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Il danno non patrimoniale secondo la giurisprudenza: tra sanzione e risarcimento

La questione della risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento è stata affrontata dalla giurisprudenza (nei diversi settori in cui si esplica la sua attività, e soprattutto in civile ed in penale) non senza difficoltà. La peculiare attualità della problematica nonché la sua riproposizione nelle relazioni interpersonali con una quotidianità e frequenza sempre crescente – dovuta anche all’ampliamento dell’ambito di operatività della responsabilità contrattuale in conseguenza, tra l’altro, del ricorso alla teoria del contatto sociale qualificato – ha richiamato l’attenzione dei Giudici su di un tema, per vero, non molto dibattuto sino agli anni settanta. È, infatti, con l’avvento dei diritti della personalità e delle teorie sul danno non patrimoniale che la questione si presenta nelle aule dei Tribunali del nostro Paese in tutta la sua complessità ed ampiezza.

Da un esame delle pronunce in merito è possibile rilevare un approccio della giurisprudenza diverso rispetto a quello della dottrina. Si coglie, infatti, nei Giudici una certa difficoltà (quanto meno iniziale) nel superare il dettato dell’art.2059 c.c. e, conseguentemente, nell’esaltare il combinato disposto degli artt.1174 e 1218 c.c., onde affermare la tesi favorevole, in quanto si riteneva, almeno in un primo momento, più prudente contenere le pretese risarcitorie in ragione della necessità di salvaguardare l’intero sistema della responsabilità civile dal pericolo di condanne al pagamento di danni (quelli non patrimoniali appunto) il cui accertamento, essendo particolarmente complesso nell’an e nel

quantum debeatur, poteva, almeno in astratto, essere condotto sulla base di

valutazioni talmente generiche e sommarie da comportare il conseguente riconoscimento alla pretesa risarcitoria di una funzione anche “punitiva” del tutto estranea alla finalità propriamente riparatoria caratterizzante l’istituto del risarcimento nel nostro ordinamento giuridico.

La tematica, dunque, inerente alla risarcibilità del danno non patrimoniale (anche da inadempimento) è stata affrontata dalla giurisprudenza dapprima con riguardo al binomio “sanzione-danno” ed ai differenti criteri di determinazione dell’una e dell’altro. È, infatti, indubbio che la sanzione non sia parametrata soltanto alla “gravità del danno” arrecato al bene giuridico tutelato dalla norma primaria violata, dovendo assolvere anche ad una funzione di carattere special-preventivo, idonea ad indurre il trasgressore a non commettere in futuro ulteriori infrazioni della medesima specie. Quest’ultima componente è del tutto estranea al risarcimento del danno, in quanto nel concetto di riparazione non c’è anche quello di afflizione, essendo quello risarcitorio un istituto volto a salvaguardare la situazione del danneggiato e non, invece, a punire il danneggiante.

Inoltre, anche il parametro di riferimento è diverso; se, infatti, per il risarcimento si deve avere riguardo soltanto alla gravità del danno patito dalla vittima (laddove per danno si intende quello in concreto risarcibile), nella sanzione è la gravità del fatto, nella sua più ampia accezione, a determinare l’entità della violazione, con la necessaria specificazione che in tali casi si dovrà avere riguardo non solo alla gravità del danno arrecato al bene giuridico protetto, ma anche alle molteplici circostanze che hanno contraddistinto la condotta del trasgressore (nelle sue componenti oggettive e soggettive). Per cui la gravità del fatto costituisce, per le sanzioni, un parametro di riferimento talmente ampio da comprendere la gravità del danno senza esaurirsi in essa.

Sul punto si coglie la profonda diversità strutturale tra la responsabilità civile e quella penale, così come chiaramente precisata dalle S.U. n°581 del 2008. Questa decisione affronta il tema relativo ai rapporti tra causalità civile e causalità penale, ma per risolvere tale questione la Cassazione si occupa anche delle diversità tra le due responsabilità, precisando che, in primo luogo, la finalità della responsabilità penale è il soddisfacimento di esigenze retributive (o general-preventive) e, quindi, sanzionatorie dell’autore del reato, mentre la responsabilità civile assolve ad una funzione squisitamente riparatoria. In secondo luogo, mentre la responsabilità penale ha per oggetto la condotta del reo, la responsabilità civile tende a tutelare il danneggiato e non a punire il danneggiante. Il che implica una diversità di principi, in quanto se la responsabilità penale, avendo riguardo al presunto autore del reato, deve essere

