• Non ci sono risultati.

L’art 3 della Costituzione quale criterio ordinatore del

La giurisprudenza (specie) costituzionale, in ultima analisi ha avuto il merito di mettere in evidenza come il sindacato giurisdizionale sugli atti del CSM, sebbene incida negativamente sull’autonomia del Consiglio, non sia però suscettibile di compromettere l’indipendenza del singolo giudice, essendo anzi complementare a quest’ultima. Resta ora da precisare meglio i referenti normativi di ciò che sembra (e che viene, generalmente, dato come) scontato: la necessità di tutelare il singolo giudice anche nei confronti del CSM. A ben vedere, è proprio a questo interrogativo che può essere ridotto il dibattito sui “giudici del CSM”: all’opportunità di predisporre uno strumento di garanzia dei magistrati nei confronti del loro organo di “autogoverno”, in attuazione degli artt. 24 e 111 della Costituzione.

La soluzione alla problematica sembra peraltro essere già suggerita dai punti d’arrivo cui si è pervenuti in queste ultime pagine: il rilievo che le attribuzioni funzionali del CSM sono strumentali alla tutela dell’autonomia ed indipendenza della Magistratura, le quali ultime sono preordinate ad assicurare l’indipendenza del singolo giudice, indipendenza che, in un

ideale percorso ascendente, è a sua volta improntata a garantire il fondamentale principio della subordinazione del giudice soltanto alla legge nel concreto esercizio della funzione giurisdizionale (o, per quanto concerne l’ufficio del pubblico ministero, nell’esercizio dell’azione penale), sembra di per sé sufficiente a ricondurre il quesito alla categoria delle domande retoriche: è evidente, sulla base di queste sole premesse, la priorità dell’esigenza di tutela del singolo organo giurisdizionale.

Simile conclusione, che pure non s’intende contestare nei suoi elementi essenziali, richiede però di essere ulteriormente motivata. A questo fine, ci sembra utile fare qualche passo indietro, portando l’attenzione alla nostra stessa forma di Stato. E’ quasi superfluo ricordare come un portato fondamentale dell’avvento dello Stato liberale di diritto sia stato quello di concepire non più l’individuo al sevizio dello Stato (a differenza di quanto avveniva con l’assolutismo, in riferimento al quale si parlava, coerentemente, di “sudditi” piuttosto che di “individui”), ma al contrario l’apparato statale al servizio dell’individuo, trovando lo Stato il fine ultimo della sua organizzazione nella persona umana. Appare dunque fondamentale, ai nostri fini, la determinazione degli interessi individuali ai quali l’organizzazione costituzionale della Magistratura è specificamente improntata.

Nel complessivo disegno costituzionale, sembra assumere rilievo, a questo proposito, l’art. 3 comma 1, ai sensi del quale “tutti i cittadini (...) sono uguali davanti alla legge”. E’ questo il principio d’uguaglianza di fronte alla legge che, lo si evince dalla stessa costruzione sintattica della frase, è rivolto direttamente al Legislatore. Al contrario, nella vigenza degli artt. 24 e 25 dello Statuto albertino, con l’affermazione “la legge è uguale per tutti” ci si rivolgeva all’amministrazione pubblica ed ai giudici, ossia “ai soggetti incaricati di dare esecuzione alla (e di applicare la) legge”116. Tuttavia, il principio di uguaglianza formale, che pure trova nel Parlamento il suo interlocutore privilegiato, presuppone logicamente di essere osservato anche nel momento prettamente applicativo del diritto, ossia in quello giurisdizionale. A nulla varrebbe, infatti, imporre al Legislatore il divieto di introdurre deroghe alla generale efficacia della legge, se poi l’introduzione delle medesime (deroghe) fosse consentita agli organi istituzionalmente preposti ad applicare la stessa in via autoritativa. Appunto perciò, se è vero che l’eguaglianza innanzi al giudice (“la legge è uguale per tutti”) non si

116

traduce necessariamente nell’uguaglianza di tutti davanti alla legge, vero è anche che la seconda presuppone la prima, in una sorta di rapporto contenente/contenuto. L’uguaglianza, o meglio l’interesse di tutti i cittadini di essere trattati nel medesimo modo in sede di applicazione della legge, assurge così a valore tendenziale al quale deve essere improntata l’azione della Magistratura, e quindi costituisce il fine ultimo al quale è preordinata tutta la disciplina del Titolo IV, parte II, della Costituzione.

