempo più o meno lunghi ma in ogni caso discontinui e irregolari.
Ovviamente, è dato incontestabile che nelle tre località or ora menzionate, divenute città in tempi diversi e con modalità differenti, sorsero i palazzi più grandi e più noti, nei quali i presuli e le rispettive corti furono ospitati con maggior frequenza: la predisposizione di una campionatura del “diario” dei movimenti quotidiani dei patriarchi di Aquileia nel periodo 1250-1350 circa, desumendo le informazioni dalla documentazione superstite, ha permesso di appurare innanzitutto la rimarchevole mobilità del patriarca e della sua corte e di rilevare altresì una sorta di “tasso di presenza” nelle singole residenze1. Su oltre millecento date topiche rilevate, escludendo quelle prive di attinenza con siti “palatini” (es. Belgrado di Varmo, Buie in Istria, Campoformido, Cittadella, Cividale di Belluno, Duecastelli, Gorizia, Lodi, Lubiana, Lucinico, Pieve di Cadore, Pradamano, Premariacco, San Vito di Cadore, Venezia, Venzone, Villaco ecc.), delle 1030 concernenti località “palatine” il 60,49% riguarda Udine (623 volte), il 18,64% Cividale (192), il 9,51% Aquileia (98), il 2,72% San Vito al Tagliamento (28), il 2,14 San Daniele (22), l’1,84% Sacile (19), l’1,46% Gemona (15), l’1,07 Soffumbergo (11), lo 0, 87% Tolmezzo (9), lo 0,29% Manzano e Monfalcone (3), lo 0,19% Meduna, Tolmino e Vipacco (2), lo 0,09% Portogruaro (1).
Pertanto, il resoconto sullo stato dell’arte2 relativo a ogni singolo palazzo patriarchino non può che partire dalle prime tre sedi, a proposito delle quali va sottolineato che anche nel periodo in questione furono contemporaneamente in attività, nonostante l’evidentemente diversa percentuale di frequentazione e, di conseguenza, il maggiore o minore utilizzo che ne fu fatto. In ogni caso, una conseguenza diretta della presenza della residenza del principe-vescovo furono le «considerevoli sistemazioni del paesaggio» urbanistico: si trattò cioè – anche qui come altrove – dell’inizio di un
1 Vd. infra, capitolo 6.
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processo di inurbamento dell’aristocrazia, innescato dall’«afflusso degli uomini di corte – parenti e protetti – e anche del personale degli uffici» connesso alla presenza del “sovrano” , sempre ricca di significato anche se temporanea (ma nel caso di Udine, tale discontinuità andò progressivamente riducendosi)3.
Nei secoli centrali del medioevo, ufficialmente i centri principali del Patriarcato erano due: Aquileia, la capitale spirituale, e Cividale, la capitale temporale. A seconda delle stagioni e/o delle avversità climatiche (alluvioni, canicole, gelate, nubifragi, siccità ecc.), della contingenza di eventi più o meno imprevedibili (epidemie, incendi, invasioni, terremoti, tumulti ecc.) e delle preferenze personali dettate dai motivi più disparati, i soggiorni dei patriarchi si indirizzavano a vantaggio ora dell’una ora dell’altra4. Anche se una simile coesistenza non era per nulla anomala nel contesto sociopolitico dell’epoca, la situazione si presentava piuttosto complessa e in prosieguo di tempo si fece ancor più intricata a causa del graduale ma irrefrenabile emergere – soprattutto a partire dal XIII secolo – di una terza e ambiziosa “pretendente”: Udine5. Pur seguitando a valorizzare la città ducale (Cividale), mai dimenticando la città romana (Aquileia) e soggiornando altresì – sia pure temporaneamente – a San Vito, San Daniele, Sacile, Gemona, Soffumbergo e altrove, fu più di ogni altro il patriarca Bertoldo a manifestare una notevole inclinazione per Udine, che di lì a cent’anni sarebbe addirittura riuscita ad avere la meglio sulle ben più attempate antagoniste6.
