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I DETENUTI STRANIERI E IL DIRITTO ALLA SALUTE IN CARCERE

La popolazione immigrata detenuta nell’ultimo decennio è aumentata in modo sostanziale. È importante rilevare che molti di questi soggetti solo il loro ingresso in carcere vengono a contatto per la prima volta nella loro vita con un sistema sanitario organizzato36. Si sottolinea che il decreto 230/99 e il Regolamento di attuazione disciplinano l’erogazione delle prestazioni sanitarie per gli stranieri

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Circolare riportata integralmente in “Le due città”, rivista dell’Amministrazione Penitenziaria, marzo 2001

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Per la disamina di questa tematica si è seguito il “Progetto obiettivo”, il cui testo integrale è riportato in appendice.

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regolarmente soggiornanti sul territorio nazionale e per i “clandestini”. In particolare, anche in assenza del permesso di soggiorno sono assicurate non solo prestazioni sanitarie d’urgenza ma anche:

 cure ambulatoriali ed ospedaliere essenziali e continuative;  interventi di medicina preventiva e prestazioni di cura ad esse

correlate.

La 230/99 rivolge particolare attenzione alle problematiche di:  tutela della gravidanza e della maternità;

 tutela della salute del minore;  vaccinazioni;

 interventi di profilassi internazionale;  profilassi e cura delle malattie infettive;

 tutte le cure previste dal Testo Unico di disciplina degli stupefacenti (DPR 309/90) e sue successive modifiche (e quindi tutto ciò che concerne i Servizi per le Tossicodipendenze egli interventi curativi e riabilitativi). Al fine di programmare e realizzare un intervento mirato è necessario:

 conoscere i reali bisogni di carattere sanitario della popolazione immigrata detenuta;

 rendere fruibili le risorse sanitarie esistenti;

 adottare i programmi di prevenzione esistenti per le malattie trasmissibili in carcere tenendo conto della specificità della popolazione immigrata detenuta.

Diventa di fondamentale importanza considerare:

 la quasi totale assenza di conoscenze sullo stato di salute degli immigrati detenuti, salvo per alcune patologie (tubercolosi, lue, HIV), oggetto di una pur parziale sorveglianza da parte del Ministero della giustizia;

 la carenza, anche nella letteratura internazionale, di esperienze specifiche di prevenzione o studio che possano costituire modelli di riferimento;

 la carenza, nella maggior parte degli istituti penitenziari, di protocolli organizzativi volti ad una gestione sanitaria mirata della popolazione immigrata detenuta;

 l’assenza di formazione specifica del personale sanitario, di custodia, di supporto (educatori, assistenti sociali, psicologi) negli istituti penitenziari;

 la non comprensione della lingua italiana di molti detenuti alloro primo ingresso in carcere;

 la non conoscenza delle lingue straniere da parte del personale;

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 la non conoscenza dell’immigrato delle norme 37 e dei regolamenti che disciplinano le attività sanitarie negli istituti penitenziari;

 l’assenza di informazioni relative alle opportunità offerte dalla legislazione sanitaria italiana alle persone detenute malate di uscire dal carcere (affidamento in prova per i tossicodipendenti ai servizi sociali, ai SERT, alle comunità terapeutiche, gli arresti domiciliari in caso di AIDS o di altre gravi patologie);

 la scarsità e la non uniformità sul territorio nazionale di aiuti esterni su cui contare una volta usciti dall’istituzione;

 la frammentarietà e la disomogeneità degli interventi (opuscoli informativi multi lingue, sportelli d’ascolto ecc.) spesso di iniziativa regionale, a volte addirittura locale;  l’assenza di mediatori culturali.

Ma “garantire” astrattamente sul piano legislativo un diritto non significa renderlo accessibile a chi ne deve godere e, nella fattispecie, dichiarare che anche gli stranieri “clandestini” hanno diritto alle cure (d’urgenza, essenziali e preventive), non vuol dire rendere queste “cure” accessibili e fruibili per loro alla stregua dei cittadini Italiani. Questo fa sì che, ancora oggi e in maniera assolutamente paradossale, il carcere sia per moltissimi stranieri clandestini, il primo luogo in Italia dove possono sottoporsi a cure mediche e a visite preventive. Purtroppo, questo stesso meccanismo è tale che usciti dal carcere difficilmente potranno proseguire il trattamento o la cura intrapresa.

Il carcere, d’altra parte, come ben documentato nel “Documento Base” presentato al Convegno di studio: “Il Servizio sanitario per il diritto alla salute dei detenuti e degli internati” (Roma, aprile ‘99), “ha manifestato nel complesso, al di là dell’impegno dei singoli operatori, una difficoltà strutturale a garantire una globalità e una unitarietà delle prestazione preventive, curative e riabilitative. (...) Si tratta, in generale, di servizi che si attivano a “domanda individuale”, con difficoltà oggettive a svolgere la funzione di presa in carico del bisogno globale di salute”. A questo si aggiunge il fatto che, sempre secondo quanto indicato nello stesso documento, “la finalità di fondo del servizio sanitario penitenziario è rappresentata, in prevalenza, dalla copertura del rischio per garantire le responsabilità dell’Amministrazione”. Il carcere, dunque, da una parte rappresenta, molto spesso, una prima occasione di “cura” per chi, come gli stranieri irregolari, non ne ha avute all’esterno. Allo stesso tempo,

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Si discuterà nei prossimi capitoli di come si diffondano, nell’ambiente carcerario, le regole e le normative relative alla salute e ai diritti del detenuto.

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però, neppure il carcere garantisce una “presa in carico” sanitaria delle persone che sono detenute, ma si limita ad affrontare e a tentare di risolvere quelle situazioni emergenti o “a rischio” per la salute di tutti (es.: malattie infettive).

L’assoluta carenza di collegamento tra carcere e territorio (che riguarda anche le strutture pubbliche sociali e sanitarie) rende quasi impossibile il passaggio di documentazione tra interno ed esterno. Nello stesso tempo, iniziare cure e terapie all’interno del carcere, senza sapere se queste terapie potranno essere poi continuate al momento dell’uscita (es.: epatite, infezione da HIV) fa si che tali terapie non possano di fatto essere prescritte neppure se ci sarebbero le indicazioni per farlo.

Le strutture territoriali chiedono un tale grado di attivazione da parte dei singoli soggetti da renderle, di fatto, non usufruibili da parte di coloro che, stranieri e malati, non sono in grado di “muoversi” in maniera autonoma nel complesso sistema territoriale. Neppure coloro che sono affetti da malattie documentate o diagnosticate in carcere possono sempre godere di una maggiore presa in carico da parte delle strutture territoriali: tossicodipendenza, infezione da HIV, malattie psichiatriche. L’uscita dal carcere non prevede la consegna di alcuna documentazione sanitaria e spesso le strutture territoriali richiedono la residenza o comunque un domicilio effettivo per attuare la presa in carico38.

Di fatto, dunque, neppure il carcere garantisce un’uguale fruibilità di cure e di accesso ai servizi sanitari per le persone straniere, mantenendo anche al suo interno un sistema che “blocca” chi si trova in una situazione di maggior disagio, limitandone ulteriormente le possibilità di risorse personali.

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Verrà chiarito in seguito come viene affrontato tale fenomeno nella provincia di Rimini.

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