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Tracciare un percorso critico sulla ricezione di Shakespeare in Europa – e nello specifico in Italia – è un lavoro che rischia di disperdersi per via della quantità di pagine scritte sull’argomento.

Per Rebora (1949) studiare le alterne fortune della ricezione shakespeariana permette di seguire passo passo gli sviluppi culturali e la direzione verso la quale si muove il gusto del pubblico ma anche la percezione creativa degli artisti. È stato a partire dalle traduzioni (a conferma che tradurre è sinonimo di ampliamento e apertura degli orizzonti culturali) che la fama di Shakespeare si è progressivamente radicata per poi valicare i confini teatrali, includendo adattamenti e riscritture. Ripercorrere la ricezione di Shakespeare (particolarmente in Italia) significa quindi non solo verificare con quale attitudine i traduttori hanno affrontato la novità, ma anche come la sua opera sia stata inevitabilmente plasmata dai dettami del gusto letterario delle varie epoche (e come questo si sia evoluto); anche dal punto di vista teatrale ci si è avvicinati a Shakespeare in una congiuntura favorevole di idee e visioni in evoluzione, ma, come si vedrà, sempre ponendo in primo piano le esigenze spettacolari, senza lasciarsi imbrigliare. Avendo già chiarito che il traduttore è avvolto nella propria cultura (che può accogliere o rifiutare, ma è sempre quello il punto di partenza) il percorso introduttivo a seguire mira a rimontare quel sostrato che fa da sfondo ai lavori di cu si parlerà nei case studies.

Volendo ricostruire a grandi linee i filoni e l’evoluzione della ricezione shakespeariana dagli esordi alla consacrazione, sul piano europeo la tendenza del XVII e XVIII secolo fu di distribuire lodi sottolineando allo stesso tempo le debolezze dell’impianto o della scrittura; in patria Ben Jonson, autore e attore di teatro, plaude alle commedie e alle tragedie per sostanza e introspezione, ma critica la scrittura, reputata troppo improvvisata e poco attenta: ‹‹players have often mentioned [...] that in his writing [...] he never blotted out a line. My answer hath been, 'would he had blotted a thousand!’››1. Il giudizio di valore e qualità non può non essere influenzato dalla preparazione e dalla diversa poetica di Ben Jonson, che non poteva esimersi dal rimarcare in Shakespeare la lacuna della classicità, un valore per lui ricorrente; inoltre, la visione dell’arte come momento razionale e la concezione del teatro appartenente alla sfera oggettiva non possono non spingerlo a rifiutare l’idea dell’ispirazione alla scrittura che arriva come un fiume in piena2.

1

Burke: 1998, 2.

2 Mentre Jonson aveva una conoscenza diretta dell’universo greco e latino, di cui si ha prova anche nelle citazioni delle sue opere, è probabile che Shakespeare ne sia entrato in contatto attraverso le traduzioni, dove, per usare le parole di Rosa Maria Colombo, ‹‹mediazioni […] dove si ha sempre una classicità mediata, modificata, adattata›› (Lombardo: 1979, 47). Anche Jonson però, in quanto autore e attore, teneva particolarmente al momento della rappresentazione, nonostante le sue opere siano meno ‘‘fresche’’ di quelle shakespeariane (ivi, 64).

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Johnson apprezzava particolarmente la consistenza dei personaggi, la grande ispirazione della Natura, il fatto che l’autore non si lasciasse ingannare dallo status e dalle aspettative che pesano sul ruolo sociale:

He was inclined to show an usurper and a murderer not only odious but despicable, he therefore added drunkenness to his other qualities, knowing that kings love wine like other men, and that wine exerts his natural power upon kings3.

La condanna arriva invece per l'assenza di un qualsivoglia intento educativo. Per Graf stupisce che Alexander Pope appoggiasse Shakespeare, ‹‹ch’è la negatio sua vivente››4: il biasimo dell’autore inglese era diretto alle tragedie, alla presenza di avvenimenti 'esagerati' e di un verso a suo dire pomposo.

Tra metà Seicento e fine Settecento vi è chi segue pedissequamente le regole aristoteliche e ovviamente non tiene Shakespeare in alcuna considerazione artistica, chi poi apprezza l'autore nonostante tale mancanza, e chi segue Shakespeare proprio in virtù del rovesciamento del rapporto Arte-Natura. Nella prima categoria Rymer è uno degli accusatori più intransigenti, denunciando, oltre al mancato rispetto delle tre unità, anche il rovesciamento della ‘ideologia dell’ordine’, ovvero il presentare i personaggi come sono, non come dovrebbero essere (l’opposto di quanto sosteneva Dr Johnson) e l’ignorare la riforma morale dei costumi, facendo sì che molti personaggi negativi non ricevessero punizione (affondando la poetic justice tanto cara ai neoclassici); sotto accusa anche la forma fluida dell’opera, che mescola indiscriminatamente tragedia e commedia.