Qui di seguito si presenteranno, in ordine di apparizione sulla ribalta storica, le tre maggiori località del principato ecclesiatico aquileiese con i rispettivi palazzi patriarcali: i quali, al contrario di quanto sovente è stato scritto e a tutt’oggi si potrebbe pensare, non furono soltanto tre …
4.1 – La capitale spirituale (Aquileia)
Come si è già ricordato (cap. 1.1), nella prima metà del IX sec. il patriarca Massenzio avviò il rilancio della mater Aquileia e – fra le altre cose – quasi riuscì a sottometterle nuovamente Grado; non si hanno dati, però, circa un suo impegno anche nella costruzione o nel ripristino di un palazzo a disposizione del titolare della cattedra di sant’Ermacora, evento che comunque rimane tutt’altro che improbabile. In ogni caso, dopo di lui è giocoforza rassegnarsi a un lungo intervallo – oltre due secoli – prima che, in mancanza di documenti specifici, almeno la tradizione attribuisca un intendimento simile a uno dei suoi numerosi successori.
3 HEERS 1995, pp. 485-486.
4 Cfr. per es. HÄRTEL 2000, pp. 237 e 239; e vd. pure SCARTON 2012a, p. 77.
5 Vd. PASCHINI 1990, pp. 361-365. La città di Udine nel 1328 aveva circa seimila abitanti, saliti fino a quasi 15000 alla fine del Quattrocento: GINATEMPO -SANDRI 1990, pp. 92-93 e 256-257 (bibliografia specifica).
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Dopo svariate concessioni carolinge e ottoniane, ma un buon quarantennio in anticipo rispetto all’ormai noto diploma con cui nel 1077 Enrico IV imperatore concesse a Sigeardo patriarca le prerogative comitali e ducali sulla contea (comitatus) del Friuli7, l’onore-onere di rinnovare il volto dell’ex capitale della decima Regio augustea toccò almeno in parte al celebre patriarca Poppone, della famiglia degli Ottocari8. Tra le tante attività da lui sostenute o almeno avviate, mentre l’unica assolutamente certa riguarda la basilica e la più improbabile concerne le mura, è considerato del tutto verosimile un intervento al campanile («turris celsa»), almeno per le sue fasi iniziali, e da parte di molti si ritiene altresì che egli «con ingegnosa sollecitudine ricostruì per sé una casa (cioè il palazzo) e accanto il tempio (ossia la cattedrale)», come abilmente scrisse Niccolò Canussio a fine Quattrocento nell’originaria versione latina («aedes ... sibi iuxtimque phanum ... solerti cura novavit»)9, quantunque in realtà l’attività relativa alla dimora sia un fatto «non ricordato ... in nessuna delle due iscrizioni sepolcrali» nei secoli dedicate allo stesso Poppone e poi andate perdute, «né in documenti coevi»10.
Gaetano Ferrante osservò che in Aquileia «prima di questo» attribuito al famoso patriarca bavarese «dovevavi esistere qualche altro palazzo patriarcale» dal momento che «le storie sempre ci parlano di Basilica e Patriarcato»11: per la verità, stando a quanto si è potuto accertare, al momento le più antiche attestazioni documentarie note circa il patriarchio aquileiese risalgono al 1036 («palacio Aquilegie»), al 1139 («palatio Aquilegiensi»), al 1175 («actum Aquileia in palatio»), al 1189 («acta sunt ista Aquileia in patriarchali palatio») e al 1206 («datum in Palacio nostro apud Aquilegiam»; «in Aquilegia in curia palatii»)12, dopodiché le citazioni si infittiscono e a poco a poco si standardizzano, sebbene qualcuna si segnali talora per la sua particolarità (per esempio: «Aquileje in domo Patriarchali de prope Palatium», nel 1293) o per l’apparente incompletezza (per esempio: «actum est hoc Aquilejae sub sollario», nel 1136)13. A ben guardare, dunque, finora non è nota alcuna citazione precedente il periodo popponiano. Ad ogni buon conto, la proposta di Ferrante pare sensata ed egli stesso la completò così: «che uno prima vi avesse dovuto esistere è indubitato, perché ciò portava con sé la sede de’ Patriarchi; ove poi fosse questo avanti Popone, le tradizioni ci
7 A proposito di tale concessione sarebbe opportuno non dimenticare che con essa il «processo di germanizzazione raggiunse il culmine», giacché «quella che taluni gruppi autonomistici friulani odierni considerano la data di nascita di una nazione e di uno stato friulano indipendente non segna altro che il punto più alto dell’assorbimento del Friuli nella compagine imperiale tedesca e della sua inserzione nell’area culturale transalpina» (SALIMBENI 1981, p. 72).
