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Dai giudici del CSM al commissario ad acta

Dopo aver analizzato gli incisivi poteri che vengono esercitati dal giudice amministrativo nella sua opera di controllo sugli atti del CSM ai sensi dell’art. 17 della l. n. 153 del 1958, resta da chiedersi che cosa potrebbe accadere se il Consiglio, in forza del suo “rilievo” costituzionale, decidesse di non osservare le prescrizioni emanate dai tribunali amministrativi. L’ipotesi non costituisce un caso di scuola, poiché ha dato luogo a ben due conflitti di attribuzione tra il CSM e gli organi di giustizia amministrativa, pur essendo tali soggetti in vario modo entrambi riconducibili al medesimo Potere giudiziario.

Con riguardo alla prima controversia, la Corte costituzionale, con sent. n. 8 settembre 1995, n. 419, è stata chiamata a decidere su un conflitto promosso dal CSM contro il Tar Lazio, e sollevato in seguito alla nomina da parte di quest’ultimo del Ministro di giustizia quale commissario ad acta, al fine di dare esecuzione ad un’ordinanza cautelare. Riepilogando brevemente il fatto, un magistrato, aspirante a ricoprire un incarico direttivo, aveva impugnato un decreto presidenziale con il quale, conformemente alla delibera del CSM, si nominava altro candidato. Il Tar, conseguentemente, aveva sospeso l’esecuzione del provvedimento di nomina per “carenza di motivazione” ma, in seguito all’inottemperanza del CSM, dopo un primo sollecito, persistendo l’inerzia del Consiglio, con ordinanza aveva nominato commissario ad acta il Ministro di giustizia. Più precisamente, si disponeva di sollevare dall’incarico direttivo il magistrato controinteressato e di immettervi, come supplente, il ricorrente, che svolgeva la funzione contesa al momento dell’adozione del provvedimento sospeso. Il CSM ha così adito la Consulta sostenendo che le proprie deliberazioni, soggette esclusivamente alla giurisdizione di legittimità,

sarebbero sottratte alla fase esecutiva imposta dal Tribunale, pena la violazione delle proprie competenze costituzionali. Inoltre, si asseriva che nemmeno avrebbe dovuto spettare al Ministro di sostituirsi all’organo di “autogoverno” della Magistratura nel prendere provvedimenti nei confronti dei magistrati, non potendosi trarre tale competenza dall’art. 110 Cost.

In linea di massima, la Corte costituzionale ha cercato di minimizzare la portata del contrasto, cercando di dimostrare che in generale l’ottemperanza si risolverebbe in una meccanica esecuzione del provvedimento giurisdizionale, e che il commissario sarebbe dotato di poteri meramente esecutivi, nell’esercizio dei quali non godrebbe di discrezionalità alcuna. Ciò comporta, relativamente al Ministro, che gli effetti dell’attività svolta in qualità di commissario sarebbero riferibili essenzialmente all’organo giurisdizionale, e pertanto non imputabili all’Esecutivo. In gioco non vi sarebbe, dunque, l’esercizio delle competenze ministeriali ex art. 110 Cost., bensì l’adozione di alcuni provvedimenti esercitati nella qualità (non di Ministro ma) appunto di commissario ad acta, e come tali nemmeno attribuibili a quest’ultimo.

Sembra però innegabile che “non sempre e non necessariamente dal giudizio di ottemperanza esuli qualsiasi momento di scelta discrezionale”147, rivelandosi l’esercizio di una vera e propria discrezionalità amministrativa un’eventualità tutt’altro che remota. Nonostante gli sforzi della dottrina148, com’è stato correttamente rilevato l’esecuzione dei provvedimenti del giudice amministrativo comporta “un’ineliminabile integrazione del provvedimento giurisdizionale, connaturata alla dinamica di un’attività giurisdizionale che, per garantire la sua effettività, passa dal controllo sul potere esercitato alla conformazione del potere da esercitarsi ed infine al suo puntuale esercizio”149. Il punto

147

CERRI, Nota in margine ai conflitti fra CSM e TAR Lazio, in Critica del dir., 1995,305. 148