Speculari sono quindi le argomentazioni di difesa; spicca quella di Dryden, il quale afferma di fare con Shakespeare quello che i Greci avevano già fatto per i testi di Eschilo, ovvero aggiornarlo al gusto neoclassico contemporaneo:

Dryden and others […] with protestations of pious intentions, […] were reworking some of the Shakespeare plays to make sure that their own clockwork view of the universe was not set awry by such persuasive preaching to the contrary as was found in an unbowdlerized King Lear5.

Esemplificativo dell’ambiguità di queste posizioni critiche è il saggio di Theobald Shakespeare Restored, del 1726, nel quale Hamlet al contempo era ‹‹more fertile in errors than any other the rest››6 e ‹‹perhaps the best known and one of the most favourite plays of our Author››7.

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Rispetto al resto d’Europa, in Italia la critica legata a Shakespeare si sviluppa con un ritardo in parte motivato dalla scarsa conoscenza della lingua inglese: ciò non

3 Ivi, 3. 4 Graf: 1921, 313. 5 McMahon: 1964, 15 6 Theobald: 1726, VII 7 Ibidem.

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desta meraviglia dato il motto Anglicum est, non legitur8; nel 1705, quando uscì l'Ambleto di Apostolo Zeno, ancora non si era sentito parlare di Shakespeare, e i punti di contatto tra i due testi sono esclusivamente dovuti ad un casuale riferimento alla stessa fonte. Come spiega anche Arturo Graf, il teatro francese aveva uno status così consolidato, un seguito così incontrastato che la concorrenza, teatro inglese incluso, aveva poco gioco poiché il paragone era in un certo senso obbligato: gli inglesi tendevano ad aggiungere dettagli inutili, i francesi preferivano lasciare lo spettatore nell’indeterminatezza dello spazio e restare sul generale per non ‘sporcare’ la tragedia e toglierle dignità.

Shakespeare inizia quindi a filtrare in Italia attraverso la mediazione del gusto neoclassico e la lente deformante delle opinioni di Voltaire9, unita alla grande

8 Rebora: 1949, 213.

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Si tenta di far risalire i primi acerbi giudizi critici francesi su Shakespeare sempre più a ritroso nel tempo, ma spesso si tratta di affermazioni poco fondate o malamente attribuite: il classico ritratto di Shakespeare come poeta dalla fervida immaginazione inficiata da difetti stilistici è stata progressivamente attribuita sia al bibliotecario reale Nicolas Clément (1675-1684), sia alle

Dissertations sur la Poésie Anglaise nel 1717. Figure la cui rilevanza è invece storicamente provata

sono quelle dell'abate Prévost, il quale si era recato in Inghilterra per capirne la cultura e la letteratura, e quella dell'Abbé Le Blanc (1745).

