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Nel capitolo sul testo drammatico si è cercato di individuare in che cosa esso differisca da un romanzo o un testo tipicamente letterario. Si è visto come la chiave risieda nel comprenderne a fondo le diverse necessità, che impediscono al traduttore di confrontarsi con un testo teatrale come se si trattasse di un romanzo o di un saggio.

In linea generale i translation studies distinguono due grandi famiglie di testi, e, quindi, due grandi tipologie di traduzione: la prima è quella dei testi letterari (traduzione letteraria), la seconda quella dei testi scientifici (traduzione specializzata). È evidente che la macrofamiglia dei testi letterari contiene al suo interno un gran numero di sotto-generi, ciascuno dei quali, in virtù delle particolarità che lo distingue dagli altri, richiede un'attenzione particolare alla strategia traduttiva. Sarebbe un passo falso da parte di chi traduce considerare indiscriminatamente un thriller e un racconto breve, un romanzo per bambini e un’opera di saggistica.

In tale contesto generale la traduzione teatrale è stata inquadrata come uno studio ibrido «between literary and language scholars […] and theatre scholars»1 che da una parte si concentra sull’analisi del testo drammatico in quanto prodotto letterario e dall’altra sul sistema di segni messo in piedi a teatro. Il riflesso di questa scissione è classica distinzione tra testi per la scena e testi per la pubblicazione, che nel concreto vede scontrarsi una strategia recitativa contro una strategia letteraria.

Primaria differenza tra tradurre narrativa e tradurre teatro riguarda il destinatario: la figura di riferimento non è (solo) il lettore, come per la narrativa, ma l’attore. La catena si presenta quindi come segue:

autore / traduttore --- 1 libro - lettore

--- 2 interprete - spettatore2.

Molti copioni nascono inoltre dal prodotto letterario. Quindi non è raro che venga affidata al traduttore l'edizione editoriale di un testo teatrale con la richiesta di tenere in considerazione che potrebbe essere destinata alla scena: è il caso della nuova edizione delle opere shakespeariane in arrivo da Bompiani, la cui direttiva editoriale chiede ai traduttori, per l'appunto, di mantenere un occhio alla letterarietà e un altro alla rappresentabilità.

«If translations of poem enrich literature, translation of plays could exert an even greater influence, for the theater is truly literature's executive power»3. Lefevere non fa che ribadire la delicatezza del mestiere di traduttore di teatro, ponendo l’accento sul fattore non secondario della discussione culturale. Cosa può allora aver portato al ritardo dell’applicazione dei translation studies al teatro? La linguistica si è poco occupata del dramma, prediligendo territori più sicuri quali romanzi o poesia:

1 Marinetti: 2013, 309.

2

Holmes: 1970, 145. 3 Lefevere: 1992, 18.

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«Spoken conversation […] has been commonly seen as debased and unstable»4, e questa convinzione ha trascinato con sé anche gli studi applicati al teatro; il difficile equilibrio tra dialogo e quella parte non-verbale che «has to be read and “translated” first onto the reader’s “mental stage”, and must be eventually be capable of translation into a real-life stage performance»5 ha forse scoraggiato fino a poco tempo fa studi più approfonditi.

La traduzione è un processo a tre livelli: linguistico, culturale, retorico-testuale, fortemente caratterizzato da una impronta decisionale – si ricordi la teoria dei giochi applicata da Levý alla traduzione – poiché il traduttore dovrà compiere delle scelte la cui rotta è decisa sia dalla diversità dei codici di partenza e di arrivo, sia dalle norme che regolano il polisistema di arrivo. A ciò si aggiunga il proposito primario e pratico della traduzione: produrre un testo affinchè un nuovo pubblico ne possa beneficiare, cercare di avvicinarsi il più possibile ad una mediazione tra realtà diverse ma senza perdere di vista il mercato (quindi il fattore economico) e l’intrattenimento.

Il testo teatrale non fa eccezione, anzi, l’insieme di varianti che partecipano al risultato finale ne moltiplica le difficoltà non solo dal punto di vista più immediato, quello culturale, ma anche da quello performativo. Come verrà evidenziato in seguito, ci sono punti fermi che non possono essere trascurati ma sui quali non si è ancora riusciti a elaborare una teoria che, invece di seguire una strada indipendente ed isolata, costituisca una sorta di faro per chi vive della pratica, elemento vitale che non dovrebbe mai esser perso di vista.

Vi sono alcuni presupposti imprescindibili nello stabilire una strategia traduttiva, prima fra tutti l'anisomorfismo delle lingue di partenza e di arrivo: «different languages are structured differently»6, quindi non c'è tra loro una corrispondenza univoca e diretta; tale anisomorfismo comporta impossibilità di equivalenza e di ritraducibilità, ovvero, ritraducendo il testo di arrivo non si ottiene il testo di partenza, poiché essendo le lingue codici naturali, non è prevista una ricodifica perfetta.