8 Sul quale, vd. soprattutto DOPSCH 1997, pp. 16-25, e da ultimo CUSCITO 2006.
9 Per un sintetico status quaestionis, cfr. CUSCITO 1997, pp. 151-152; la citazione è tratta da CANUSSIO 2000, pp. 92-93.
10 CUSCITO 1997, p. 151.
11 FERRANTE 1853, p. 29.
12 Per le citazioni del 1036 e del 1139, vd. HÄRTEL 2005a, docc. 1 e 7; per quella del 1175, DI PRAMPERO 1882, p. 9, a.v.
Aquileia; quella del 1189 è riferita in WIESFLECKER 1949, I, p. 290; le due del 1206 compaiono, rispettivamente, in DI
PRAMPERO 1882, p. 9, a.v. Aquileia, e in HÄRTEL 2005b, p. 80, doc. 4*.
13 Rispettivamente: DI PRAMPERO 1882, p. 9, a.v. Aquileia; SCHUMI 1883, doc. 79, p. 89. Su cosa potesse effettivamente essere un solarium, cfr. per esempio D’ONOFRIO 2007, pp. 161-162 («un loggiato superiore»).
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mancano, e senza distinzione proseguono a rammentarci quello, che cogl’ultimi rimasugli pervenne fino a noi, e niente è più probabile a congetturarsi, che Popone abbandonato il primo, perché troppo diroccato dalle ultime guerre ed invasioni di barbari, abbia scelto pel nuovo, questo luogo, onde aver la sua residenza vicina alla Metropoli»14. Senza dubbio un commento valido ancor oggi.
Tornando all’asserzione di Niccolò Canussio su riportata, l’uso del verbo novare è tutt’altro che impreciso: in effetti, partendo dal recupero degli imponenti resti dei grandi granai urbani romani (horrea) situati nella parte sud-orientale dell’abitato – a breve distanza dalle mura e nei pressi della cattedrale – e all’epoca ancora almeno parzialmente in alzato, intorno all’anno Mille o poco dopo qualcuno (e in effetti è difficile pensare ad altri che a Poppone) diede vita a quell’imponente complesso munito nel quale i patriarchi e il loro immediato entourage risedettero per alcuni secoli ancorché in maniera non continuativa15: dalle stanze ubicate in esso o nelle sue adiacenze, i presuli aquileiesi governarono la metropolìa, la diocesi e il principato loro affidati, pur senza smettere mai di “itinerare” attraverso i vastissimi territori di loro competenza. Nella medesima residenza, all’interno e all’intorno del palatium – non soltanto negli edifici sorti a nord degli ampi spazi propriamente destinati all’uso liturgico – risiedevano almeno saltuariamente anche i familiares e i diversi membri della corte, venivano accolti tutti coloro che di volta in volta partecipavano alle riunioni della curia feudale o dei consessi ecclesiastici presieduti dal patriarca (qualora fossero convocati in Aquileia) e trovavano spazio i vari “ufficiali” patriarchini incaricati dei rispettivi “uffici” e “ministeri”16.
Nell’ultimo quarto del Duecento, il patriarca Raimondo della Torre dovette rinnovare il patriarchio di Aquileia: al momento la più risalente citazione del «novum palacium» di Aquileia pare sia quella del 3 dicembre 1283, riportata in un documento vergato appunto «in contrata novi palacii domini Patriarche, aliter in palatio novo patriarchali»17. Non si sa esattamente di che tipo di intervento si sia trattato: se di una ristrutturazione, magari estesa, oppure di un rifacimento vero e proprio, o addirittura della costruzione ex novo di un secondo palazzo. Al momento, questa terza ipotesi parrebbe accantonabile per il fatto che non si conosce alcun atto menzionante l’eventuale
14 FERRANTE 1853, p. 29.
15 Grandi fabbricati dello stesso tipo, che avevano avuto le medesime funzioni, furono indagati archeologicamente prima ad Augusta Treverorum (Treviri) e poi a Mediolanum (Milano): vd. MIRABELLA ROBERTI 1992, pp. 282-283. È il caso di sottolineare che a proposito degli horrea tardoantichiBERTACCHI 2003, p. 38, dopo avere ricordato che «su di essi si impiantò il Palazzo Patriarcale», riferische che «un saggio però fatto da noi ... nella parte meridionale ci diede la certezza che tra la struttura romana e quella patriarcale c’era soluzione di continuità» (vd. pure ib., tav. 40, n. 107): tale constatazione costituisce un ulteriore indizio a favore dell’ipotesi secondo la quale l’edificazione del palazzo a partire dai resti dei mercati romani avvenne in epoca popponiana.
