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Capitolo II. «Vita mea multorum salus» Il pensiero scientifico e la critica della

1. Dal rifiuto dell’alchimia all’adesione alla iatrochimica

La produzione scientifica di Angelo Forte mostra una chiara evoluzione del suo pensiero a proposito dell’arte alchemica, che passa dalla curiosità giovanile, documentata dalle notevoli conoscenze che il medico dispiega (pur confutandole) nel suo Verità de la alchimia, ad un deciso rifiuto che prende forma nelle opere successive, soprattutto a partire dall’Opera nuova del 1532. La possibilità di trasformare i metalli semplici in oro, insieme alle altre ‘meraviglie’ comprese nel repertorio classico dell’arte alchemica, come la fabbricazione della pietra filosofale e dell’uomo artificiale, sono dunque respinte senza riserve e l’alchimia stessa è definita «scelerata, iniqua, e falsa, causa de tanti mali».

Una posizione, questa, condivisa da numerosi filosofi naturali nonché intellettuali coevi al Forte, primi tra tutti Agrippa ed Erasmo. Se il primo sosterrà nel suo De incertitudine et vanitate scientiarum che essa «è notabile e non punita truffa», il secondo nell’Elogio della Follia parlerà degli alchimisti come di pazzi che nella loro «inane ricerca consumano vita ed averi, autentica personificazione della follia che regge il mondo»1.

Lo statuto dell’alchimia era d’altronde incerto in quanto, pur essendo pratica assimilata alla necromanzia già nel Directorium inquisitorum di Nicolas Eymerich (1376) e ripetutamente condannata dalla Chiesa romana (a partire dalla Spondet quas non exhibent di Giovanni XXII del 1317), e ancora nella Demonomania di Bodin e nel commentario del Peña al Directorium uscito nel 1578, nel quale prende forma addirittura «un trait d’union teologale fra accusa di follia e adorazione del diavolo»2 – dove i folli sono naturalmente gli alchimisti –, d’altro canto l’alchimista è l’uomo che permette «repentini arricchimenti» e, in quanto tale, «personaggio di spicco alla corte di papi, imperatori, principi, potenti: da essi

1 Cfr. L. Parinetto, Alchimia e utopia, Milano, Mimesis, 2004, p. 22. 2 Ivi, p. 27.

corteggiato e lusingato proprio per il presunto magistero sul potere economico»3. Da questa loro duplice e contrastante natura di personaggi perseguiti e corteggiati, deriva secondo Allard la configurazione degli alchimisti come dei marginali, utili talvolta agli interessi della comunità, ma di cui non era possibile una integrazione sociale istituzionalizzata: essi rimanevano dunque al margine delle gerarchie sociali, considerati alternativamente come maestri, semplici artigiani o meri truffatori4. Tuttavia, ferma restando la convinzione del Forte che essi appartenessero a quest’ultima categoria, egli non nega la possibilità di manipolare la natura a proprio favore, a patto che sia chiaro che alle sostanze composte possono essere apportate solo modifiche, generazioni e corruzioni che rientrano nei processi naturali, ma non si possono creare ex novo oggetti soprannaturali quali l’elisir, l’homunculus o l’oro potabile5.

È questa una posizione che si ritrova in molti filosofi naturalisti contemporanei del Forte, che spesso per il loro interesse verso i segreti della natura furono considerati ‘maghi’ dai loro contemporanei (un caso esemplare è quello di Giovan Battista della Porta); eppure questi personaggi, affascinati dalle forze misteriose di cui è intessuto il mondo naturale sotto l’impulso dell’entusiastica riscoperta del neoplatonismo, sembrano decisi a rifiutare la possibilità che si possa manipolare la materia diversamente da quanto imposto dalla legge di natura. Essi mutuano questa convinzione direttamente da Aristotele, quando sostiene che «i fenomeni che vengono prodotti dalla combinazione delle quattro radici non sconfinano mai nel prodigioso»6. Su questa base si innestava il dibattito sull’alchimia che andava avanti già dal Duecento, cioè da quando Ruggero Bacone aveva posto nel binomio natura-arte il nodo fondamentale della scienza alchemica: fino a che punto, attraverso l’arte, si poteva replicare o addirittura superare l’opera della natura7? Allineandosi alla posizione di Aristotele, quasi tutti gli umanisti rifiuteranno

3 Ivi, p. 30.

4 Cfr. G. H. Allard, Aspects de la marginalité au Moyen Âge, Montreal, L’Aurore, 1975, pp. 153- 154.

5 Cfr. P. Zambelli, L’ambigua natura della magia, Venezia, Marsilio, 1996, p. 18.

6 Ibid. Tra i testi attribuiti allo Stagirita sono presi in considerazione in particolare il De

mineralibus e i Meteorologica.

