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Il legame tra teatro e tessuto culturale di una determinata società è cosa ormai talmente riconosciuta da esser quasi data per scontata. Ai fini di un discorso sulla traduzione del testo drammatico, tuttavia, è importante ristabilire tale connessione, che guida e condiziona anche il lavoro del traduttore. Le radici di questo legame affondano nell’antichità, in quel teatro classico che diventava rito1 religioso ed esperienza unificante collettiva (da non trascurare la componente prettamente spettacolare, inevitabile conseguenza della figura dell’attore, dello spettatore e del presupposto legato al guardare ed essere guardato2).

Scorrendo protagonisti e storie che hanno animato i palcoscenici dalla classicità in poi è evidente come il teatro sia riflesso dell’evoluzione del pensiero: dal teatro greco e la prevalenza dell’«individuo eccezionale»3, monito esemplare delle calamità che giungono alla polis quando si mette il bene sociale in secondo piano, alla funzione della maschera, da simbologia mitologica, con un legame rituale che deriva dal diventare ‹‹altro da sé››4, a «prototipo della individualizzazione del personaggio drammatico»5. L’evoluzione del modo di fare teatro è un segnale altrettanto efficace del cambio di percezione del senso dell’attività stessa: dal teatro greco, la cui finalità civile di collante sociale era comprovata e sostenuta dal finanziamento statale6, al professionismo moderno, teatro di impresa commerciale.

Che l’esistenza del teatro sia legata indissolubilmente alla società, della quale è strumento educatore, lo sosteneva anche Henry Irving. La sua è una prospettiva impostata sulla interrelazione tra religione e teatro (anche se in aperta contestazione con la critica clericale, tant’è che a suo dire «it would be easy to show that [...] it has

1 Funzione del rito è voler mettere ordine nelle cose del mondo, definirne e regolarizzarne l’andamento; come affermava Emile Durkheim il rito ha una carica simbolica che funge da collante sociale, che si concretizza tramite il teatro.

2 Alonge: 2008, 4. È proprio la differenza di livello tra spettatore e attore a permettere la funzione catartica. Il personaggio (portato in vita dall’attore) non è sullo stesso piano del pubblico: tale distanza (anche sociale) fa sì che per quest’ultimo i personaggi tragici siano delle proiezioni di impulsi a cui non è possibile dare sfogo vivendo in una società democratica, quale appunto quella greca. Il pubblico non si sente protagonista a sua volta, una concezione direttamente legata alla cultura e alla società ateniese così come era politicamente organizzata e prestabilita (ivi, 19).

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Bernardi- Susa: 2008, 29.

4 Alonge: 2008, 4. Va ricordata anche la funzione più direttamente pratica, quella che facilita l’identificazione dell’attore col personaggio; in secondo luogo, la maschera permetteva a ciascun attore di coprire più parti (ivi, 6).

5 Bernardi- Susa: 2008, 31. 6

La gestione delle spese era distribuita tra lo Stato ateniese, che pagava attori e autori e rimborsava il costo del biglietto, e benestanti provati che si occupavano del coro (Alonge: 2008, 8).

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always been society that has first vitiated the stage»7), ma Irving è convinto dell’influenza positiva del teatro sulla popolazione non acculturata, poco incline alla lettura ma disposta a lasciarsi coinvolgere da una performance teatrale; questo nonostante il teatro non sia sempre stato in grado di produrre esiti considerati all'altezza della funzione che dovrebbero svolgere:

It is from the theatre, from the legitimate theatre – from English tragedy, comedy, and drama – that the commonality of all classes derive, more than from any other source, the food and the stimulants which the higher nature requires8.

Grande rilevanza assume la lezione morale che deve emergere dal play, «esaltazione della virtù e repressione del vizio»9, il che non fa rima necessariamente con una visione edulcorata della realtà: il teatro deve mostrare anche l'asprezza e la severità della vita, in una parola il male, affinché la ricerca del bene possa emergere chiara e lampante: «it is not by hiding evil, but by showing it to us alongside of good, that human character is trained and perfected».10 Il teatro così come lo auspica Irving offre inoltre la possibilità di ricompattare i ceti sociali, contando sul fatto che una produzione possa far convergere nello stesso edificio persone di diversa estrazione.