16 Vd. cap. 6. Fra l’altro, si ritiene che in ambienti annessi al patriarchio talora operassero anche i «magistri monetarii», che in Aquileia batterono moneta – più di frequente nelle case private degli zecchieri che di volta in volta ottennero l’appalto – almeno fino al Trecento.
17 Vd. BATTISTELLA 1932, col. 129 (l’autore trae l’informazione dal Notariorum di Vincenzo Joppi conservato presso la Biblioteca Civica di Udine); e cfr. MIRABELLA ROBERTI 1992, p. 283.
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«palatium vetus»: nondimeno, l’insistenza della formulazione del 1283 nel rimarcare la novità dell’edificio non consente di scartare definitivamente tale possibilità. In ogni caso, il sito della grande residenza adiacente alla cattedrale continuò a esser frequentato e curato in modo sufficientemente adeguato almeno per un altro secolo, a prescindere dal fatto che quella fosse stata riformata o affiancata da una seconda dimora: per esempio, si può ricordare l’impegno assunto nell’anno 1300 dal cividalese Giovanni fu Galangano di «dare unum muratorem per mensem quando d. Patriarcha voluerit fabricare circa Ecclesiam majorem Aquilegensem et Palatium d. Patriarche», in cambio di due mansi «in villa Utini cum advocatia»18.
Nonostante la crisi manifestatasi a partire dal quarto decennio del XIV secolo, il patriarca Bertrando di Saint-Geniès operò su vari fronti19 e dovette attivarsi anche per il ripristino del palazzo patriarcale20 e il suo impegno dovette essere inevitabilmente maggiore all’indomani del forte sommovimento tellurico del 25 gennaio 1348: se a distanza di quasi nove mesi, il 19 ottobre di quell’anno, il notaio Gubertino da Novate annotava ancora che l’«Ecclesia Aquilegensis propter terremotum corruit»21, ben difficolmente si potrebbe credere che il palatium non sia stato neppure scalfito ... In ogni caso, l’intero complesso patriarchino fu riportato alla normale funzionalità: se un documento del 1351 fu «actum Aquilegie in zardino patriarchalis palatii»22 è appurato che il “viridario” della residenza dei presuli era ancora vivo e accudito a dovere; analogamente, in buona efficienza dovevano essere «le scale per le quali si ascende al palazzo patriarcale» citate in un atto del 1371 nel quale si accenna a una chiesetta esistente nei pressi23. È accettabile l’ipotesi di Giovanna Valenzano – elaborata a partire dalla rivalutazione dei due pilastri-colonne superstiti e dell’articolazione esterna delle pareti attestata dalle fonti iconografiche – che «la struttura, nelle sue linee essenziali ancora, seppure parzialmente, in piedi nel XVII secolo, potesse risalire al XIV secolo»24, ma è inverosimile che gli antichi granai romani possano essere giunti al tardo Medioevo in uno stato sufficientemente buono da essere “riattivati” da Bertrando: più verosimile che quest’ultimo sia sì intervenuto profondamente sul palatium, ma in quanto danneggiato (per esempio dal sisma) e pertanto preesistente.
L’interessamento e l’ordinaria (e straordinaria) manutenzione continuarono sicuramente fino alla morte del patriarca Marquardo (1381), dopodiché in modo sempre più discontinuo, benché la
18 Vd. BATTISTELLA 1932, col. 130.
19 Cfr.PASCHINI 1990, pp. 479-482.
20 Cfr.BRUNETTIN 2004c.
21 Vd. BATTISTELLA 1932, col. 131. A proposito del sisma del 1348, Marcantonio Nicoletti parlò di «tre scosse gravissime» e scrisse che «fra gli orrendi guasti che questo flagello menò anche nella Provincia nostra il maggiore toccò alla Chiesa di Aquileia, la quale fu in tal modo rovinata da far meraviglia e dolore all’intero Friuli» (ora in Taramòt 1976, p. 27).