Da tale considerazione è possibile trarre conseguenze ulteriori per quanto concerne l’Ordine giudiziario.

Innanzitutto, il diritto di ogni cittadino di essere giudicato, all’interno del processo, alla stregua di tutti gli altri, è prospettabile soltanto in presenza di un giudice imparziale, ossia posto in posizione di equidistanza sia dalle parti che dagli interessi in gioco. Il superamento dei tribunali speciali, cioè di quei giudici istituiti in riferimento allo status della persona da giudicare (ad esempio di ecclesiastico, di aristocratico, militare ecc.); l’opzione in favore dell’unità della giurisdizione (art. 102 Cost.), la quale risponde all’assunto che l’uniformità degli organi giudicanti sia il primo passo per garantire appunto l’uguaglianza nei, oltre che dei, giudizi; l’enunciazione del principio del giudice naturale precostituito (art. 25 Cost.), che richiede l’indicazione legislativa, ex ante ed in via astratta, del giudice competente a decidere su una data controversia (il quale non può quindi essere individuato, nemmeno dal Legislatore, ex post e in concreto117); ma anche gli stessi artt. 24 e 113 della Costituzione, che hanno lo scopo di ribadire l’uguaglianza di tutti i cittadini relativamente alla possibilità di chiedere e di ottenere tutela giurisdizionale, nonché di difendersi in giudizio sia nei confronti degli altri privati che dello Stato, sono gli istituti nei quali maggiormente si palesa l’esigenza d’imparzialità. Esigenza il cui fondamento positivo non è più desumibile soltanto per via induttiva dall’art. 3 della Costituzione118, trovando – in seguito alla riforma effettuata con l. cost. 23 novembre 1999, n. 22 – espresso ed integrale

117

NOBILI, Il giudice nella società contemporanea ed i criteri di assegnazione delle cause, in Riv. dir. proc., 1974, 77 ss. In particolare, mentre la “precostituzione” comporta l’esclusione di norme retroattive, la “naturalità” si riferisce alla competenza del giudice, richiedendo che, oltre all’organo giudiziario, anche il quantum di giurisdizione ad esso attribuita sia previamente determinato. In altre parole, naturale è il giudice cui una determinata causa sia stata assegnata seguendo i normali criteri di competenza.

118

Seguendo questa impostazione, la Corte costituzionale, già nella sentenza 31 marzo 1965, n. 17, ebbe modo di precisare che il “primo fondamento” dell’imparzialità del giudice “risiede nell’art. 3 della Costituzione”, il quale esige “che ogni giudice operi in condizione di assoluta estraneità e indifferenza – e perciò di neutralità – rispetto agli interessi in causa”.

riconoscimento costituzionale nel nuovo comma 2 dell’art. 111, ove si sancisce che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo ed imparziale”119. E, come ha più volte avuto modo di rilevare la Corte Costituzionale120, la specifica menzione dell’imparzialità all’interno dell’art. 111 non deve essere intesa alla stregua di un’innovazione che ha reso più labile il collegamento tra il principio d’uguaglianza e l’imparzialità, ma anzi come una conferma di tale derivazione. Stando alle argomentazioni della Consulta, il fondamento normativo dell’imparzialità sarebbe anzi costituito proprio dal combinato disposto degli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione.

Ma un ulteriore e primario referente normativo dell’imparzialità sembra essere rappresentato anche dall’art. 101 della Costituzione: quale strumento migliore a garanzia dell’imparziale applicazione della legge, del dover giudicare senz’altra soggezione se non quella alla sola legge? Lo stretto legame tra indipendenza ed imparzialità, che pure emerge con inequivocabile chiarezza sul piano logico e non necessiterebbe di ulteriori riprove, trova eco anche nell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (a cui, non a caso, si è ispirata la revisione costituzionale dell’art. 111), il quale recita che “ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza (...) davanti a un tribunale indipendente ed imparziale”.

