• Non ci sono risultati.

Prime analisi

William Dodd sosteneva che all’interno del testo drammatico il dialogo assolvesse tre funzioni: proairetica, espositiva, mimetica1. Prevedibilmente, la sfida autoriale consiste nel mantenere questi tre elementi efficacemente in gioco allo stesso tempo.

Il dialogo2 (che per estensione include anche interventi singoli come soliloqui o monologhi) esprime conflitto tra due o più personaggi, ed è quindi ciò che rende il testo drammatico accattivante e magnetico; dal punto di vista della comunicazione strettamente linguistica, non è eccessivo identificarlo come la parte fondamentale: «every line of dialogue should contribute to the development of character or to the forward progression of the character’s relationship to the plot»3, quindi la costruzione del dialogo guida l’organizzazione dell’azione, l’emergere dei personaggi nelle loro peculiarità, la concretizzazione dell’intreccio così come l’autore lo ha concepito. Ancora, il dialogo diventa accorgimento che consente di aggirare delle difficoltà tecniche legate allo svolgimento dello spettacolo, dal cambio di allestimento – che passa in secondo piano se l’attenzione del pubblico è tutta concentrata sul dialogo – al tentativo di guadagnare tempo nell’entrata in scena di un personaggio, oppure rendere plausibile il lasso di tempo che intercorre dall’uscita di scena del personaggio al suo rientro:

When John Galsworthy first wrote The Silver Box he discovered that he had to lengthen the dialogue in a certain scene to allow a key character time to get a cab and return at a certain point in the dialogue. […] the dialogue was lengthened for no other purpose except to make the passage of the stage time seem believable4.

Si vedrà in seguito che un valore aggiunto è poi l’impostazione dello scambio in termini «ragionevolmente naturalistici»5.

Il contributo dato dall’attore alla concretizzazione (e talvolta alla realizzazione) del dialogo è fondamentale. Nel quadro già abbastanza affollato di figure che portano

1

Aston: 1983, 29.

2 Gli addetti ai lavori di solito usano termini come 'dialogo', discorso', ‘battuta’, e il loro significato è quasi interscambiabile: il primo termine è generalmente riferito all'ambito scritto del copione e i restanti a quello attoriale. In termini generali – lasciando da parte gli usi metaforici – il dialogo è la sequenza di battute prodotte alternativamente da almeno due persone che si rivolgono l’una all’altra (Ferroni: 1985, 11), ma in senso generale, è ‘dialogo’ tutta la comunicazione che coinvolge un emittente ed un destinatario e nella quale vi è attenzione reciproca mirata ad ottenere certi effetti (ivi, 72).

3 Busfield: 1971, 123. 4

Ivi, 137; il che non significa che il dialogo sia un mero riempitivo, la difficoltà aggiunta ed implicita sta nel costruirlo in modo tale da contribuire allo stesso tempo allo sviluppo dell’azione e alla caratterizzazione dei personaggi.

5

Aston: 1982, 39. Emergerà in seguito che, teoricamente parlando, si sente il bisogno di individuare una unità di riferimento per evitare di considerare l’insieme delle battute nella loro interezza.

87

il teatro alla vita l’attore non ha certo ruolo secondario, e la sua funzione, come spiega Nencioni, va al di là dell’essere il semplice ‘esecutore’ vocale del testo:

L’attore non può in alcun modo essere assimilato al citatore di una battuta detta da altri […] perché mancano sia la base referenziale che l’intenzione trasmissiva; né al ripetitore del testo scritto, come sarebbe il lettore ad alta voce, la cui sonorizzazione delle battute non pretende di andare oltre una sensata ed intelligibile trasmissione6.

Oltre all'enfasi gestuale che verbalmente viene espressa nel copione dal corsivo, oltre all'ironia, oltre ai gesti deittici che potenziano e quasi si accompagnano automaticamente ad un certo tipo di frasi, c'è anche il contributo della «voice performance»7. Il testo drammatico racchiude in sé potenziali riferimenti ad altre arti, ma perchè si possa parlare di teatro la recitazione deve essere presente: «Without acting there's no theater, at least no drama-performing theater»8. Mentre tutte le altre componenti possono essere eliminate dal testo, dalla musica allo spazio scenico, non si può prescindere dalla recitazione, che deve essere il secondo segno sempre costante: «Both systems not only check but also enrich each other. The actor gives more weight and punch to the language he voices and, in return, receives from it the gift of extremely flexible and viable meanings»9. Quindi, nella determinazione dell’effetto finale del dialogo l’intervento dell’attore rimane sempre rilevante. In questo senso, secondo Veltrusky, meno stretto sarà il legame tra dialogo e la precisione delle indicazioni registiche, maggiore sarà l’autonomia attoriale, che renderà l’interpretazione notevolmente più personale; se invece a prevalere è l'elemento verbale lo spazio di manovra dell'attore diminuirà notevolmente.