22 BATTISTELLA 1931, col. 37; cfr. ZENAROLA PASTORE 1983, p. 179 («giardino del palazzo patriarcale»).
23 BATTISTELLA 1931, col. 38.
24 VALENZANO 2007, p. 271 (l’autrice premette: «di certo il patriarca Poppo doveva risiedere in un luogo adeguato, in un palazzo quindi, ma è difficile poter identificare tale palazzo nelle rovine ancora esistenti nel 1700»; in tal modo, esclude la possibilità di più fasi successive sullo stesso sito, che risulta invece l’eventualità più probabile oltreché la più comune).
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vasta area urbana circostante il complesso patriarcale continuasse ad esser frequentata: il palazzo patriarcale con la cappella palatina (attestata nel 1218 come «capella palatii domini patriarche»)25, lo «zardinus» poc’anzi ricordato e tutte le altre sue pertinenze ricadeva all’interno dell’ampia zona che i documenti almeno dal 1248 definiscono «Pala Crucis» (comprendente anche le «due Turres Horarum» attestate nel 1413)26, all’incirca l’intera metà orientale della città che nel tardo medioevo fu sottratta al governo del Comune e posta sotto la giurisdizione del capitolo (iurisdictio
capitularis) dallo stesso patriarca, per conto del quale sul resto della città continuò parimenti ad agire il podestà27. Ciò indipendentemente dall’andirivieni nel patriarchio e nonostante i diversi interventi di riatto del palazzo stesso, l’ultimo effettuato all’inizio del Cinquecento: intervento che giunse a proposito, visto che nel 1483 Marin Sanuto aveva scritto che Aquileia, «olim potentissima et grande cità, nunc pene derelicta est», aggiungendo poi che «qui è uno palazo grando et anticho et bello» che «fu dil Patriarcha» e «hora è discoperto et dirupto»28.
Nel frattempo, dopo la conquista veneziana e gli inutili tentativi armati di riprendere il potere da parte dell’ultimo principe-vescovo effettivo Ludovico di Teck, il primo presule veneto sulla cattedra di Ermacora – Ludovico Trevisan poi detto Scarampi Mezzarota – cercò di evitare la completa perdita della temporalità aquileiese: con il trattato del 1445 la Dominante riconobbe ai patriarchi di Aquileia giurisdizione feudale quasi piena sulla città di Aquileia oltreché sui castelli di San Vito e San Daniele29. Ciononostante, ben pochi si diedero da fare per l’antica “seconda Roma” e così, una volta trascurato (per quanto non abbandonato immediatamente in maniera definitiva), il complesso patriarcale di Aquilea deperì non troppo rapidamente ma inesorabilmente: è vero che le più antiche mappe note di Aquileia attestano ancora nel XVII sec. l’esistenza del grande palazzo, ma è altrettanto certo che esso vi è raffigurato ormai «dirutum» – quasi citando l’Itinerario di Sanuto – o descritto come ridotto a poco meno d’un cumulo di «ruine» (se ne riparlerà fra poco). Concluso il governo del primo patriarca non residente (Trevisan), sotto il suo successore Marco Barbo (1471-1491) anche Aquileia temerà di essere investita dalle incursioni delle bande
25 HÄRTEL 2005b, p. 88, doc. 5*.
26 VALE 1931, col. 22: l’autore ricorda che le due torri all’inizio del Seicento «eran ridotte ad una». Sulla suddivisione della Aquileia medievale in due “polmoni”, vd. pure ID. 1938 nonché la sintesi fornita in CAIAZZA 2008, p. 75, e PUNTIN 2008, p. 108, a.v. Pala Crucis.
27 Vd. BATTISTELLA 1931, cc. 37-38, VALE 1931, cc. 21-24, VALE 1934, c. 49, e VALE 1938; cfr. inoltre BUORA 1988, p. 353, e PUNTIN 2008, p. 108, a.v. Pala Crucis. Si ritiene che a sottrarre – con conseguenze non sempre pacifiche – al governo comunale la parte est della città sia stato il patriarca Ludovico Trevisan, colui che nel 1445/51 dovette sottoscrivere gli accordi con Venezia che sancirono la fine dell’indipendenza della Patria: vd. VALE 1938, cc. 145-148 (sugli screzi fra Comune e capitolo dopo il 1460, cfr. ib., cc. 147-151). Su Trevisan, cfr. da ultimo MANFREDI 2009.