Il teatro finisce per essere indissolubilmente legato a cultura e società anche a causa del bisogno costante di riflettere la realtà11 e mettersi al suo servizio. Ad un certo punto l’utilità concreta del teatro diventa condizione necessaria ed imprescindibile, e quando Shaw mette a confronto A Doll's House e un classico come

A Midsummer Night's Dream questo dettaglio emerge in tutta la sua chiarezza:

A Doll's House will be as flat as ditch water when A Midsummer Night's Dream will still be as fresh as paint; but it will have done more work in the world; and that is enough for the highest genius12.

Poco importa la qualità artistica – in certi casi innegabile – e la maestria della scrittura, talvolta il pregio del teatro sta nella sua utilità pratica. È questa un’affermazione che, oltre a rimarcare la volontà di abbracciare prodotti teatrali anche da altre culture e altri sistemi temporali, porta alla luce la forte appartenenza di

7 Irving – Richards: 1994, 167. 8 Ivi, 163. 9 Ivi, 164. 10 Ibidem.

11 Una precisazione di natura semiotica: a teatro si va oltre ciò che è socialmente e culturalmente definito, poiché il fatto stesso di essere presenti in scena trasforma - enfatizzandola - la funzione che oggetti o corpi normalmente occupano in società. Bogatyrev affermava che «on the stage things that play the part of theatrical signs acquire special features [...] that they don't have in real life» (Elam: 2002, 6). Anche nel caso di rappresentazioni volutamente realistiche, la dimensione simbolica e la sovrapposizione di senso è sempre presente, in un equilibrio tra denotazione e connotazione che spesso gioca a favore di quest'ultimo aspetto.

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un testo contemporaneo alle tematiche che evidentemente hanno ispirato l'autore: una scrittura decisamente contestualizzata, con un fine sociale preciso, con un pubblico modello estremamente definito, insomma, un testo appositamente per il suo tempo, sviluppato per essere «useful»13. Qui ci si affianca al concetto di rilevanza così come lo intendeva Sartre, cioè produrre teatro che potesse parlare specificatamente al pubblico immerso nel contemporaneo, che avesse una portata moderna ed immediata, sicuramente provocatrice, invece di optare per produzioni di opere a suo dire irrilevanti proprio in virtù della loro classicità (intesa come capacità di parlare a più epoche, ma non di suscitare dibattito o scuotere gli animi). Sono quindi lavori che affrontano tematiche fortemente storicizzate e tipiche dell'epoca nella quale si sviluppano: quando si esaurisce la forza che li tiene in vita, quando cioè i temi non sono più ripristinabili, perdono vitalità e di conseguenza cessano di essere rappresentati perchè non hanno niente più da dire alle nuove epoche. È il caso di The

Merchant of London, di George Lillo, del primo decennio del Settecento: prosciugata

l'idea principale della difesa del sistema mercantile dell'epoca, il play ha esaurito la sua funzione, non offre nuove chiavi interpretative, né riesce a trovare nuovi slanci in prospettiva stilistica, dato che i critici moderni lamentano una scrittura piatta, eccessivamente predicizzante, moralista: era però il tipo di scrittura che l'autore aveva programmato per il suo 'useful play' e verso il quale il pubblico dell'epoca era ben disposto.

Ciò non toglie la tendenza inglobante del teatro moderno che, come Brecht lamentava, «[…]exhibits plays of every period and every country and invents the most disparate styles for them, without having any style of its own»14.

Ricordando il concetto di semiosfera, nessuna cultura vive in totale isolamento, e quindi uno scambio di produzioni è inevitabile non solo a livello letterario ma anche teatrale. È qui che il legame tra teatro e cultura si complica, perché non è più possibile ragionare esclusivamente in termini intraculturali, ma è necessario considerare anche le implicazioni extraculturali o, per usare la terminologia di Patrice Pavis, «we can institute another approach: the study of intercultural theatre»15. Con ciò Pavis intende non tanto il passaggio di uno spettacolo da un paese all’altro, il suo divenire ‘conosciuto’– un’esperienza più internazionale che interculturale – ma il processo di assorbimento di un prodotto teatrale, nella creazione di un ibrido che è allo stesso tempo riconoscibile come appartenente alla tradizione di origine e rinnovato da nuovi stimoli. Pavis oggi aggiorna la sua teoria, registrando come l’avvento della globalizzazione abbia in un certo senso modificato il concetto stesso di interculturalità, e riconoscendo che i modi in cui si riflette a teatro sono ben più frammentati; Sirkuu Aaltonen preferisce parlare di «intercultural exchanges within theatre practice»16, poiché l’interculturalità restringe il campo alle sole forme ibride, mentre anche a livello intraculturale possono emergere punti di contatto tra produzioni completamente autonome, che non si pongono l’obiettivo di oltrepassare