Quando si parla di Shakespeare in Francia il nome di Voltaire è una costante. Crinò afferma che Voltaire, pur demonizzando l'artista inglese, avrebbe inavvertitamente assorbito dei tratti caratteristici del suo teatro, dall'introduzione in scena dei reali e delle famiglie regnanti francesi alla scrittura di opere che presentano vaghe somiglianze con quelle shakespeariane (Zaire viene inquadrata come una copia mal riuscita dell'Otello). Nelle Lettres Philosophiques Voltaire inizialmente esalta i tratti della tragedia inglese, e lamenta il fatto che nessuno ne abbia ancora tentato una traduzione; il compendio delle innovazioni di cui parla Voltaire è contenuto ne La mort de César, con la quale il pubblico francese assorbe ed accetta definitivamente il cambiamento di rotta che il teatro va prendendo. Quando però la nuova direzione diventa troppo modernizzante, Voltaire inizia a fare dei passi indietro: il definitivo distacco dall'autore inglese avviene quando la sua fama rischia di offuscare quella di Corneille. È allora che Voltaire traduce il Giulio Cesare, ma l'ideologia inficia eccessivamente il risultato finale, il che suscita perplessità tra i contemporanei: D’Alembert dubita che Voltaire abbia compreso appieno la lingua inglese e soprattutto come renderla in francese senza sconfinare nel ridicolo (McMahon: 1964, 25); per Baretti ‹‹il n'a point traduit le Julius Ceasar de Shakespeare, il l'a assassiné›› (Crinò: 1950, 20); secondo la Crinò: ‹‹Ci si dovrebbe attendere che i pensieri fossero resi nella loro precisa forma, con la stessa determinatezza, senza ampliamenti che scoloriscono l'idea, senza omissioni e soprattutto senza arbitrarie interpolazioni. Troppo palese è infine l'insistenza nell'esagerare in senso meschino i sentimenti dei personaggi [...]. Troppo palese è l'intenzione di renderlo agli occhi dei propri connazionali ''dégoutant et méprisable’›› (ivi, 20). Il caso di Voltaire è un ottimo esempio di ideologia ‘letteraria’: gli studi della Bassnett e di Lefevere (1990) hanno mostrato che essendo la traduzione un’attività umana, la soggettività che la pervade filtra inevitabilmente dalle parole del traduttore, più o meno consapevolmente; la lente deformante tramite la quale il traduttore offre il metatesto al pubblico di arrivo in questo caso è incentrata sulla difesa della propria identità nazionale, resa pericolante da quell’Altro letterario che era Shakespeare: fare leva sul gusto letterario del pubblico è quindi uno dei meccanismi di difesa se si vuole correre in soccorso di una tradizione letteraria che si percepisce ‘sotto attacco’. Schleiermacher affermava che ‹‹either the translator leaves the author in peace, as much as possible, and moves the reader towards him; or he leaves the reader in peace, as much as possible, and moves the author towards him›› (Snell-Hornby: 2006: 145). In questo caso la linea di demarcazione non è così netta, perché l’intento di Voltaire era fornire una traduzione che non invogliasse all’approfondimento, ridefinendo in un certo senso il concetto di traduzione ‘orientata al lettore’, ma allo stesso tempo gli interventi sul testo non permettono di affermare che si trattasse di traduzione ‘orientata alla fonte’. Il tutto va ovviamente contestualizzato all’interno della filosofia traduttiva del tempo, che, come si è abbondantemente visto, faceva della flessibilità quasi un cavallo di battaglia, quindi la consueta

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diffusione delle versioni francesi. Il riserbo era dovuto principalmente alla ormai consolidata trascuratezza di quelle regole tanto care ai neoclassici e al teatro francese, tuttavia il diverso approccio alla crudezza della rappresentazione era un altro motivo di diffidenza: ‹‹il teatro inglese è pieno, a così dire, di quadri dell’orrore più violento e barbaro […] si distingue da tutti nel punto di fomentare colle rappresentazioni le più sconci la corruzione de’ pubblici costumi›› 10. Di riflesso, l'interesse italiano verso l'autore inglese non era tale da desiderarne una lettura più approfondita, temendo la contaminazione: Goldoni, per esempio, inizialmente sembra guardare a Shakespeare con distacco, come si nota dalla famosa dichiarazione di Crisologo nei

Malcontenti sul primato del presentare in Italia una commedia all’inglese (1754).

Sebbene le traduzioni shakespeariane siano arrivate in Germania e in Italia più o meno nello stesso periodo11, i testi di partenza erano quindi diversi: Von Borck per esempio traduce dall’originale inglese, mentre Valentini in Italia non entra a contatto con il testo originale (si ricordi Graf) ma con una sorta di adattamento, l’interpretazione della tragedia – il Giulio Cesare – da seconda fonte. A detta di Rebora mancava in Italia un’approfondita percezione critica e interpretativa del testo, un’operazione simile a quella di Monti con Omero, alla quale si aggiunge l’impossibilità di vedere le opere messe in scena da artisti nativi inglesi.

L’avversione per la lingua straniera da parte degli intellettuali italiani non è però una regola assoluta, e lo dimostrano sia Alessandro Verri, della cui traduzione dall’inglese si parlerà in seguito, sia Pietro Rolli, il quale in un certo senso anticipa la discussione autoriale, affermando di saper distinguere nel testo i passaggi puramente shakespeariani da quelli interpolati:

Il Rolli non fa questione di pregiudizi accademici secondo le regole aristoteliche, ma vede giusto, seguendo soltanto il suo buon gusto e la sua sensibilità di poeta; e gia al principio del Settecento indica le possibilità esegetiche di quella che ai nostri giorni venne chiamata la critica "disgregatrice"12.

