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c) De esu carnium.

L’operetta si apre con un’affermazione che non lascia dubbi al lettore: è cosa mostruosa desiderare di cibarsi di un essere che ancora sta muggendo e designare gli animali di cui nutrirsi mentre ancora emettono suoni, predisponendo i modi di condirli, arrostirli, servirli; si dovrebbe cercare colui che, per primo, ha dato inizio a tutto questo, e non chi, più tardi, se ne sia astenuto (il riferimento è a Pitagora,107primo personaggio ad essere citato nel De esu). Plutarco mostra, poi, come la benevolenza verso gli animali sia vantaggiosa: dalla pratica di questa virtù nei confronti di tutti i viventi, l’uomo acquisirà la virtù della filantropia. Richiama la teoria senocratea del divieto assoluto e generalizzato di uccidere, di ‘strappare la vita’ a qualsivoglia essere vivente. Osserva quindi che, mentre la dottrina pitagorica impone un cambiamento nelle abitudini alimentari dell’uomo, quella senocratea vieta di infrangere la norma, ben più importante, posta dalla natura, del divieto di uccidere. Passa poi a riflettere sull’esigenza di affrontare il tema della sarcofagia, sotto l’aspetto più propriamente concettuale, e si interroga sull’opportunità di ricorrere alla dottrina pitagorico-empedoclea della metensomatosi. Essa è introdotta con una citazione da Platone ed è definita ‘difficile e misteriosa’, a tal punto che le sue origini si perdono in un mito, quello di Dioniso, nel quale l’autore coglie simbolicamente la

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Al di là del dato evidente che ciascuno scritto tratta e approfondisce aspetti particolari del proprio tema specifico, la ricerca intorno ai presumibili referenti teorici e culturali dell’autore autorizza la seguente conclusione: divergenze e contraddizioni sono nel complesso e molto spesso più apparenti che reali, nel senso che somiglianze e addirittura luoghi paralleli, reperibili nel corpus plutarcheo, sottendono una concezione zoologica sostanzialmente unitaria. Queste sono le conclusioni di Becchi in cit. Lignes, p. 159-174.

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Secondo Santese, è la tendenza tipica dei trattati zoologici plutarchei, in cui l’autore sembra concedere più spazio al lovgoς degli animali, a differenza di quelle opere dove oggetto di indagine è l’uomo, in cui la differenza tra uomini ed animali si accentua e frovnhsiς e lovgoς diventano suo esclusivo privilegio. Negli scritti zoologici, l’animale è protagonista indiscusso e la sua superiorità rispetto all’uomo emerge ogni qualvolta c’è un raffronto con l’universo umano. G. Santese, Animali cit., p. 160 sgg.

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Uno dei tratti distintivi del Pitagorismo antico è quello di obbedire a una stretta regolamentazione del nutrimento. Come è noto, Pitagora formulò in proposito una precettistica ricca, sempre finalizzata al reperimento di regole morali e soprattutto religiose. Ma le testimonianze relative all’astensione da cibo a base di carne sono spesso divergenti, giacchè talune parlano di astensione da alcuni animali, altre solo da alcune parti di essi, altre ancora ne suggeriscono una astensione generalizzata. Esse investono sostanzialmente il problema della purificazione dell’anima dalle passioni, della non- contaminazione, del rispetto degli altari, del rapporto con la divinità. Un tentativo di razionalizzazione tardiva del vegetarianesimo pitagorico si può forse ravvisare nella tradizione che fa risalire al filosofo di Samo l’attribuzione del λόγος agli animali, attestata dalla testimonianza tarda di Porfirio. Sembra che la dottrina non possa ragionevolmente farsi risalire a Pitagora, ma piuttosto all’Accademia: Platone e l’Accademia assimilarono dottrine pitagoriche al punto che oggi non è possibile distinguerle con sicurezza. Il quadro relativo al pitagorismo antico è dunque quanto mai confuso e incerto e non abbiamo notizie sicure. Abbiamo invece notizie più attendibili sulle teorie formatesi nel IV sec. a.C. in ambito accademico-peripatetico; e sebbene Plutarco non dichiari quasi mai la provenienza delle proprie dottrine, è a quelle di Senocrate e di Teofrasto che dobbiamo far risalire, con ragionevole certezza, le sue argomentazioni. Cfr. Inglese- Santese,. Il cibarsi cit., p. 62-65.