Fra gli altri GIANNINI, Contenuto e limiti del giudizio di ottemperanza, in Atti del convegno sull'adempimento del giudicato amministrativo (Napoli, 23-25 aprile 1960), Milano, 1962, 151; NIGRO, Il giudicato amministrativo e il processo d'ottemperanza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1981, 1157 ss.; PIGA, Giudizio di ottemperanza e violazione di giudicato, in Foro amm., 1981, 242 ss.; SANDULLI, Il problema dell'esecuzione delle pronunce del giudice amministrativo, in Dir. soc., 1982, 19 ss; VIRGA, La tutela giurisdizionale nei confronti della Pubblica Amministrazione, 1982, 424 ss.; DE LEONARDIS, L’ottemperanza nell’amministrazione tra imparzialità e commissario ad acta, Torino, 1995; FERRARA, Dal giudizio di ottemperanza al processo di esecuzione. La dissoluzione del concetto di interesse legittimo nel nuovo assetto della giurisdizione amministrativa, Milano, 2003; CORSARO, Giudizio di ottemperanza ed effettività della tutela, in Foro amm. C.d.S., 2007, 1053 ss.

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MONTEDORO, L’indipendenza del giudice fra amministrazione e giurisdizione. Brevi riflessioni in margine ad un conflitto di attribuzioni fra Consiglio superiore della magistratura e giudice amministrativo in tema di ottemperanze ad ordinanze cautelari, in Foro amm., 1996, 27.

centrale della decisione viene allora ad essere non la questione del carattere vincolato o meno dei provvedimenti da porre in essere nell’ambito della “ottemperanza” ma, ancora una volta, quello del rapporto tra prerogative del CSM e diritto d’azione ex artt. 24 e 113 Cost. Diritto di azione inteso, si noti, non quale possibilità di adire un giudice e di avere risposta da esso, ma quale pretesa ad una tutela effettiva, anche mediante il ripristino dell’ordine violato. Posto che il conferimento di competenze effettuato dall’art. 105 Cost. non può comportare franchigie per il CSM dal sindacato giurisdizionale e che tutti i soggetti costituzionali sono egualmente tenuti al rispetto della legge; definito che il principio di legalità dell’azione della pubblica amministrazione (artt. 28, 97 e 98 Cost.) tutela l’amministrazione medesima soltanto sul presupposto della legittimità dell’esercizio del potere amministrativo, e permette agli organi di giustizia amministrativa di svolgere il sindacato sull’esistenza di questo presupposto; precisato che “una decisione di giustizia che non possa essere portata ad effettiva esecuzione (...) altro non sarebbe che un’inutile enunciazione di principio, con conseguente violazione degli artt. 24 e 113 della Costituzione, i quali garantiscono il soddisfacimento effettivo dei diritti e degli interessi accertati in giudizio nei confronti di qualsiasi soggetto”150, allora si spiegherebbe come la previsione di una fase di esecuzione coattiva del provvedimento giurisdizionale, “in quanto connotato intrinseco ed essenziale della stessa funzione giurisdizionale, debba ritenersi costituzionalmente necessaria”151,

pur se nei confronti di un organo avente rilievo costituzionale quale il CSM. Analoga la vicenda alla base del conflitto risolto dal Giudice delle leggi con sent. 15 settembre 1995, n. 435 (anche se in quest’ultimo caso il conflitto è stato proposto contro un provvedimento del Consiglio di Stato, attraverso il quale si nominava come commissario ad acta non il Ministro di giustizia ma il Vicepresidente dello stesso Consiglio Superiore) e medesime le argomentazioni che hanno spinto ad una sentenza sfavorevole al CSM. In particolare, si è fatto leva, ancora una volta, sul carattere meramente esecutivo dei provvedimenti del commissario ad acta, che risultano specificamente predeterminati nel contenuto dall’organo giurisdizionale e quindi a questo riferibili, e sui princìpi di legalità dell’azione amministrativa e di effettività della tutela giurisdizionale, che

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Corte cost., sent. n. 419 del 1995, cit. 151

sono stati ritenuti “supremi”, e quindi prevalenti rispetto all’opposta esigenza di autonomia decisionale del CSM.