7 Sui protagonisti e le problematiche dell’alchimia medievale cfr. ad esempio C. Cresciani, La

“quaestio de alchimia” fra Duecento e Trecento, «Medioevo», II, 1976 e M. Pereira, L’alchimia medievale ed alcuni studi recenti, «Annali dell’Istituto e Museo di Storia della Scienza di

l’idea che l’alchimia chiamasse in causa forze soprannaturali, e muoveranno a tale pratica critiche simili a quelle esposte dal Forte8. Il medico corfiota sostiene infatti che l’unico modo in cui l’alchimista può ottenere attraverso l’arte ciò che in natura si genera spontaneamente, è comprendere «in che modo opra, informa, e fa, la mirabile maestra Natura» e replicando le sue immutabili leggi.

La fisiologia di Forte, che emerge chiaramente a partire dall’Opera nuova, si basa in effetti sul corpuscolarismo9, che in questo periodo vedeva una nuova diffusione sia grazie alla riscoperta di Lucrezio10 sia grazie alla disputa sui minima naturalia, che coinvolse personaggi come Agostino Nifo e Giulio Cesare Scaligero11, e che avrebbe presto attratto i paracelsiani: infatti, come nota Clericuzio, «Parecelsian views (semina, spirit and, in general, the vitalistic conception of nature) coexisted with atomic doctrines»12. Ad esempio un altro alchimista veneziano, Giovanni Agostino Panteo, sosteneva nel suo Ars trasmutationis metallicae del 1519 che la materia, la mixtio, è composta dai minima, che sono indivisibili13. Allo stesso tempo, nell’opera di Girolamo Fracastoro (e come si vedrà, anche in quella di Forte) i semina rerum, che fino a quel momento erano considerati come principi attivi ed immateriali, «received a clear corpuscolar interpretation, wich in fact originated from Lucretius»14. Sulla linea degli atomisti si mantiene dunque anche Forte, secondo cui «la provvida maestra natura, possede materia (per la

8 Così farà Cornelio Agrippa nel suo De vanitate, e così anche Giovanfrancesco Pico e il suo sodale Lilio Gregorio Giraldi, che era in contatto a Venezia con umanisti greci come Zaccaria Calliergi e Nicola di Chio (infatti li nomina nella sua opera De Poetis nostrorum temporum dialogi

duo, stampate a Basilea nel 1545), tutti appartenenti alla cerchia di Antonio Eparchos e Nicola

Sofianos che annoverava anche il Forte. Cfr. F. Secret, Pico della Mirandola, L. G. Giraldi et

l’alchimie, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», XXXVIII, 1976, pp. 93-108.

9 Cfr. G. B. Stones, The Atomic View of Matter in the

XVth, XVIth, and XVIIth Centuries, «Isis», X,

1928, pp. 445-465, A. Pyle, Atomism and Its Critics: From Democritus to Newton, Bristol, Thoemmes Press, 1995, e gli studi di T. Gregory, ora raccolti in Genèse de la raison classique de

Charron à Descartes, traduit par M. Raiola, préface de J.-R. Armogathe, Paris, Presses

Universitaires de France, 2000.

10 Dopo la scoperta da parte di Poggio Bracciolini, nel 1417 di un manoscritto del De rerum

natura, sarà, non a caso, proprio Erasmo con il suo Epicureus del 1524 a riportare in auge

l’epicureismo, che durante il Medioevo era stato rifiutato non tanto per i suoi aspetti cosmologici, ma per le sue conseguenze etiche, in ovvia contraddizione con la dottrina cristiana. Cfr. Erasmo da Rotterdam, Epicureus, in Colloquia, a cura di C. Asso, Torino, Einaudi, 2002.

11 Cfr. A. Clericuzio, Elements, principles and corpuscles: a study of atomism and chemistry in the

seventeenth century, Heidelberg, Springer, 2001, pp.11-12.

12 Ivi, p. 4.

13 Sul Panteo cfr. A. Perifano, L’alchimie à la Cour de Côme Ier de Médicis: savoirs, culture et

politique, Paris, Honoré Champion, 1997.

generatione) de corpuscoli che cumula, aduna e congrega, separa, divide e disperge, e continuamente in tal esercitio con maraviglia si opra, di manera che tra le tante operatione sue, resultano concordanti e proprie, e quelle sono varie come tu vedi nel mondo le cose generate»15.

Mantenendo fermo questo concetto, il Forte nel corso della sua speculazione si avvicina sempre più, pur senza mai citarlo direttamente, a quanto sostenuto da Paracelso e in generale ai fautori della medicina iatrochimica16, che si basava su presupposti fisiologici completamente diversi rispetto a quelli della dottrina degli umori canonizzata da Galeno, e teorizzava una farmacopea basata non sugli studi botanici fondati sulla tradizione classica, ma sulla manipolazione di minerali e metalli grazie a procedimenti di matrice prettamente alchemica, e dunque particolarmente adatta ad attirare i curanti che si ponevano in contrasto con la medicina ufficiale. D’altro canto è bene precisare che «it would be wrong to consider the impact of chemistry on pharmacy solely in terms of unorthodox practitioners of more or less Paracelsian sympathies, despite all their success in attracting followers. Also important were less ostentatious influences felt within the mainstream of orthodox medicine»17.