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duplicità della natura umana. I primi che si dettero alla sarcofagia, afferma Plutarco, lo fecero per la mancanza di risorse; e in effetti essi non giunsero a queste pratiche eccedendo in piaceri anomali, contro natura, né indulgendo a desideri illegittimi o godendo di una certa abbondanza di cose necessarie. A quell’epoca l'aria, mischiata a torbida e instabile umidità, al fuoco e alla furia dei venti, ancora celava il cielo e gli astri, non c’era il sole e il mondo era sconvolto dagli straripamenti disordinati dei fiumi ed era informe per il fango; la terra era resa selvaggia da profonde paludi, boscaglie e macchie infruttifere; non vi era raccolto di dolci frutti, nessuno strumento di produzione né espedienti derivati dall'abilità. La fame non dava tregua e la semina degli uomini di allora non aspettava le stagioni dell'anno. Contro natura questi uomini hanno fatto uso della carne degli animali, quando si mangiava il fango e si divorava la corteccia del legno ed era considerata una fortuna trovare una gramigna vigorosa o una qualche radice di giunco. Quando si gustava una ghianda, si danzava per la gioia attorno a un faggio o a una quercia, chiamandoli “donatore di vita”, “madre”, “nutrice”: la vita, allora, conosceva solo questa gioia mentre tutto il resto era pieno di turbamento e dolore.108 La rabbia ed il furore spingono gli uomini a commettere stragi scellerate, insultando la terra come se non fosse in grado di nutrire, commettendo empietà nei confronti di Demetra, dispensatrice di leggi, disonorando l'amorevole Dioniso, il signore dei vigneti, come se da essi non l’uomo non ricevesse quanto basta. Gli uomini inoltre, osano chiamare selvaggi i serpenti, le pantere e i leoni, quando essi stessi uccidono con ferocia: ma se per le bestie feroci l'animale ucciso è nutrimento, per gli uomini è solo un manicaretto (993B - 994B). Il Cheronese, per rendere più incisivo quanto affermato, ricorre ad una similitudine: «Noi non mangiamo leoni o lupi per

nostra difesa, ma li lasciamo andare, mentre uccidiamo, dopo averli fatti nostri, esseri innocenti, innocui, privi di artigli e di denti per mordere, che, per Zeus, la natura sembra aver generato per la bellezza e per la grazia. E come se qualcuno, guardando il Nilo che straripa ed innonda la regione di un flusso fertile e ferace, non si meravigliasse di ciò che esso apporta, del fatto che è fonte di vita e fecondo di dolci frutti, utili alla vita; ma vedendo in qualche luogo un coccodrillo che nuota, un serpente che striscia e alcuni topi- animali selvaggi ed immondi - adducesse questi come ragione del suo biasimo e della necessità dell’accaduto». Plutarco fa un confronto tra

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Osserva Del Corno Trattati cit., p. 19: «Al sistema della natura si collega il passo più suggestivo del De esu carnium: il racconto in prima persona che gli uomini dei primordi fanno della loro vita di stenti, quando non avevano ancora appreso le arti dell’agricoltura. In un panorama di buie nebbie e di fiumi straripanti, in mezzo a paludi e sterpeti essi si aggiravano in cerca di radici e di cortecce per calmare la furia della fame: ed era una festa trovare un albero ricco di ghiande. Allora l’uomo apprese a cibarsi di carne di animale: poiché fu la necessità a dare il primo impulso a un costume che la civiltà ha tramutato in empio lusso, ora che è possibile disporre di ogni prodotto della terra. Errano dunque quei filosofi che propugnano il mangiar carne come un bisogno perenne, e necessario alla sopravvivenza del genere umano: poiché la natura stessa si è trasformata; in un processo parallelo all’incivilimento dell’uomo. Nell’ardua sintesi dei concetti di natura e civiltà trapelano incongruenti ellissi: e tuttavia l’operazione di Plutarco offre un lancinante documento del pathos della mente greca nell’età dell’ansia, quando la complessità del reale pareva definitivamente sottrarsi all’indagine sistematica della ragione».