Così ripercorso l’articolato argomentativo e le conclusioni della Consulta, le sentenze in esame si prestano a qualche ulteriore rilievo:

a) innanzitutto emerge l’assenza di una norma di rango costituzionale che espressamente autorizzi l’esecuzione delle sospensive del giudice amministrativo. Questa viene desunta attraverso una complessa opera ricostruttiva dei princìpi generali dell’ordinamento, in tema sia di amministrazione che di diritto d’azione, in seguito alla quale (opera) l’eseguibilità della pronuncia giurisdizionale diviene connotato essenziale ed intrinseco della giurisdizione, assumendo le forme del giudizio di ottemperanza e della nomina di un commissario ad acta, entrambe estese, in via interpretativa, nei confronti del CSM;

b) l’ottemperabilità delle pronunce cautelari non manca di incontrare alcune difficoltà sul piano dommatico. Ciò vale, in particolare, per le c.d. ordinanze propulsive, che sono volte a impartire ordini all’amministrazione e si caratterizzano per l’assunzione di poteri molto penetranti in capo al giudice amministrativo, nonostante la sommarietà del giudizio connaturata al procedimento cautelare. Al di là dell’apporto creativo della giurisprudenza, che ha esteso notevolmente il suo “strumentario” di provvedimenti sospensivi, il giudizio di ottemperanza talvolta assume anche il carattere di giudizio di merito nella sua accezione più pregnante, nel senso che implica valutazioni ampiamente discrezionali. Il che sembra verificarsi nei casi di specie152. E le perplessità per una simile “emersione” del ruolo dell’organo giurisdizionale, dovrebbero forse valere al massimo grado ove oggetto di giudizio sia un atto proveniente dal Consiglio superiore (rectius: formalmente proveniente dal Capo dello Stato, ma di “spettanza”, ai sensi dell’art. 105, del Consiglio superiore), ed ampiamente discrezionale;

c) alla luce delle considerazioni appena esposte, si spiega l’insistere della Consulta, specie nella prima pronuncia, sul dato che la sospensione del provvedimento di nomina impugnato implica necessariamente l’emergere dello satus quo ante, ossia il ripristino della situazione di fatto e di diritto preesistente a quella venuta in vita in seguito all’emanazione dell’atto impugnato. Situazione che vedeva, nel caso sottoposto all’esame della Consulta, come reggente dell’ufficio lo stesso ricorrente. Dev’essere

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quindi considerata soltanto un’eccezionale coincidenza che all’effetto derivante dalla sospensione della nomina sia corrisposta la soddisfazione del ricorrente all’investitura nell’ufficio: “normalmente, l’unico interesse legittimo prospettabile sarà quello ad essere nuovamente valutato, dopo l’annullamento dell’atto impugnato”153, conformemente alla regola fissata dal giudice amministrativo. Ove si andasse oltre il mero ripristino dello status quo ante, non solo il provvedimento cautelare perderebbe il suo carattere di strumentalità necessaria rispetto alla decisione di merito (carattere che della misura cautelare costituisce l’essenza), ma sembrerebbe dare luogo ad una macroscopica illegittimità, spingendosi il giudice amministrativo a sostituirsi alla discrezionalità che dalla Costituzione e dalla legge ordinaria è riservata al CSM;

d) a solo parziale temperamento dei rilievi critici appena svolti, resta ovviamente il fatto che il Consiglio superiore, per così dire, “se l’era proprio andata a cercare”154, in quanto avrebbe potuto dare autonomamente esecuzione ai provvedimenti dei giudici amministrativi per evitare di essere prevaricato nell’esercizio delle sue prerogative.

Il vero problema pare tuttavia essere a monte. Una volta ammesso il sindacato del giudice amministrativo, infatti, ne consegue quasi necessariamente che l’attuazione della pronuncia non possa essere rimessa alla volontà della parte soccombente. L’appello al massimo self restraint del giudice amministrativo nella fase di attuazione del provvedimento al fine di non dare luogo ad indebite ingerenze sulle competenze riservate al Consiglio sembra, però, passare in secondo piano se messo a confronto con la gravità della situazione che si verifica qualora il sindacato dello stesso giudice, durante il processo d’impugnazione della delibera consiliare, giunga ad assumere come oggetto il merito delle scelte e delle valutazioni effettuate dal CSM nella nomina agli uffici direttivi. Ipotesi, quest’ultima, non estranea almeno al primo caso sottoposto all’attenzione della Consulta, che ha avuto inizio da una sospensione del provvedimenti consiliari per “carenza di motivazione”.

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MONTEDORO, Op. ult. cit., 30. 154