Per di più la prima menzione di Shakespeare in Italia è attribuibile ad Antonio Conti, uomo di cultura noto nel Settecento nonché traduttore di Pope e di Racine, il quale si recò a Londra prettamente per questioni scientifiche ma che si ritrovò tra le mani ‹‹il Julius Caesar e il Marcus Brutus, che propriamente non sono che il Cesare

ondata di emendamenti o aggiustamenti non stupisce; d’altra parte è indicativa quella che Crinò interpreta come precisa volontà di ‘boicottare’ il testo, che implicherebbe una strategia ideologica cosciente (che se non sarebbe stata meno significativa se involontaria). Il colpo di grazia alle fondamenta del teatro classico francese arriva da Sébastien Mercier con L'Essay sur l'art dramatique, ancora una volta ispirato a Shakespeare, a cui seguono in risposta i discorsi di Voltaire noti come

Lettres à l'académie. In sintesi, il contributo di Voltaire alla diffusione di Shakespeare, seppur segnato

da una certa fissità ideologica, si rintraccia soprattutto nell'aver suscitato curiosità intorno alla figura del drammaturgo inglese e di averne così accelerato le future traduzioni, prime fra tutti quelle di Le Tourneur.

10

Graf: 1911, 304.

11 In linea generale tutte le nazioni che traducono Shakespeare nei secoli XVIII e XVIII sono alla ricerca di una forte e rinnovata identità, e accolgono con favore questo scrittore il quale aveva avuto il coraggio di rompere con la traduzione e di presentare in scena dei personaggi al limite.

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del Sasper diviso in due››13; Conti aveva menzionato Shakespeare in una lettera del 1715, nella quale esprimeva approvazione per un nuovo autore, il ‹‹Corneille inglese››, ‹‹ma più irregolare […], sebbene al pari di lui pregno di grandi idee e nobili sentimenti››14, che disattendeva le regole aristoteliche; tra le altre cose, si stupisce del fatto che tale autore ancora fosse sconosciuto in Italia, e in generale lamenta la mancanza di traduzioni di opere così piacevoli a leggersi quali quelle inglesi. Tale fu l'impatto di Shakespeare su Conti, che quest'ultimo inizio la scrittura di un Giulio Cesare fortemente debitore nei confronti della versione inglese (sebbene l’autore non ne faccia mai menzione diretta) ma non abbastanza da convincere l’autore ad abbandonare le regolarità neoclassiche.

Le prese di posizione degli scrittori si fanno più interessanti verso la metà del Settecento, specie riguardo la rottura del tabù delle regole aristoteliche. Sullo sfondo della Querelle des anciennes et des modernes in Italia la voce di Baretti si leva in difesa di Shakespeare in Discours sur Shakespeare et Monsieur de Voltaire del 1777, definito da Lombardo ‹‹the first serious and extensive critical study of Shakespeare in Italy››15: si tratta di un’opera fortemente influenzata dal contatto con Johnson, come prova il confronto tra le affermazioni dell’autore inglese nella Preface all’edizione del 1765 e le principali argomentazioni del Baretti. Tornato in Italia dopo aver trascorso una decina d'anni in Inghilterra, Baretti fondò la rivista La frusta

letteraria, tramite la quale bacchettava senza troppe remore la sudditanza italiana

verso il neoclassicismo francese, citando proprio Shakespeare come autore a cui invece guardare per nuova ispirazione: in fin dei conti l’irregolarità shakespeariana attirava a teatro ben più pubblico della regolarità aristotelica.

La difesa di Baretti, pur sintomatica di una nuova visione della critica e del teatro, non si allontana dalla filosofia illuminista né la rinnega, piuttosto cerca di dimostrare che è Voltaire ad essere in errore nel voler costringere Shakespeare in un quadro illuminista che non gli appartiene16.

L'argomentazione di Baretti è diversificata e mette in evidenza alcuni fattori: la scarsa conoscenza dell'inglese di Voltaire, il quale perde il diritto di pronunciarsi sulla povertà linguistica di Shakespeare, dato che non può comprenderla a fondo; l'idea eccessivamente conservatrice del teatro; l'ansia di regolarità per un testo che si fa chiaramente forza proprio della sregolatezza. Baretti tra l'altro è convinto dell'impossibilità di tradurre Shakespeare, ‹‹cette poésie qu'on ne saurait rendre dans aucune langue derivée du latin››17. Il suo giudizio è influenzato dal precedente tentativo di tradurre Corneille, e quindi da una chiara idea delle difficoltà legate alla buona traduzione poetica:

13

Crinò: 1950, 33. 14 Carlson: 1985, 12. 15

Lombardo: 1997, 455. L’interesse di Baretti per Shakespeare era già emerso all’interno di

Dissertation upon the Italian Poetry, (1753) e Dissertation upon the Italian Tongue (1757), nel Dizionario. (Lombardo: 1964, 4).