L’uso di medicinali di origine minerale era infatti contemplato fin dall’antichità accanto a quelli di natura animale e vegetale: la tradizione medica di prendere in prestito temi e pratiche dall’alchimia, «wich owned so much to Ramon Lull, Arnoldus of Villanova and John of Rupescissa, was also well established by the sixteenth century»18, soprattutto per quanto riguarda l’uso delle tecniche di distillazione, che trovava credito sia tra i medici ortodossi che tra quelli eterodossi, come si evince da pubblicazioni quali il Liber de arte distillandi del chirurgo francese Hyeronimus Brunschwig (Strasburgo 1512) e il Thesaurus Evonymi Philiatri di Konrad Gessner, stampato nel 1552, che ebbe una grande

15

A. Forte, Opera nuova…, cit., 6v-7r.

16 Si vedano A. Clericuzio, Agricola e Paracelso: mineralogia e iatrochimica nel Rinascimento, «Nuova Civiltà delle Macchine», XII, 1994, 2/3, pp. 113-121; Id., Elements, principles and

corpuscles, cit.; Id., Chemical Medicine and Paracelsianism in Italy (1550-1650), in The practice of reform in health, medicine, and science, 1500-2000, a cura di S. Mandelbrote e M. Pelling,

Aldershot, Ashgate, 2005, pp. 59-79.

17 Cfr. R. Palmer, Pharmacy in the Republic of Venice in the Sixteenth Century, cit., p. 114. 18 Ivi, p. 115.

influenza in Italia grazie alle edizioni latine e italiane stampate a Venezia nel 1556.

Comunque sia, l’affermarsi delle dottrine paracelsiane in Italia fu lento e tardivo, forse anche a causa della censura post-tridentina che associò l’autore al mondo riformato inizialmente più per la sua provenienza che per il contenuto delle sue opere; se da un lato esse circolarono in una versione generica in ambienti prevalentemente popolari per mezzo dei libri di segreti, se ne ebbe tuttavia anche un’utilizzazione specifica, consapevolmente innovatrice sul piano medico e conoscitivo, seppure in un’ottica prevalentemente pratico-operativa19. Dunque, negli ambienti chemiatrici italiani, la ricezione non fu completa, poiché la prassi spagirica della Penisola privilegiava da sempre l’aspetto concreto e operativo sulla tradizione mistica sottostante all’opera alchemica, per cui le innovazioni paracelsiane vennero accolte soprattutto nei loro risvolti tecnici, in particolare quello dell’arte distillatoria, che introdusse effettivamente un modo nuovo di ricavare i principi attivi dalle sostanze curative, servendosi appunto di processi alchemici come la distillazione e la sublimazione; un esempio tra tutti è quello del medico pratico Tommaso Zefirele Bovio (1521-1609), che, nel suo Flagello de’ medici rationali, stampato a Venezia nel 1583, dava prova di notevole dimestichezza con la farmacopea paracelsiana.

Un’eccezione, almeno nel panorama cinquecentesco, è rappresentata tuttavia da Leonardo Fioravanti, che come il Bovio delle opere dello spagirico tedesco ebbe diretta conoscenza, ma a differenza di quest’ultimo riprese alcune nozioni filosofiche all’interno dei suoi scritti, dando prova di considerare valide le sue teorie non solo per quanto riguardava gli aspetti farmacologici, ma anche quelli teorici e cosmologici.

Quella paracelsiana fu dunque un tipo di medicina che si poneva in modo decisamente alternativo rispetto a quella in auge negli studia rinascimentali, dove, complice la riscoperta dei classici nelle traduzioni dal greco, imperversava un nuovo fervore per il ‘vero’ Ippocrate e il ‘vero’ Galeno, così come dovevano apparire ai medici umanisti una volta liberati dalle incrostazioni delle lezioni

19 Cfr. M. Ferrari, Alcune vie di diffusione in Italia di idee e di testi di Paracelso, in Scienze,

credenze occulte, livelli di cultura. Atti del Convegno internazionale di studi (Firenze, 26-30

medievali. Di contro, la medicina iatrochimica respinge le auctoritates sia nella loro versione medievale che in quella ‘purificata’ dagli umanisti, per giungere a proporre una teoria della cura nuova e inaudita, che prevede di utilizzare come farmaci, invece dei semplici universalmente adottati dagli speziali e dai farmacisti – provenienti in gran parte dalla tradizione monastica – dei composti minerali, le cui proporzioni dovevano essere ricavate da precise valutazioni astrologiche: un metodo di cura, quindi, strettamente connesso allo studio dell’influsso degli astri sul mondo sublunare e in particolare sull’uomo.

Questo apriva naturalmente la strada ad una stretta connessione tra astrologia e medicina, che poteva a volte pericolosamente sconfinare nella divinazione (nonostante quast’ultima fosse una pratica censurata dall’autorità ecclesiastica) e che comunque portava nuova linfa a tutte quelle dottrine che si nutrivano del binomio microcosmo-macrocosmo, ed in particolare la fisiognomica, la melotesia e la metoposcopia, che in questo periodo vissero infatti un momento di grande fortuna, e di cui il Forte fu, come si vedrà, un fervente sostenitore.

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