Nell’applicazione dell’analisi linguistica del dialogo a teatro, Dodd importa da Halliday il concetto di field, che in un certo senso classifica l’importanza degli enunciati in base alla funzione più o meno primaria che assolvono nel quadro generale; Dodd converte il field in episodi, tramite i quali la fabula si concretizza nel testo con interventi dal grado di importanza variabile: tale importanza dipende dall’interesse diretto che il contenuto del dialogo comunica per l’avanzamento della fabula, dall’impatto drammatico che tale episodio deve avere nel complesso. L’organizzazione degli episodi risente di certe restrizioni, le più importanti di natura ‹‹rituale››10, che coinvolgono le convenzioni teatrali da un periodo storico all’altro, convenzioni relative a ciò che un pubblico si aspetta di vedere o vuole vedere. Sull’equilibrio tra convenzione ed innovazione a teatro si è espressa Paola Pugliatti: prima e fondamentale osservazione riguarda la necessità per l’autore drammatico di non staccarsi bruscamente dalla tradizione che lo ha preceduto e nella quale si è formato, poiché il pubblico non si può affezionare al testo se non vi riconosce degli

6 Nencioni: 1983, 174. 7 Mateika – Ttitunik: 1976, 103. 8 Ivi, 114. 9 Ivi, 116. 10 Aston: 1982, 32.

88

elementi di continuità, perciò «un testo che non conservi nulla della memoria dei testi precedenti […] non è un testo leggibile»11.

Pujol afferma che «theatre is the literary genre which represents fictive dialogue most clearly and most completely»12; fatte rare eccezioni, poesia e narrativa non vivono di dialogo, che diventa essenziale a teatro, per le ragioni sopra esposte. La duplice dimensione del dialogo a teatro è messa in evidenza dalla Ubersfeld: il primo è quello dell’enunciazione immediata dell’autore (didascalie ed indicazioni sceniche), la seconda prevede la mediazione del personaggio (e include dialogo e monologhi), un insieme quindi di natura soggettiva. Il linguaggio nell'ambito drammatico vive una doppia vita: l'attore pronuncia le parole, rendendole vive e quindi evento fisico, e il pubblico le interpreta, rendendole atti linguistici. Gli spettatori, centro silenzioso dell'interazione, possono condividere con i personaggi il contesto semantico, risultando informati in grado differente su ciò che accade o accadrà in scena:

The audience can share the semantic context that provides the uttered word with sense or with only some of the characters, this complicity with the audience can alternately shift from character to character, or finally the audience can understand the semantic orientation of all the characters, even if those characters do not understand one another13.

Non si sfugge a questa doppia interpretazione nemmeno in lettura, poiché il lettore esperto ricreerà nella sua testa le voci dei personaggi, rendendo il testo vivo anche se solo nell'immaginazione.

The dramatic dialogue bears the traces of its potential stage enunciation, while the actor's physical uttering of 'noises' and 'vocables' on stage is what allows their dramatic interpretation by the audience14.

Il dialogo drammatico-di finzione sfugge ad un inquadramento nelle categorie classicamente definite dalla linguistica15, perchè si parla di «what is written to be spoken as if not written»16.

11 Pugliatti: 1986, 16. Come sosteneva anche Lotman, quanto più i testi sapranno mostrare una solidità di fondo e allo stesso tempo un dinamismo interno, tanto più sopravviveranno. L’etichetta stessa di innovazione o rottura presuppone una tradizione che ancora funge da riferimento. A teatro inoltre la convenzionalità acquisisce una posizione privilegiata perché è proprio in virtù dell’accettazione della convenzione che certi espedienti comunicativi – a parte, monologhi – vengono accettati.

12

Brumme-Espunya: 2012, 53. Come si è già visto nel capitolo precedente, quando si parla di teatro il discorso legato alla letteratura è più complesso di quanto non sembri.

13

Mukarovsky: 1977,114. 14

Elam: 1984, 33. Da notare che, specialmente nelle convenzioni del teatro elisabettiano, la funzione della lingua era anche quella di segnalare la drammaticità stessa, di porre una distinzione netta tra dimensione reale e fittizia.