contraddistinta da una serie di garanzie (quali, il principio di legalità, di tipicità, il divieto di analogia, ecc…), la responsabilità civile, invece, non le presuppone (tanto è vero che l’illecito civile si contraddistingue per la sua atipicità). In terzo luogo, il concorso della vittima nella determinazione del fatto assume una rilevanza differente, in quanto se nell’illecito civile può rilevare, ai sensi dell’art.1227 c.c., come fattore di riduzione del risarcimento del danno cagionato (c.1) o di esclusione della riparazione dei danni che il danneggiato avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza(c.2), nell’illecito penale non incide sulla responsabilità del reo, a meno che non costituisca concausa da sola sufficiente a determinare l’evento ex art.41 c.2 c.p. (in tal caso dovendosi ritenere superato il nesso di causalità materiale intercorrente tra la condotta del reo e l’evento verificatosi). Inoltre, differiscono anche i criteri di imputazione della responsabilità, poiché quella civile ammette ipotesi di responsabilità oggettiva, mentre quella penale le esclude, essendo soggetta al principio di personalità ex art.27 c.1 Cost. (soprattutto dopo Corte Cost. nn.364 e 1085 del 1988).

Siffatti rilievi devono essere tenuti presenti nell’esame delle pronunce della giurisprudenza, poiché hanno influito non poco sulla concezione del danno non patrimoniale, in genere ed, in particolare, del danno morale da reato, come si dirà da qui a un momento, soprattutto perché l’originario e quasi esclusivo legame del danno morale con l’illecito penale aveva indotto i Giudici a ritenere applicabili al risarcimento di siffatti pregiudizi gli stessi criteri dalla legge stabiliti per la determinazione della pena. Donde, il procedimento induttivo che risalendo dal particolare al generale, e muovendo dalla predetta considerazione, portava a concludere nel senso di riconoscere al danno non patrimoniale in generale un carattere sanzionatorio.

Il dilemma concernente la natura giuridica del danno non patrimoniale ha costituito una questione costante nelle pronunce dei Giudici sia di merito che di legittimità, avendo, infatti, costoro quasi sempre avvertito la necessità di chiarire se quello in esame fosse propriamente un danno da risarcire oppure una sanzione da comminare. La giurisprudenza penalistica (chiamata a pronunciarsi su tali questioni in anticipo rispetto a quella civilistica, in virtù del sistema processuale vigente prima dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale) ha affrontato la questione con riguardo al risarcimento del danno morale

di cui all’art.185 c.p., dovendo decidere se ricondurlo alla categoria delle sanzioni ovvero in quella propriamente dei danni, onde definire la relativa disciplina da applicare, soprattutto per quanto concerne l’individuazione dei criteri di determinazione del quantum debeatur. E poiché nel danno non patrimoniale il tema probatorio della liquidazione è inevitabilmente affrontato e risolto mediante il ricorso a valutazioni di tipo equitativo ex art.1226 c.c., appare comprensibile il timore della giurisprudenza in ordine alla possibilità che in tali casi il risarcimento costituisca strumento utile a celare a titolo di riparazione la comminazione di vere e proprie sanzioni private nei confronti del danneggiante.

Si tratta di una problematica di non poco momento, atteso che se le nozioni di danno e sanzione se su un piano astratto sono chiaramente distinte, sul piano pratico, invece, proprio con riguardo ai danni non patrimoniali sembrano sovrapporsi a causa delle difficoltà oggettive implicante la liquidazione di tali pregiudizi; ne consegue il concreto pericolo di una commistione dei criteri di determinazione del danno con i criteri di commisurazione delle sanzioni.

Sul punto occorre chiarire che i percorsi seguiti dalla giurisprudenza non sono univoci. Ed infatti, sebbene il tema fosse lo stesso, si coglie una diversità di argomentazioni giuridiche addotte dalla Giurisprudenza civilistica rispetto a quelle esplicitate dalla Giurisprudenza penalistica. La ragione, forse, è da ricercare nella diversità strutturale del processo civile rispetto a quello penale e nella diversità di regole che governano i rispettivi giudizi. Per cui si ritiene opportuno affrontare i due percorsi giurisprudenziali separatamente.