30 l’incapacità degli uomini di comprendere la bellezza della natura e la delicatezza di alcuni animali, generati per essere ammirati nella loro magnificenza: essi sono divorati dagli uomini, che non ne comprendono la grazia, così come non comprendono la fecondità del Nilo, il quale, straripando, genera dolci e fecondi frutti; tali benefici, spesso, non sono colti dall’uomo, il quale individua nei coccodrilli, nei serpenti, nei topi, la causa di ciò. In soll. anim. 995 A-B si ribadisce l’assurdità della convinzione di quanti affermano che l'uso di mangiare la carne abbia un'origine naturale. Che l'uomo non sia carnivoro per natura, è provato in primo luogo dalla sua struttura fisica. Il corpo umano infatti non ha affinità con alcuna creatura formata per mangiare la carne: non possiede becco ricurvo, né artigli affilati, né denti aguzzi, né viscere resistenti e umori caldi in grado di digerire e assimilare un pesante pasto a base di carne. Invece, proprio per la levigatezza dei denti, per le dimensioni ridotte della bocca, per la lingua molle e per la debolezza degli umori destinati alla digestione, la natura esclude la nostra disposizione a mangiare la carne. Se però si è convinti di essere naturalmente predisposti a tale alimentazione, bisogna darne prova, uccidendo con le proprie mani l'animale che si vuol mangiare. A questo punto dell’operetta, il Cheronese colpisce emotivamente l’uditorio, mirando a commovere: «Ma ammazzalo tu in persona, con le tue mani, senza ricorrere a un coltello, a un bastone o a una scure. Fa' come i lupi, gli orsi e i leoni, che ammazzano da sé quanto mangiano: uccidi un bue a morsi o un porco con la bocca, oppure dilania un agnello o una lepre, e divorali dopo averli aggrediti mentre sono ancora vivi, come fanno le bestie. Ma se aspetti che il tuo cibo sia morto e se la vita presente in quelle creature ti fa vergognare di goderne la carne, perché continui a mangiare contro natura gli esseri dotati di vita? Eppure, neanche quando l'animale è morto lo si potrebbe mangiare così come si trova, ma si lessa, si arrostisce, si modifica la sua carne per mezzo del fuoco e delle spezie, alterando, trasformando e mitigando con innumerevoli condimenti il sapore del sangue, affinché il senso del gusto, tratto in inganno, possa accettare quanto gli è estraneo». Procedendo per exempla, l’autore rende più intensa la persuasio: l’aneddoto dello Spartano mira a dimostrare quanto complesso sia il palato dell’uomo, che mescola alla carne olio, vino, miele, pasta di pesce, aceto, spezie, come se fosse un imbalsamazione di cadaveri, poiché la carne così ammorbidita previene le indigestioni. Il secondo aneddoto riguarda Diogene, che osò mangiare un polpo crudo per porre fine al disagio di preparare il cibo cotto. Plutarco paragona ironicamente Pelopida (che lottò per la libertà dei Tebani), Armodio e Aristogitone (che lottarono per la libertà degli Ateniesi) al filosofo cinico, che ha rischiato la sua vita, alle prese con un polpo crudo. Inoltre il consumo di carne non è solo fisicamente contro la natura, ma rovina l’uomo, a causa del senso di sazietà e pienezza che provoca. Quando si esamina il sole attraverso l'atmosfera umida e una nebbia di vapori densi, esso non appare ai nostri occhi chiaro e luminoso, ma è

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fosco, con raggi tremanti. Allo stesso modo, quando il corpo è sazio e carico di cibo improprio, lo splendore e la luce dell'anima sono inevitabilmente sfocati ed offuscati, poiché l'anima non ha la forza di penetrare attraverso la densa materia. L’astenersi dal cibarsi di carne è, oltretutto, atto socialmente importante: nessun essere umano che si comporti gentilmente e umanamente verso creature diverse dalla propria specie non avrà solidarietà e rispetto da parte dei propri simili. Il secondo discorso si apre con l’esposizione della motivazione che induce l’uomo a cibarsi di carne: non è facile, afferma il Cheronese, estrarre “l’amo” del mangiare carne, impigliato com’è nella brama del piacere. Analogamente agli Egizi, che estraggono le viscere dei morti ed, espostele al sole, le gettano via, come se fossero la causa di ogni peccato che l'uomo aveva commesso, sarebbe bene, per gli uomini, dare un taglio alla propria ingordigia e alla propria brama di uccidere, così da diventare puri per il resto della vita, dal momento che non è il ventre umano ad essere sanguinario, ma esso è contaminato di sangue dalla umana incontinenza. Se in 996 E l’autore ipotizza l’astensione da ogni tipo di cibo, impossibile per l’uomo, alla fine ipotizza un uso moderato di esso, ivi compresa la carne, il cui uso sarà consentito solo in caso di necessità reale (996 F, 993 C, 994 E). A giudizio di Plutarco, dunque, il vegetarianesimo109 pitagorico non ha alcuna funzione determinante nella definizione del rapporto uomo - animale; può rivelarsi tuttavia utile (ma anche questa convinzione è espressa dubitativamente) per perseguire il fine primario di bandire la sarcofagia. Ma soprattutto esso gli appare funzionale a combattere la visione radicalmente antropocentrica degli Stoici, che si spingeva tanto lontano da non rifuggire neppure dall’accettazione dell’antropofagia (997 E - F). Dal confronto tra Pitagora e Crisippo, valutando i rischi che ciascuna delle due dottrine comporta, Plutarco suggerisce, in ultima istanza, di attenersi, nel dubbio, alla dottrina di Pitagora, che è, almeno, eticamente utile. Conscio del fatto che per l’uomo è impossibile stare lontano dall’errore, Plutarco offre al genere umano una soluzione: gli uomini mangeranno carne, ma spinti dalla fame, non per lusso; uccideranno gli animali, ma provando pietà e dolore, non piacere nel torturarli; trafiggere la gola del suino con uno spiedo caldo e cibarsene, mentre è ancora sanguinante, per rendere la carne tenera e delicata, uccidere le scrofe mentre partoriscono, cosicché il sangue e il latte si fondano e rendano la carne più gustosa, cucire gli occhi di tacchini e cigni, per farli ingrassare nelle tenebre, rendere appetibile la carne con strani composti e miscele di spezie, sono pratiche disumane. Da queste usanze appare evidente che il nutrirsi di carne non è né un bisogno nè una necessità, ma una tendenza a ricercare la sazietà: è il lusso che ha reso questa consuetudine senza legge un piacere (997 A - B). Come le donne sono insaziabili nella ricerca del piacere, tant’è che la loro lussuria e dissolutezza le inducono a pratiche indicibili, così l'intemperanza nel mangiare