15

Le considerazioni di natura linguistica sulla diversificazione del linguaggio cercano di delinearne le origini. Si pensi a Gregory (1967) il quale distingue tra varietà di linguaggio legate alle proprietà 'reasonably permanent' dell'utente, e quelle legate al modo in cui l'utente si serve del linguaggio (incluso ideoletti e dialetti sia geografici che sociali), riguardante le varietà diatipiche (ora intese come 'registri'), «the linguistic reflections of the user's use of language in situation» (Brumme-Espunya: 2012, 8), le cui ramificazioni dipendono dal mezzo, dalla situazione generale nella quale si inserisce il parlante, dalla relazioni personale tra parlante ed interlocutore e dalla loro relazione funzionale.

89

La caratteristica principale del dialogo drammatico per Korpimies17 è la casualità apparente della sua ricezione, tant’è vero che a proposito utilizza l’aggettivo

overheard. Le parole entrano a far parte del 'microcosmo' del dramma18, che a sua volta è parte del macrocosmo costituito dal pubblico, che assiste. Caratteristica essenziale del microcosmo è che tutto ciò che viene detto è rilevante. Non ci sono momenti vuoti, gratuiti o fini a loro stessi. Così anche Short, per il quale nel ‹‹prototypicaldrama›› si trovano due livelli di discorso: autore-pubblico e personaggio-personaggio19, contibuenti alla creazione dell'effetto drammatico e della tensione nel pubblico. Short usa l’aggettivo ‘prototipico’ perchè spesso i personaggi sono più di due, in un succedersi di contesti, o perchè a volte viene introdotto il terzo livello che è quello del narratore (come in Il cerchio di gesso del Caucaso di Brecht).

Monologo e dialogo

Il discorso sul dialogo spesso si incrocia col monologo: Jan Mukarovsky afferma che la relazione tra i due è uno dei punti interrogativi della teoria del dramma ma anche di quella linguistica, che definisce il monologo un discorso prodotto da un singolo partecipante attivo, indipendentemente dalla presenza di altri partecipanti passivi (si vedrà in seguito come il monologo sia l’elemento fondante della narrazione, che è infatti interpretabile come un classico monologo linguistico). Secondo Mukarovsky i monologhi hanno monopolizzato l’attenzione critica, e il dialogo ne ha risentito. La sua analisi del dialogo individua tre aspetti sempre presenti:

1) l’esplicita relazione tra due20 partecipanti 'I' e 'you'21: nel dialogo i ruoli attivi e passivi si alternano tra i parlanti, mentre nel monologo si fossilizzano, mimetizzandone la presenza in maniera più significativa. Questa opposizione si manifesta attraverso tutti i meccanismi linguistici che enfatizzano la demarcazione dei parlanti e le rispettive opinioni – dall'ovvia presenza dei pronomi personali all'uso di tempi verbali come l'imperativo.

2) la relazione tra i partecipanti e la situazione materiale che li circonda. Questa può influire sul dialogo sia in termini indiretti che diretti – cioè quando il tema della conversazione cambia per via della situazione reale/materiale. In misura più o meno invadente, l'influenza della situazione materiale è sempre percepibile nel dialogo, ed è rivelata dalla deissi (pronomi dimostrativi e temporali, avverbi di tempo, tempi verbali che rimarcano il risolversi dell’azione nel presente).

16 Brumme - Espunya:2012, 9.

17

La quale elaborò il concetto di 'immagine drammatica': l'interpretazione del play nella sua interezza, senza segmentazioni di sorta (Herman: 1995, 61).

18

Ibidem.

19 Short: 1996, 169. 20

Eccezione all’interazione a due del dialogo drammatico è la pur sempre valida alternativa del ‘messaggero’, una terza parte che incarna uno spazio e un tempo conteporanei ma diversi dall’azione principale, tramite il quale vengono riportati eventi off-stage e atti di personaggi assenti ma rilevanti (Herman 1977).

90

3) il carattere specifico della struttura semantica del dialogo, che, a differenza dei primi due, è un fattore interno. La struttura del dialogo si modifica a seconda del tema ma anche in base ad altre variabili, come il coinvolgimento dei due parlanti – più questo sarà elevato, più brevi saranno gli interventi di ciascun parlante. Quindi è la diversa costruzione semantica che distingue il dialogo dal monologo.