1.1 La Giurisprudenza Penale e la prevalente concezione sanzionatoria

I Giudici delle sezioni penali dei Tribunali, delle Corti d’Appello e della Corte di Cassazione in un primo momento si erano orientati nel senso di riconoscere al danno non patrimoniale di cui all’art.185 c.p. un carattere propriamente sanzionatorio.

Le ragioni di siffatto convincimento erano da ricercare nel dettato normativo all’epoca vigente, costituito da poche e scarne disposizioni; infatti, sino agli anni settanta il legislatore non aveva mostrato particolare interesse nei riguardi del danno non patrimoniale in generale. Talché la principale ipotesi

normativamente tipizzata, come detto, era rimasta sempre quella del 1930 contemplata dall’art.185 c.p. Il che aveva influito non poco nella giurisprudenza, ed anche nella dottrina, in ordine alla considerazione del risarcimento del danno non patrimoniale quale strumento più afflittivo per il reo che riparatorio del danno subito dalla vittima del reato. Ragione, questa, per la quale si era rinvenuto nella disposizione citata un carattere spiccatamente punitivo, tale da indurre a ritenere quello in esame non propriamente un risarcimento, bensì una sorta di sanzione privata, che in aggiunta a quella pubblica, costituita dalla pena, avrebbe dovuto assolvere ad una funzione principalmente special-preventiva, oltre che retributiva. Che questo fosse il modo di concepire l’istituto di cui all’art.185 c.p. lo si desume, in particolare, dai criteri adottati dalla giurisprudenza per la quantificazione del danno morale65, atteso che in primo momento si era ritenuto necessario ricorrere agli stessi parametri dettati dall’art.133 c.p. per la determinazione della pene. In tal senso si era pronunciata la Corte di Cassazione specificando la necessità di parametrare il danno morale, ad esempio, alla gravità del “fatto” (illecito del reato) e non del “danno” subito dalla vittima, nonché alla condizione economica del danneggiante; profilo, quest’ultimo, rilevante per la responsabilità civile soltanto in punto di eccessiva onerosità della riparazione in forma specifica di cui all’art.2058 c.c., ma non certamente anche in ordine alla liquidazione del danno da risarcire. Per cui l’idea imperante nei Giudici Penali sino agli anni settanta-ottanta del secolo scorso era quella di considerare il risarcimento dei danni da reato alla stregua di una sanzione a tutti gli effetti.

Tale convincimento, peraltro, era avvalorato anche da una considerazione di ordine testuale esattamente rappresentata dalla rubrica del titolo VII del Libro I del C. P. ove è collocato l’articolo 185 citato, giacché il legislatore del 1930 ha ritenuto di doverlo intitolare “Delle sanzioni civili”, in tal modo quasi volendo fugare ogni dubbio sulla natura degli istituti ivi disciplinati. Per cui il collegamento normativo tra l’art.185 c.p. e l’art.133 c.p. appariva una logica conseguenza di un sistema improntato all’affermazione della responsabilità penale quale istituto, in tutte le sue implicazioni ivi

65 Cass. Sez. 3, Sentenza n. 40 del 15/01/1962 (Rv. 250073): “La liquidazione del danno non

patrimoniale è lasciata al criterio discrezionale dei giudici di merito col vincolo di proporzionarla, con logica motivazione, alla gravità del fatto, tenendo conto di tutte le circostanze di specie in rapporto alla capacità economica dell'obbligato ed al bisogno del danneggiato”. Conf. Cass. n°370/1958 e n°3786/1954.

compresi i riflessi civilistici derivanti dalla commissione del reato, preordinato principalmente alla punizione del reo.

Siffatto orientamento aveva ingenerato nei Giudici Penali il convincimento di poter paradossalmente liquidare in modo più agevole il danno morale rispetto al danno patrimoniale, atteso che la prova dei danni riconducibili a quest’ultima categoria era spesso particolarmente complessa e, quindi, troppo gravosa da espletare nell’ambito di un processo il cui oggetto è principalmente costituito dalla dimostrazione dei fatti contestati all’imputato dal Pubblico Ministero nel capo di imputazione piuttosto che dai pregiudizi subiti dalla parte civile. Ed, infatti, se per il danno patrimoniale occorrevano normalmente accertamenti tecnici di carattere peritale, per il danno morale era sufficiente concentrarsi sui parametri dettati dall’art.133 c.p. Si perveniva, pertanto, ad un paradosso, in quanto il danno non patrimoniale, che secondo la dottrina poneva problematiche financo non superabili a causa dell’assenza di un sicuro parametro di riferimento (come il mercato lo è per i pregiudizi patrimoniali), era divenuto di agevole liquidazione, mentre il danno patrimoniale, che tradizionalmente e pacificamente era stato considerato risarcibile, finiva per costituire oggetto di una sentenza di condanna spesso generica con rinvio al Giudice Civile per la determinazione del quantum