Venendo ad un esame più in dettaglio, seppur inevitabilmente sintetico, del rapporto tra indipendenza ed imparzialità, esso può essere ricostruito sulla base di tre passaggi fondamentali:

- l’indipendenza si riferisce sia all’esercizio della funzione giurisdizionale, che ai singoli organi giurisdizionali; l’imparzialità attiene soltanto all’esercizio della funzione;

- l’indipendenza (ed in particolare quella organica o istituzionale) “è requisito che deve sussistere nell’organo giurisdizionale prima e indipendentemente dall’instaurazione di fronte ad esso di un rapporto

119

La terzietà, che gode di autonoma menzione accanto all’imparzialità, sembra doversi distinguere da quest’ultima poiché implica non l’equidistanza del giudice dagli interessi delle parti, ma il fatto che questi non sia parte in senso tecnico del processo. Di conseguenza, mentre l’imparzialità è riferibile sia al giudice, sia al pubblico ministero (si pensi all’art. 358 c.p.p, che prevede che il p.m. svolga accertamenti anche a favore della persona sottoposta alle indagini), la terzietà non è prerogativa di quest’ultimo, in quanto esso è, al contrario, parte nel processo.

120

processuale, mentre l’imparzialità (...) è rilevabile solo dopo l’instaurazione del rapporto giuridico processuale”121;

- di conseguenza, l’indipendenza, “in quanto volta a fare in modo che il giudice non sia istituzionalmente collegato a nessun altro soggetto, è lo strumento per garantire l’imparzialità del giudice”122

Ergo: la perentoria formulazione dell’art. 101 è diretta ad evitare qualsiasi condizionamento nell’esercizio concreto della giurisdizione, e la soggezione alla legge, quale primo presupposto dell’imparzialità, assume le vesti di requisito oggettivo della funzione giurisdizionale.

Di conseguenza, risulta ora palese che, se l’imparzialità è lo strumento essenziale per la garanzia del diritto all’uguaglianza delle parti in un processo, e se l’assoluta subordinazione alla legge è requisito preliminare per assicurare l’imparzialità del giudizio, allora l’indipendenza organica, attraverso la quale il giudice viene tutelato in quanto tale, ossia a prescindere dell’esercizio concreto della funzione giurisdizionale, diviene condizione strumentale (oltre che fondamentale) per il raggiungimento di entrambi i fini. La ratio dell’indipendenza organica è appunto, come si è anticipato, quella di evitare che, attraverso la possibilità d’influenzare l’organo istituzionalmente preposto alla giurisdizione (ad esempio attraverso trasferimenti, sanzioni disciplinari, progressione economica ecc.) si giunga ad alterare, seppur indirettamente, l’indipendenza (rectius: la soggezione alla sola legge) della funzione.

Come si è visto, inoltre, l’indipendenza organica, in ragione del fine cui è preposta – ossia della primaria esigenza di legalità della giurisdizione – riceve nel testo costituzionale una tutela particolarmente estesa. Da un lato, l’autonomo svolgimento delle funzione giurisdizionale viene assicurato garantendo gli organi titolari della stessa da interferenze provenienti sia dagli altri poteri, sia dagli uffici giudiziari sovraordinati (indipendenza esterna/interna); dall’altro lato, non ci si accontenta di proteggere, accanto all’esercizio concreto della funzione, il singolo giudice, ma si provvede a garantire anche l’autonomia e l’indipendenza dell’intero Ordine giudiziario (indipendenza della Magistratura: art. 104 Cost.). Ed un simile disegno, giunge a completamento con l’istituzione, da parte nella stessa Carta fondamentale, di un organo anch’esso indipendente (in quanto sottratto da rapporti gerarchici con l’Esecutivo), e dotato di funzioni

121

ZANON-BIONDI, Op. cit., 90. 122

espressamente enumerate in ordine alla gestione della carriera dei magistrati: il CSM, che rappresenta l’ultimo ma fondamentale “anello” delle guarentigie della Magistratura123.

In estrema sintesi, dalla lettura della Carta fondamentale si evince come l’indipendenza del magistrato all’interno del corpo giudiziario debba prevalere sull’autonomia e l’indipendenza del Potere giudiziario, semplice “corollario” 124 del primo valore. Non solo, quindi, il CSM non “governa” i giudici, amministrandoli soltanto; ma, soprattutto, questi ultimi godono d’indipendenza anche nei confronti del CSM stesso.

Per dare l’ultima parola alla Corte costituzionale, nel patrimonio di beni compresi nello status professionale dei giudici “vi è anche quello dell’indipendenza, la quale, se appartiene alla magistratura nel suo complesso, si puntualizza pure nel singolo magistrato, qualificandone la posizione sia all’interno che all’esterno: nei confronti degli altri magistrati, di ogni altro potere dello Stato e dello stesso Consiglio superiore della magistratura”125.