28 Itinerario 2007, p. 336. Il famigerato “abbandono di Aquileia” non si ebbe in epoca patriarchina, come molti ritengono: «lo spopolamento progressivo, l’abbandono delle case, il ristagno delle acque riportarono il territorio in condizioni miserande» in età veneta, giacché fu solo allora che «i patriarchi» – ormai tali più di nome che di fatto – «non si opposero alla decadenza del centro superstite» (MIOTTI 1983, 2, pp. 32-33, mise invece per iscritto tali affermazioni riferendole ai successori di Poppone!).
29 Vd. per es. PASCHINI 1990, pp. 753-756, e TREBBI 1998, pp. 17-24. Alle tre località maggiori si aggiunsero le tre ville – cioè villaggi – di Pavia (di Udine), Percoto e Trivignano: cfr. TOSORATTI 2004, p. 311.
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“turchesche” provenienti dai Balcani30: per prepararsi a contrastarle, già nel 1478 il capitolo deciderà allora di fortificare il circondario della cattedrale compreso il palazzo patriarcale31, attuando l’ultimo intervento di un certo rilievo sul sistema difensivo aquileiese, che era ancora fermo all’ampliamento duecentesco delle mura e in seguito non avrebbe conosciuto ingrandimenti ma nemmeno ulteriori restauri, in ciò differenziando Aquileia dalle altre città regionali, italiane ed europee, a testimonianza del «venir meno della» sua «funzione economica, politica e strategica»32. Se già nel 1582 un documento ricorderà che «in ruinis aedium sacrarum huius Patriarchatus fuerunt sublatae»33, nel 1660 Giovanni Francesco Palladio degli Olivi scriverà: «continuando il Patriarcha Popone ad essaltare il suo Patriarchato rinouò anche un maestoso Palagio vicino ad essa Chiesa per la sua residenza ... D’esso Palagio à nostri giorni si vedono ancora in piedi gran parte della mura benché scoperte»34. Un’affermazione confermabile anche visivamente, almeno in maniera virtuale: del grande palazzo patriarcale di Aquileia rimane infatti la coppia di vedute della città “a volo d’uccello” del 1693 e del 1865, presunta copia d’un originale del 1435, delle quali si è già parlato: pare opportuno sottolineare che, mentre nel dipinto tardoseicentesco si parla di «Palatium Pat(riarcale) dirutum» e il palazzo è raffigurato effettivamente in rovina, nel disegno di controversa datazione si parla di «Ruine del Palazzo Patriarcale» ma esso compare solo in parte “diroccato”, mostrando oltre tre quarti della merlatura in situ e archeggiature cieche ancora chiaramente leggibili, fatti che lasciano un ampio spiraglio all’ipotesi che possa veramente trattarsi della copia d’un originale molto più antico con l’aggiunta di una legenda che invece descrive la situazione al momento in cui Giovanni Righetti eseguì la riproduzione e la litografia triestina B. Linussi effettuò la stampa.
30 Sull’argomento, vd. fra l’altroTREBBI 1998, pp. 47-61, CAIAZZA 2008d e ID. 2011a; sul patriarca Marco Barbo, GULLINO
2009. Quanto alla mancata residenza dei patriarchi, il problema si risolverà solo nella terza fase del Concilio di Trento, con l’approvazione del decreto De reformatione (15 luglio 1563): cfr. la recente sintesi offerta in PANI 2014.
31 Vd. VALE 1938, c. 148.
32 BUORA 1988, p. 361.
33 VALE 1931, col. 24.
34 PALLADIO DEGLI OLIVI 1660, p. 153. Sul seicentesco storico udinese, vd. CARGNELUTTI 2009b.
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Per completezza d’informazione, a tali vedute bisogna aggiungere una serie di mappe topografiche nelle quali compare anche il palazzo patriarcale. Una delle più celebri è la Pianta della
Città d’Aquileja riedificata dal Patriarca Popone negli anni del Signore 1028 con l’indice delle cose più notabili, rilevata da Gian Domenico Bertoli Canonico d’Aquileja circa nell’anno 1739 e rimasta da