13 Ivi, 64. 14 Ivi, 85. 15 Pavis: 1992, 4. 16 Aaltonen: 2000, 12.

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il confine né nascono lasciandosi deliberatamente ispirare da un prodotto estero, e da una tradizione teatrale altra: compito degli studi intraculturali è capire come si evolve il teatro di una certa nazione, studiarne i capisaldi anche alla luce degli spiragli che si aprono ad influenze esterne. Pavis invece oggi si esprime in termini di «intercultural performance»17, ad evidenziare la destabilizzazione delle identità nazionali in seguito alla globalizzazione e il fatto che le diverse culture siano già interconnesse, rendendo più indistinte e artificiose le distinzioni tra ciò che è ‘intra’ e ciò che è ‘inter’ culturale.

Quando Patrice Pavis inizia a parlare di interculturalità a teatro lo fa a trecentosessanta gradi, spianando la strada alla consapevolezza delle letture personalizzanti alle quali ogni cultura sottomette la novità teatrale con la quale entra in contatto; nel contesto specificatamente traduttivo basti pensare ai trattamenti cui è sottoposto un testo drammatico e il riconoscimento di quanto sia forte la componente culturale sottesa a ogni manifestazione teatrale: le tradizioni plasmano temi, struttura, convenzioni, tutti elementi che rendono un testo tipica espressione della cultura che lo ha prodotto, una sorta di impronta più o meno volontaria o consapevole. «Culture […] is a kind of shaping, of specific ‘inflections’ which mark […] every aspect of our mental life»18, così scriveva Camille Camilleri nel 1982 e il teatro non è esente da tale significativa influenza: a livello testuale, a livello attoriale, a livello performativo, ogni nuovo prodotto è nuovo inteprete ed erede involontario di ciò che lo ha preceduto. Seguendo Eugenio Barba, mentre è lo spettacolo in sé ad avere una durata limitata e definibile, il fenomeno teatro nel complesso è più resistente perché ingloba tradizioni, convenzioni ed abitudini in una stratificazione progressiva.

Alla luce di tali presupposti, il picco di complessità si raggiunge nel momento in cui si vuole rappresentare un prodotto della cultura teatrale A nella cultura teatrale B. È anche grazie alla traduzione se tale scambio è possibile al livello più completo e profondo; non si manifesta però solamente in ambito strettamente testuale – dominio naturale della traduzione – ma anche nella pratica della messinscena.

Secondo Patrice Pavis il modo più efficace per descrivere il processo – nonché la selettività, il compromesso che lo contraddistingue – è immaginarlo come una clessidra:

In the upper bowl is the foreign culture, the source culture [...]. In order to reach us, this culture must pass through a narrow neck. If the grains of culture or their conglomerate are sufficiently fine, they will flow through without any trouble [...] the grains will arrange themselves in a way which appears random, but which is partly regulated by their passage through some dozen filters put in place by the target culture and the observer [...]19.

La traduzione è necessariamente uno dei filtri, e il primo di questi ad essere coinvolto nel processo di trasposizione20.

17 Pavis: 2010, 8. 18 Pavis: 1996, 3. 19 Pavis: 1992, 4.

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La rappresentazione è il culmine del compromesso interculturale. I sistemi di segni vengono riposizionati perché si adattino in maniera pratica alle necessità comunicative; diventa evidente il lavoro di rielaborazione (e, se è il caso, di inglobamento) che include la presenza di micro-indizi culturali disseminati lungo il testo fino alla formazione attoriale, ciò che si definisce 'inculturazione'21: l'attore finisce per incorporare, più o meno consapevolmente, tecniche e norme del gruppo, del contesto teatrale in cui agisce, e questi sono legati a loro volta alla cultura nella quale vivono (per avere una prova di questo, basti pensare alla ormai abbastanza dibattuta difficoltà degli attori moderni davanti a un testo shakespeariano: l'essere maturati con le convenzioni teatrali moderne, frutto di un processo di evoluzione anche culturale, richiede uno sforzo maggiore per entrare in sintonia con un testo concepito per funzionare con altri meccanismi, che, come difficoltà aggiunta, non sono stati ancora determinati con soddisfacente certezza).