16

Kennan-Tempera: 1996, 131. 17 Ivi, 133.

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Ma sia ch'io non abbia bastevole perizia nella lingua nostra, o sia che la lingua nostra non abbia nervi e muscoli abbastanza, io non mi ci so arrischiare. Vedo bene i frutti sull'albero, e vedo che sono poma d'oro da far gola a chiunque; ma il terribil Genio di Tramontana che mi guarda non mi lascia stendere la vogliosa mano a ricoglierne pure un panierino18.

Sul versante pratico della dimensione teatrale pura, spetta ad Antonio Morocchesi, attore alfieriano di notevole fama, cercare di proporre una produzione di Shakespeare (l’Amleto) che non fosse basata sugli adattamenti francesi, e infatti il testo doveva essere la traduzione di Alessandro Verri, ma il tentativo cade nel vuoto (è indicativo che Morrocchesi avesse per l'occasione cambiato nome in Alessio Zaccagnini, indice della grande incertezza sulla ricezione: la prima rappresentazione dell’Amleto risaliva al 1774, seguendo la traduzione di Francesco Gritti)19: in generale la competenza attoriale di Morocchesi è, secondo Bragaglia, particolarmente inadatta alla meditazione che richiedeva il ruolo di Amleto, e proprio all’inadeguatezza dell’attore sarebbe da attribuire l’ulteriore ritardo del consolidamento del drammaturgo inglese sulle scene italiane: ‹‹possiamo senza esitazione credere che fu soprattutto come conseguenza di questo incontro ‘disgraziatissimo’ col Morocchesi se il ‘dolce prence di Danimarca’ venne accantonato, ritenuto ‘poco teatrale’››20.

Romanticismo

Abbiamo quindi visto che il biglietto da visita di Shakespeare in Italia è costituito da una prima ondata neoclassica di testi fortemente plasmati dal gusto francese; la direzione è indicata da Voltaire e Diderot, i quali poco apprezzano la continua oscillazione tra linguaggio prima crudo poi altamente poetico, e il cui giudizio si inserisce in un dibattito più ampio circa il ruolo della libertà, del flusso dell'ispirazione e dell'abbandono delle regole nell'ambito artistico: ‹‹order versus talent, rules versus spontaneity››21. In Francia permane una scissione tra la mentalità

18 Crinò: 1950, 63.

19

Non passano inosservate nemmeno le differenze tra la concezione attoriale italiana e inglese: Luigi Riccoboni nel 1740 sostiene che ‹‹i migliori attori italiani e francesi sono inferiori agl’ inglesi›› (Graf: 1911, 305).

20

Bragaglia: 2005, 20. 21

Locatelli: 1999, 20. In Francia l’arroccarsi su posizioni classicistiche, che nel resto d’Europa erano state superate con maggiore o minore facilità, fa sì che la reputazione di culla europea della cultura ne uscisse ammaccata. La resistenza francese nasceva da una difesa strenua di ciò che non veniva concepito semplicemente come un movimento razionalista di corte, ma come un valore assolutamente nazionale: difendere il razionalismo classicista equivaleva a difendere l’identità francese stessa. Il romanticismo francese è quindi una sorta di movimento che mira a smantellare dall’interno quelle convinzioni contro sui prenderanno posizione, tra gli altri, Mme de Stael e Hugo (Fazio: 1993, 36). La battaglia si combatte in un campo essenzialmente teorico, da cui poi prenderanno spunto nella pratica gli autori romantici. Mme de Stael contribuisce a divulgare Schlegel in Francia, in una posizione mediatrice e diplomatica, unico modo per riuscire a superare il muro di diffidenza (ivi, 62); particolare attenzione va al concetto di relativizzazione culturale, applicato anche al teatro: uniformare il sistema drammatico sarebbe stato impossibile per le particolari esigenze di ogni cultura. Vedendo che dopo sette anni dalla fine del regime napoleonico i sentimenti antianglosassoni impedivano un’ apertura seria al rinnovo del gusto, Stendhal si fece più critico e

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razionale della cultura elitaria e quella romantica della cultura popolare: il teatro ne risente per la mancanza di un rinnovamento nel gusto, nei temi e nell’approccio scenico che fosse riconosciuto nel circuito ufficiale; lo sbocco restava quindi il teatro popolare, dove però la mancanza di rigore penalizzava la qualità delle produzioni22. La diretta conseguenza è anche una svalutazione del rinnovamento culturale che

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