Secondo Verltrusky invece la discriminante si troverebbe nella situazione extralinguistica: il dialogo differisce dal monologo per la sua contestualizzazione inevitabile di ‹‹here and now››22. Da qui deriva la dipendenza dei parlanti dalla situazione psicologica in cui sono immersi. Nel dialogo drammatico per Verltrusky l'affidamento alla parte linguistica è fondamentale, nel senso che il ‘qui ed ora’ sono suggeriti dalle parole che vengono usate, sono immateriali, così come sono immateriali i personaggi stessi, proiezioni dell'autore, creati dalla parola: «In dramatic dialogue the speakers themselves, like all other components of the imaginary extra-linguistic situation, are pure meanings deriving from the language of the play»23.

Mukarovsky prova che la differenza tra monologo e dialogo è più che altro di natura semantica, radicata nell’organizzazione interna, prendendo ad esempio il passaggio da un brano narrativo tratto da L’accalappiatopi di Viktor Dyk – ad un dialogo drammatico a più voci – The Pied Paper of Hemelin, E.F. Burian, 194024: se il monologo presenta una struttura ben definita, può facilmente diventare dialogo senza grossi stravolgimenti. Nel caso specifico, l'adattamento teatrale della storia ha permesso di ridurre all’osso gli interventi sul testo, evidenziandone la facoltà dialogica che emerge dalla preferenza per più frasi principali tutte legate per coordinazione, una alternanza di valutazioni e punti di vista (in questo caso parzialmente positive e parzialmente ironiche) che permette di assegnare i turni a più parlanti-personaggi. Non è quindi il tema generale che determina la possibilità di passare da monologo a dialogo, ma la struttura interna del monologo stesso. Quanto alla contestualizzazione temporale del dialogo, al ‘qui ed ora’, non si deve dimenticare che l’attualizzazione delle azioni è da interpretare in maniera relativa: la successione temporale non è infatti sempre corrispondente al tempo empirico, effettivo, del presente vissuto dal pubblico, non fosse altro per le allusioni ad avvenimenti passati25.

Il dialogo nel dramma e nella narrativa

Individuare le differenze tra elemento dialogico teatrale e narrativo obbliga a risalire alle origini dei due generi: si torna a parlare di monologo, da cui per Veltrusky si originano la narrativa e la lirica, mentre le radici del dramma vanno

22 Mateika-Ttitunik: 1976, 128. 23

Ivi,130.

24 Mukarovsky: 1977, 103-104.

25 Quando si tratta invece di opere in cui l’emittenza drammaturgica è notevolmente anteriore rispetto al pubblico ricevente, il fattore temporale si esprime in termini di ricezione, con lo strascico di aggiustamenti necessari.

91

cercate nel dialogo; nel dramma coesistono una pluralità di universi che finiscono per scontrarsi: da questa mescolanza deriva la necessità (che però non è regola fissa) di avere un rappresentante, cioè un attore, per ciascun personaggio. In tal modo durante il dialogo lo spettatore percepisce tutti i contesti (e quindi tutti i personaggi) allo stesso tempo. Se vi fosse un attore unico per tutti i personaggi, il pubblico perderebbe di vista la frammentazione – e il conflitto – di universi sopra citati, che viene invece percepito innanzitutto grazie all'alternanza di battute e all'identificazione tra la battuta e il personaggio che la recita. Il dialogo narrativo invece si concentra sulla sequenzialità, enfatizza la successione degli interventi dei parlanti, mettendo in secondo piano quella contrapposizione che come già detto contraddistingue l’ambito drammatico.

Uno studioso che si è lungamente occupato di lingua e dialogicità è Bachtin, che però ha solo sfiorato la dimensione teatrale.

Si possono [...] enucleare gli elementi puramente drammatici del romanzo, riducendo il momento narrativo a una semplice didascalia ai dialoghi dei personaggi romanzeschi. Ma in realtà il sistema delle lingue del dramma è organizzato in modo radicalmente diverso che nel romanzo. Non c’è una lingua che ingloba tutto e che è rivolta dialogicamente alle singole lingue, non c’è un dialogo di secondo grado, non d’intreccio (non drammatico), che ingloba tutti gli altri26.