debeatur. In conclusione era possibile riscontrare che nel processo penale si

invertiva quell’ordine di idee che nell’ambito del processo civile si era sviluppato in relazione alle difficoltà concernenti l’affermazione di un vero e proprio risarcimento del danno non patrimoniale (per quanto occorre ribadire che il danno morale era considerato più in un’accezione sanzionatoria che risarcitoria). Questa tendenza è ancora oggi persistente nei Giudici Penali, in quanto, come si dirà da qui a un momento, è talmente avvertita l’esigenza di assicurare adeguata tutela alle ragioni della parte civile in relazione alle proprie pretese, laddove siano ovviamente fondate, che si tende a liquidare con maggiore semplicità il danno morale, sebbene, almeno apparentemente, non più in un’accezione sanzionatoria.

Il carattere afflittivo del danno morale di cui all’art.185 c.p. costituiva, dunque, una costante nelle pronunce della giurisprudenza penalistica e si riscontrava anche nelle ipotesi di c.d. danno non patrimoniale da reato-contratto o da reato in contratto, ove, cioè, il contratto costituiva uno strumento di

consumazione del reato, atteso che anche in questi casi la decisione sulle pretese risarcitorie della parte civile si risolveva nella statuizione di una condanna soltanto generica in relazione ai danni patrimoniali, mentre in relazione al danno morale il risarcimento era quantificato mediante il ricorso agli stessi parametri di commisurazione della pena pubblica.

Al riguardo, occorre brevemente richiamare la distinzione tra “reato- contratto” e “reato in contratto”, per comprendere quale sia stata l’evoluzione della giurisprudenza sul piano del risarcimento. Si tratta di categorie dogmatiche elaborate dalla dottrina ed applicate dalla giurisprudenza per spiegare le diverse conseguenze che dalla commissione di un illecito penale derivano per la validità del contratto, secondo che, la violazione della norma incriminatrice – per antonomasia di carattere imperativo – sia, rispettivamente, conseguenza della conclusione del contratto, ovvero sia imputabile ad una condotta serbata dal reo in occasione della stipula del contratto, o nella fase delle trattative, o in quella dell’esecuzione delle obbligazioni contrattuali. La norma di riferimento è costituita dall’art.1418 c.1 c.c. nella parte ove afferma la nullità del contratto a fronte della violazione di una norma imperativa, quale certamente può essere ritenuta quella penale. Sennonché, un’applicazione letterale della disposizione citata avrebbe potuto comportare la tacita riduzione in via interpretativa dell’ambito di operatività dell’annullabilità, al punto da mortificarne la sua stessa sussistenza. Per cui, la dottrina, muovendo dalla clausola di salvezza prevista nell’art.1418 c.1 c.c. laddove si esclude la nullità nei casi ove la legge abbia disposto diversamente, ha distinto il contrasto diretto del contratto con la norma penale (causa di nullità), dal contrasto indiretto ove il contratto diventa occasione per la violazione della norma penale, ossia, principalmente (ma ovviamente non soltanto) le ipotesi di dolo (truffa) e violenza (sub specie di estorsione), implicanti l’annullabilità.

Il problema affrontato dalla Giurisprudenza in ordine alla domanda proposta dalla parte civile attiene alla integralità del risarcimento dei danni da reato; infatti, se nei casi di “reato-contratto” la nullità del contratto, rilevabile peraltro d’ufficio, comporta sempre una lesione integrale dell’interesse dedotto dalla parte lesa, con conseguente possibilità per la parte civile di domandare ed ottenere pieno ristoro dell’intero danno subito, nelle ipotesi di “reato in contratto” il Giudice Penale, non disponendo del potere di annullamento del

contratto, deve limitarsi a risarcire il danno corrispondente a quella parte di interesse residuo non soddisfatto dal contratto invalido, che per quanto annullabile, appunto, continua pur sempre a produrre effetti (sino appunto non interverrà l’annullamento con la pronuncia di una sentenza costitutiva). In quest’ultimi casi si prospettava, peraltro, un’ulteriore questione, in quanto la non integralità del risarcimento o sarebbe stata da riconoscere soltanto limitatamente ai danni patrimoniali, fermo restando l’autonoma risarcibilità integrale del danno morale secondo i parametri di cui all’art.133 c.p., ovvero si sarebbe dovuta affermare anche in relazione al risarcimento del danno morale, stante l’avvenuta soddisfazione, almeno in parte, dell’aspettativa non patrimoniale correlata al contratto concluso.