Esattamente come avviene in traduzione, una perfetta sovrapposizione, un «meltin pot»22 lineare e completo a teatro non è realizzabile proprio a causa delle pressioni della cultura sul meccanismo di reazione della messinscena: influenze riguardanti, come già accennato, la formazione degli attori ma anche i contenuti del testo drammatico. Nel nostro contesto, le modalità del teatro occidentale rappresentano qualcosa di più di semplici linee guida, sono veri e propri binari entro i quali bisogna mantenersi.

In questo sfondo di comunicazione interculturale la prospettiva degli adattatori acquisisce particolare rilievo:

Until the conceptual tools (extremely problematic in their very hybridization) which

2. 'artistic modeling' (ovvero individuare come i vari generi teatrali si codifichino e si inseriscano all'interno della propria cultura, processo questo difficile da realizzare per via delle correnti artistiche e ideologiche di ogni genere, che rendono arduo individuare un punto in comune), 3.'perspective of the adapters' (ovvero la dimostrazione, in tempo postmoderni, del relativismo culturale che sottende ogni messinscena), 4.'work of adaptation' (ovvero la messa in pratica delle prospettive degli adattatori), 5.'preparatory work by actors', 6. 'choice of theatrical form', 7.'theatrical representation of the culture' («the mise en scene and theatrical performance are always a stage translation of another cultural reality» (Pavis: 1992,16), e la trasposizione interculturale è traduzione sotto forma di appropriazione e di una cultura e relativo rimodellamento), 8.'reception-adapters', (il rischio che deriva dall'appropriazione e dall'interpretazione di una cultura altra alla luce della propria è secondo Pavis quello di eurocentismo - etnocentrismo, quindi l'incapacità di cogliere la diversità. A questo proposito serve la figura del mediatore-adattatore, che cerca di conciliare i due mondi); 9. 'readability', cioè i livelli presentati dalla messiscena, tra i quali il ricevente 'sceglie' quali leggere; 10. 'artistic- sociological and anthropological-cultural modeling'(ovvero cosa rimane della source culture dopo essere passata attraverso le tappe già viste, e i confini si fanno ovviamente molto labili); 11. 'given and anticipated consequence' (l’elaborazione dello spettacolo che in ultima istanza è affidata al pubblico).

21 Ivi, 9. 22 Ivi, 7.

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would do justice to the western and eastern context become available, intercultural communication needs receptors-adapters, 'conducting elements' that facilitate the passage from one world to another23.

Secondo Pavis e Camilleri, la tendenza imperante è quella della relativizzazione, ovvero la ricerca non dell'unica interpretazione possibile, ma di una delle plausibili varianti, e ciò diventa evidente nella messinscena dei classici; nel processo che porta all' interpretazione, è ancora una volta il gruppo dominante, l'élite, a farla da padrone: la prospettiva degli adattatori è perciò fortemente etnocentrica, ma ciò non significa che, consapevoli dello sbilanciamento, non lo rendano volontariamente manifesto, quasi a renderlo un tratto distintivo. Nella prospettiva dell'adattamento interculturale, la figura dell'adattatore è incarnata sia dal traduttore che dal regista, dall' attore o dal costumista, tutti coloro che hanno il ruolo di interpretare e filtrare per incontrare l'orizzonte di attesa del pubblico. Vi è un alto grado di consapevolezza della differenza tra la cultura fonte e quella di arrivo, sul quale l'adattatore sperimenta per raggiungere un risultato finale soddisfacente, mettendo in pratica quelle «tactical choices»24 tramite le quali si mediano o si limano certi aspetti contrastanti. Vale la pena notare che alcune di queste figure hanno però margini di manovra più ampi di altre: l'autonomia di un traduttore infatti non può essere paragonata a quella del regista, la cui visione è più slegata e indipendente, una prospettiva già d’insieme; il traduttore è invece una figura la cui mediazione è strettamente dipendente dalla dimensione testuale, dalla quale si può allontanare (ma sempre con ragionevolezza) solo se ciò va a vantaggio del metatesto, senza contare che, posizionandosi alla base dell’intero processo di ‘trasferimento’, in ambito teatrale non soltanto si aggiunge l’impegno di trasmettere quanto più possibile dal testo fonte senza poter al contempo beneficiare di un quadro d’insieme completo (il che costituisce un limite più significativo), ma emerge anche la responsabilità di far sì che il testo sia ‘enigmatico’ quanto quello di partenza.