109 Cfr.

S.T. Newmyer, Plutarch and Shelley’s Vegetarianism, «CO» 77 (2000), pp. 145-148. Cfr. inoltre S. T Newmyer, Plutarch

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travalica ogni limite della crudeltà per soddisfare il palato. Non è l’odio, la rabbia, la legittima difesa o la paura per noi stessi, che induce all'omicidio, osserva il Cheronese, bensì la ricerca del piacere. Plutarco si mostra lucidamente consapevole della impossibilità, per l’uomo, di estirpare radicalmente l’habitus della sarcofagia e perciò suggerisce di attenersi ad un uso moderato della carne, limitandosi a soddisfare il bisogno primario della fame, senza infliggere inutili sevizie ai poveri animali. Condanna, ancora una volta, l’incontinenza e la lussuria e spiega che nella sarcofagia è da ricercarsi l’origine della degenerazione degli organi di senso dell’uomo e di ogni dissolutezza. Fa seguire a queste considerazioni un breve elogio della morigeratezza dei costumi spartani, precisando che l’origine della lussuria sta nel cibarsi di carne, in ragione del fatto che questo presuppone un atto violento contro la vita; l’uccisione degli animali è da rifuggirsi e non per le ragioni indicate da Empedocle e Pitagora, ma perché sussiste, tra uomini e animali, una parentela originaria, fondata su una comune struttura psicologica. Però, se paragonata a quella stoica – che si spinge fino a prescrivere l’antropofagia – la teoria pitagorica ha il vantaggio pratico di renderci più umani, e poggia sull’autorità degli antichi sapienti. Inoltre Plutarco ripropone quanto affermato all’inizio della trattazione: «Si deve ricercare chi per primo abbia dato inizio a tutto questo e non chi, più tardi, se ne sia astenuto» (es. carn. 993C). All’origine della sarcofagia e dei peggiori mali, quali le stragi e le guerre, sta l’atto di uccidere; colui che, per la prima volta, ha versato il sangue di un animale, ha dato inizio a quella pratica sanguinaria, che, rafforzatasi nel tempo, ha condotto l’uomo ai delitti più efferati. Plutarco torna poi a riflettere sulla dottrina della metensomatosi, osservando che, anche se, per ipotesi, si riuscisse a provarne la verità, neppure essa potrebbe aver ragione dell’elemento selvaggio e sfrenato che ormai prevale nell’uomo. La dottrina pitagorica è utile a tenere a freno la cupidigia umana; nel dubbio che sia vera, converrà comportarsi come se fosse tale. Tale riflessione offre lo spunto per polemizzare esplicitamente con gli Stoici che, pur fingendo di combattere e rifuggire il piacere, non si astengono dal mangiare la carne, la radice prima del piacere stesso. Il trattato si interrompe sul tema del rapporto giuridico uomo-animale.Si rileva nell’Introduzione al De esu

carnium 110: «Generalmente la critica tende a spiegare il vegetarianesimo di Plutarco sulla base della sua adesione, specie nella giovinezza, alle dottrine pitagoriche. Il rispetto di quest’ultimo è basato non tanto su considerazioni per l’animale in sé, quanto piuttosto sul proposito di salvaguardare l’anima dell’uomo che si è trasferita in esso. Appare preminente il problema della purificazione umana attraverso il passaggio in molteplici forme corporee, mentre mancano considerazioni specifiche sulla vita dell’animale, diverso per natura dall’uomo. Troviamo, invece, attenzione per l’animale in sé in Plutarco, che appare assai scarsamente legato ai temi

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religiosi della metensomatosi. Egli affronta più volte, nelle sue opere, la dottrina, ma riferendola ad altri, senza mai mostrare di aderirvi o condividerla».