Il sistema del romanzo è totalizzante: è qui che la lingua rivela appieno tutte le potenzialità espressive, poiché nella parola del romanzo è il plurilinguismo a dominare (mentre la parola poetica deve essere vergine, unitaria ed indubitabile). Secondo Bachtin il dramma è quindi condannato al monologismo27 per via dell’assenza del narratore, garanzia di plurivocità: infatti nel romanzo troviamo una narrazione diretta dell’autore unita a discorsi extra-artistici, la stilizzazione di forme narrative orali e di forme scritte, discorsi con una propria distinzione stilistica28; tutto ciò sarebbe assente nel dramma – considerato da Bachtin però solo in virtù della sua forma testuale. Si è già detto come il testo non possa essere considerato l’unico elemento significante, e Lotman aveva parlato della ‹‹ricchezza segnica del discorso scenico››29 a proposito della intercambibilità dei codici in scena; si aggiunga poi l’apporto di ogni personaggio alla configurazione di un universo sfaccettato ed una plurivocità che deriva dal fatto che già a livello testuale la lingua è unione di nuovo ed antico (si ripensi al discorso di Pugliatti sull’equilibrio tra continuità e rottura rispetto alla tradizione), in un dialogo che si realizza diacronicamente con autori e generi del passato.

Bachtin afferma, riferendosi alla parola del romanzo, che

La viva parola è orientata in modo diretto e rozzo verso la futura parola-risposta: essa provoca la risposta, la prevede e si costruisce andandole incontro. Pur formandosi nell’atmosfera del già detto, la parola nello stesso tempo è determinata dalla parola di

26 Bachtin: 2001, 74. 27 Corona: 1986, 295. 28 Bachtin: 2001, 70. 29 Corona: 1986, 295.

92

risposta non ancora detta, ma resa necessaria e già prevedibile. Così avviene in ogni dialogo vivo30.

Dato che afferma che tutte le forme monologiche sono orientate verso l’ascoltatore e la sua risposta31, si potrebbe dedurre che è in questa serie di caratteristiche che Bachtin implicitamente inquadra la lingua teatrale, che vede ancora una volta lo spettatore al centro dell’intera operazione.

Bachtin assegna inoltre alla lingua del romanzo molte di quelle doti che però ricordano da vicino la lingua teatrale; premettendo che la lingua del romanziere è sempre pluridiscorsiva perché manca in partenza di unitarietà, ovvero l’autore assorbe la pluralità prima ancora di scrivere (sia che decida di infonderla nel testo oppure no), Bachtin vede nella presenza dell’«uomo parlante e della sua parola» l’elemento assoluto del romanzo, il punto dal quale si origina la sua originalità stilistica. Basterà ricordare le parole di Nencioni ma in generale dei vari teorici del teatro, concordi nell’affermare che non c’è teatro senza attore, per mettere quindi l’attore in quanto ‘uomo parlante’ al centro del teatro stesso32.

Per Bachtin vi è nella lingua romanzesca una componente ideologica che il teatro non ha:

30 Bachtin: 2001, 88.

31

Specificando come non si indaghi a sufficienza sul verso opposto, cioè come l’ascoltatore influisca nello stile della risposta stessa: i parlanti si orientano a vicenda per crare un orizzonte comune, appunto dialogico.

32

De Marinis afferma che le drammaturgie veramente decisive nella formazione di uno spettacolo contemporaneo sono quelle del regista e quelle dell’attore (De Marinis: 2000, 29), di cui la discussione teorica indaga le modalità espressive. È l’attore il centro della riflessione sul teatro di Stanislavskij: se l’attore non sa comunicare, il pubblico non può credere a ciò che vede: è il concetto di azione reale, non fine a sé stessa o puramente coreografica. Se l’attore riesce a mantenere costante la motivazione interiore che poi riempie l’azione esteriore di continuità, lo spettatore ne coglierà la logica e quindi sarà coinvolto (Ruffini 2003:,42); De Marinis sottolinea come dietro l’evoluzione dell’opera di registi come Brecht e Stanislavskij vi sia proprio una maggiore interazione con il lavoro dell’attore (De Marinis: 2000, 57-8). Stanislavskij affermava che il lavoro del regista non si limita a presentare un progetto e aspettarsi di vederlo realizzato, ma il suo percorso creativo doveva andare di pari passo con quello degli attori per sviluppare il vero nucleo del dramma (ibidem). La visione del regista maieutico lo predispone come primo spettatore dell’attore. Mejerchol’d ne individuava il mestiere in un controllo del corpo unito alla capacità di attirare lo spettatore al di là del personaggio da interpretare (Molinari: 1982, 39); per Grotowski non c’è teatro senza attore:

Documenti correlati