Resta da vedere, secondo Aaltonen, se il passaggio si configura come un processo interculturale o piuttosto transculturale: ovvero, poiché una cultura è incline ad accettare dall’esterno solo quelle influenze che le corrispondono, evidenziando l’esistenza di un terreno comune di partenza su cui lavorare, l’impatto ‘rivoluzionario’ sarebbe alquanto attutito; senza considerare poi quegli autori o registi (Peter Brook su tutti) la cui filosofia di lavoro e approccio al modo di fare teatro si propone già in partenza di comunicare ad un pubblico molto più vasto di quello del proprio confine di appartenenza, in nome di una universalità di cui, appunto, cercano conferma. Aaltonen approfondisce le ramificazioni che si possono raggiungere in una serie di distinzioni di livello squisitamente teorico mirate a catalogare tutte le sfumature che un contatto teatrale/culturale può assumere: quindi cita il teatro ultraculturale, una ricerca a ritroso verso l’essenza rituale del teatro mirata a dimostrare che esiste un substrato comune che annulla ogni successiva stratificazione culturale; il teatro pre e post culturale, il primo che rincorre l’incontro

23

Ivi, 17. 24 Ivi, 192.

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Occidente-Oriente prima della definitiva cristallizzazione e diversificazione, il secondo che mira a demolire quelle gerarchie culturali colpevoli di aver diretto ed imposto in modo in cui le società si sono organizzate; teatro meta-culturale, che riflette sulle proprie forme proponendo ciò che è estraneo. Come giustamente osserva Aaltonen:

The usefulness of the categorization is rather limited for the study of theatre translation if other elements of the production were excluded, since the way texts have been combined with acting styles, settings, props, light, music, backdrops, and so on in the intercultural exchange would offer more valid results25.

Tornando invece a Pavis, il suo intento è cercare di determinare in che modo si possa oggi distinguere tra la ‘intercultural performance’ e i generi nei quali in misura più o meno importante si ritrova una implicazione culturale: particolarmente interessante è il teatro multilinguistico, perché l’affidamento alla competenza linguistica del pubblico permette di saltare da una lingua all’altra, un andamento altalenante che evita a piè pari il problema dei realia ma anche della resa comica in traduzione; altrettanto interssante – in prospettiva della traduzione del testo drammatico – è il teatro in lingua originale con l’ausilio dei sottotitoli, che però presenta lo stesso limite (e si presta alle stesse critiche) dei sottotititoli in video, ovvero la scelta tra ‘leggere’ e ‘vedere’, parzializzando l’esperienza completa di ricezione.

Ciò che traspare al di là delle classificazioni teoriche – e ciò che forse conta maggiormente, sempre tenendo presente le ripercussioni sul momento della traduzione del testo drammatico – è l’impossibilità di scegliere una produzione da un contesto A e trasferirla così com’è, senza modifiche di sorta, nel nuovo contesto B. Esempi di come una cultura di arrivo rielabori e renda un prodotto teatrale straniero adatto alle proprie corde sono tanti e tutti significativi, e si potrebbe iniziare già dalla classicità, citando autori come Plauto e la sua significativa rielaborazione delle fonti greche (e quindi anche a livello traduttivo si trattava di riscritture che non tenevano in grande considerazione il criterio del rispetto filologico verso l’originale). A questo proposito, un aspetto che inizia ad emergere da molti degli esempi seguenti e che si approfondirà nei capitoli successivi è una certa difficoltà nell’inquadrare precisamente i confini tra traduzione ed adattamento: si vedrà che la portata di certi interventi è notevole in termini di distanza dal ‘modello’, il che però non significa

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