I Giudici, nel tentativo di risolvere la questione in modo quanto più favore all’interesse della parte civile, si erano spinti al punto da estendere le ipotesi di reato-contratto a fatti che più correttamente dovevano ricomprendersi nel novero dei reati in contratto, così di fatto affermardo la nullità del contratto anche laddove, a stretto rigore, non sarebbe stata configurabile. Si pensi ad esempio all’estorsione66; chiara ipotesi di “reato in contratto” implicante l’annullabilità del negozio concluso dalle parti, e pur tuttavia in alcune pronunce ritenuta fatto civilisticamente rilevante quale causa di nullità. Le ragioni che inducevano i Giudici Penali a conclusioni similari sono da ricercare nell’esigenza di garantire alla parte civile, danneggiata dal reato, un risarcimento quanto più integrale possibile in tempi relativamente celeri; infatti, mentre nella ipotesi della nullità del contratto il Giudice Penale, in astratto, può sempre risarcire integralmente i danni lamentati dalla vittima, nel caso di annullabilità la parte danneggiata per raggiungere il medesimo risultato deve necessariamente rivolgersi al Giudice Civile e proporre la domanda di annullamento oltre a quella di risarcimento. Prospettiva, quest’ultima, fortemente pregiudizievole per la vittima del reato, giacché il giudizio civile implica tempi e costi notevolmente superiori rispetto a quelli propri del giudizio penale, ove, invece, la parte civile beneficia dell’azione penale esercitata dal Pubblico Ministero in punto di prova del reato e, soprattutto, considerato che

66 Cass. pen. Sez. I n°7195/1979: “Costituisce il delitto di estorsione e non quello di esercizio

arbitrario delle proprie ragioni, la richiesta, con violenza o minaccia, di un compenso in dipendenza di un contratto contrario a norma imperativa e perciò nullo, siccome stipulato dietro una costrizione costituente a sua volta attività estorsiva: come tale non idoneo a dar luogo a pretesa azionabile davanti al giudice civile”.

non deve anticipare le spese del processo, diversamente da quanto avviene in quello civile.

Questo orientamento è stato rivisto soltanto in parte dalla Cassazione, in quanto se, da un lato, l’estorsione è pacificamente considerata fattispecie riconducibile al reato in contratto, e dunque, causa di annullabilità, dall’altro persistono ancora ipotesi nelle quali la Giurisprudenza continua a mantenere orientamenti particolarmente criticati dalla dottrina in ordine alla qualificazione del fatto come reato-contratto. In tal senso si pensi alla circonvenzione di incapace67 di cui all’art.643 c.p. ed ai complessi rapporti con l’art.428 c.c.

Le questioni in tema di risarcibilità del danno non patrimoniale (anche da inadempimento) si complicano con l’avvento del danno biologico, atteso che tale tipologia di pregiudizio non poteva di certo essere ritenuta alla stregua di una vera e propria sanzione. Per cui non era possibile per la sua liquidazione il ricorso ai parametri sanciti dall’art.133 c.p. Donde la necessità di seguire in ordine a siffatta tipologia di pregiudizi la stessa prassi maturata con riguardo ai danni patrimoniali: ossia, statuire sulle questioni civili con una condanna generica, eventualmente accompagnata da una provvisionale, stimolando la parte interessata (cioè proprio quella civile) a rivolgersi al Giudice Civile per ottenere la liquidazione del danno lamentato. Questo indirizzo è seguito anche in ordine ai danni non patrimoniali da contratto, atteso che non è infrequente che domande risarcitorie aventi per oggetto il ristoro di pregiudizi afferenti alla sfera a-reddituale siano proposte nell’ambito, ad esempio, di un processo concernente un caso di responsabilità medica.

Tuttavia, anche in queste ipotesi i Giudici Penali tendono a distinguere le varie voci di danno non patrimoniale, al fine di liquidare direttamente ed integralmente il c.d. danno morale, sebbene secondo criteri, almeno formalmente, non più connessi a quelli di cui all’art.133 c.p., ma ancorati a