Il concetto di equivalenza, la cui effettiva utilità è già oggetto di discussione in ambito generale, perde decisamente efficacia e pertinenza quanto si approda al teatro. La domanda che si pone Zatlin è come essere fedeli al contempo all’autore e al pubblico, in un asservimento in cui gli estremi non sono desiderabili: eccessi verso il testo fonte o verso l’autore porteranno a risultati non fruibili dal punto di vista spettacolare, specialmente in virtù di una mancata sovrapposizione di linguaggi della

4 Cunico: 2005, 2.

5

Ivi, 22. Il linguaggio utilizzato a teatro è quello che fa riferimento alla realtà, quello che permette allo spettatore di costruire e comprendere il personaggio perché ha un frame conosciuto a cui appoggiarsi. Se questo è valido per lo scrittore, a maggior ragione lo sarà per il traduttore. Il caso specifico è quello della traduzione di La pazzia di Re Giorgio. Come si individua il linguaggio della pazzia a teatro? Innanzitutto è un linguaggio accurato e sempre in bilico tra credibilità ed esigenze sopra citate (progressione dell’azione). C’è incoerenza ma è funzionale alla trama, e alla caratterizzazione (come nel Re Lear). Il linguaggio della pazzia è comunque sottomesso alla comunicazione di un messaggio, o alla realizzazione di un intento (comicità). Questo discorso può essere allargato a qualunque caratterizzazione che esca dal concetto di normalità di un personaggio. Ogni particolare modalità espressiva non è fine a sé stessa, ma contribuisce al conseguimento di un effetto che può avere macro-conseguenze oppure limitarsi in estensione ad un preciso momento. 6 Delabastita: 1993, 7.

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scena. L’ideale collaborazione tra traduttore ed autore non è impossibile ma talvolta l’autore è scarsamente consapevole del riposizionamento necessario in campo interculturale, e vive le modifiche come una minaccia alla integrità della sua ‘creatura’: «Playwrights like to think that they're the sole author of everything that happens on stage»7.

Delabastita a questo proposito introduce diverse sfumature legate al concetto di equivalenza: dato che il termine richiama una perfetta corrispondenza matematica che invece non è realizzabile linguisticamente, l’equivalenza diventa relativa, approssimata, empirica8. Considerando le cose da questo nuovo punto di vista, il discorso sulla traducibilità si apre a nuove prospettive: non sarà più la ricerca dell'equivalenza in senso matematico a dominare, poiché in tal modo la traduzione sarebbe teoricamente impossibile. La prospettiva più utile è considerare che la traduzione non può mai essere semplice sostituzione di una parola o frase con un'altra, ma è un processo decisionale che mira a trovare una soluzione ottimale.

What translators can do is, then, to settle for second best and search for the Target linguistic code item which has a meaning (relational value) that will at least optimally reflect the meaning (relational value) of the Source Text item to be rendered.[...] I propose to call this translation method the analogical approach9.

La ricerca dell'analogia permette di sfruttare al massimo le linee comuni, le simmetrie tra le due lingue in questione; i limiti dipendono, prevedibilmente, dal grado di vicinanza, dal contenuto culturale sotteso al testo (che vanifica ogni possibilità di comprensione del testo di arrivo nonostante una buona simmetria a livello linguistico), dalle regole di tipo testuale che impostano l'appropriatezza e la pertinenza degli enunciati.

In alternativa si procede alla ricerca dell'omologo, ovvero della similarità formale, una semplice trasposizione di parole (o suoni) in sequenza: così si rilevano i

faux-amis e i prestiti, frequenti soprattutto nell'apprendimento della L2. Sebbene ad

un primo sguardo possano sembrare inadatti o inadeguati, per via della trascuratezza del settore semantico, i metodi omologici sono più frequenti di quanto si potebbe pensare.

Una volta ‘risolto’ l’ambito linguistico, resta da vedere come agire in quello culturale. Delabastita esplicita la stretta relazione tra cultura e lingua in termini di

linguistic codes and cultural codes10. Il problema nasce nel momento della trasposizione di questi codici in mancanza di sovrapposizione, e dallo scegliere di privilegiare uno a discapito dell'altro. Il ventaglio di soluzioni è il seguente:

7 Hutcheon: 2006, 79. 8 Delabastita: 1993, 9. 9 Ivi, 10-11. 10 Ivi, 13.

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1) mirare a ricreare nel testo di arrivo una analogia a livello culturale ma non a livello linguistico; un esempio sarebbero le 'creaking shoes' di Re Lear11, la cui corretta interpretazione presuppone la conoscenza del codice culturale elisabettiano e dell'evocazione di un'immagine legata all’ 'essere alla moda'. Tradurre il codice linguistico, proponendo di rendere ‘creaking’ con ‘scricchiolante, cigolante’, non comunica il contenuto sopra esposto, che, per essere ricreato, deve essere cercato nell'equivalenza approssimata, di natura non linguistica ma culturale: sostituire un concetto più affine alla cultura di arrivo, perché vi passi lo stesso messaggio. «Cultural meanings cannot be really divorced from the cultural code that generated them, so the analogy between cultural signs deriving from different codes can never be more than a very rough approximation»12. Un approccio di questo tipo comporta una libertà maggiore nella scelta del traducente, perciò si inizia ad intravedere come nel caso della traduzione teatrale è forse irrealistico aspettarsi delle soluzioni adeguate: l’impossibilità di determinare con accuratezza una scala entro la quale i concetti di arrivo sono più o meno aderenti a quelli di partenza, l’anisomorfismo dal punto di vista culturale, determina una forte arbitrarietà e una grande dipendenza dalla scelta personale di chi traduce per il risultato finale13;

2) cercare una omologia culturale, ovvero, non interstardirsi sul corrispondente nella cultura di arrivo, per quanto approssimato possa essere, ma trasportare direttamente quello del testo fonte. Ciò determina da un lato una sensibile preferenza verso il piano linguistico, cioè il piano in cui questi segnali culturali vengono definiti: «if we subscribe to the interpretation of Hjelmslev or Barthes, cultural signifiers are defined in terms of the entire linguistic sign to which the cultural meaning is attached»14. Privilegiare l'omologia rispetto all'analogia comporta un distanziamento dalla cultura di arrivo e l’aggiunta di un elemento esotizzante che, ovviamente, introduce una deviazione rispetto al testo fonte, che percepisce quell'elemento culturale come normale e familiare. Rispetto al solo versante linguistico, considerare anche l’apporto culturale comporta amplificare il ventaglio traduttivo e quindi moltiplicare i possibili 'prodotti', ovvero i testi di arrivo, rispetto all'unicità del testo di partenza.

La comprensione delle regole del testo da parte del ricevente, sia traduttore che lettore, è un’altra variabile. L'effetto che il testo si prefigge di ottenere dipenderà dalle scelte linguistiche che lo costituiranno, siano esse convenzioni testuali (quali scelta di idioletti o linguaggi non convenzionali), o selezione di specifiche strutture narrative (l'organizzazione del testo nella divisione in paragrafi, il ricorso a figure retoriche, e così via). Delabastita definisce queste convenzioni come appartenenti al

11 Ivi, 17. 12 Ivi, 18. 13

Presupponendo però che il testo di arrivo debba preservare la specificità culturale del testo di partenza, un intervento accomodante e naturalizzante porta alcuni teorici a contestare la dignità di traduzione di quei testi che fanno ricorso alla ricerca dell'analogia culturale, sostenendo che sarebbe più corretto parlare piuttosto di adattamenti. Altro elemento a sfavore di una ricerca di questo tipo di analogia risiede nel fatto che il processo di invecchiamento e obsolescenza della traduzione verrebbe così acccelerato (Ibidem).

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«textual code»15: un certo tipo di convenzione andrà quindi a costituire e differenziare, ad esempio, un testo letterario da un testo pubblicitario, entrambi sottogeneri di un macrocodice più ampio.

Difficoltà traduttive nascono anche dalle diverse convenzioni testuali che governano la cultura di partenza e quella di arrivo, che possono coincidere (caso fortuito) oppure presentare peculiarità diverse. Come si realizza in questo caso una strategia analogica/omologa? Strategia analogica vuole che si ricerchi una convenzione testuale che occupi la stessa posizione nella cultura di arrivo, quindi, nel caso di Shakespeare, per esempio, si potrebbe optare per un sostituto efficace del

blank verse, sia in prosa che in verso: ciò però comporta una mancanza di

sovrapposizione, e quindi il venire a patti con una indeterminatezza inevitabile; oppure si potrebbe trasferire il blank verse, con tanto di schemi metrici e convenzioni letterarie, in una dimensione che d'origine non gli appartiene.

Inoltre, chi traduce per il teatro lavora pensando a chi reciterà, quindi chiedersi come un testo può rendere in performatività diventa considerazione essenziale, anche in vista delle molteplici interpretazioni che questo avrà una volta passato nelle mani di regista e attori: «theatrical performance, far from being determined by the text, is understood to frame, contextualize, and determine the possible meanings the text can have as a performed action, as an act with force»16. Considerare l’elemento performativo significa allontanarsi definitivamente dal versante analitico strettamente letterario; tale performatività è il frutto di un lavoro che inizia necessariamente col traduttore che lavora al testo, prosegue con l’attore che porta vita alle parole che il traduttore ha scelto e infine termina col pubblico, altra variante che il traduttore deve tenere in considerazione e che completa il cerchio in quanto ultimo destinatario.

Nel dibattito riguardante la necessità di tradurre, Carlson afferma con decisione che, sebbene sia in ogni caso auspicabile un contatto con il dramma in lingua originale, difficilmente il teatro potrà fare a meno delle traduzioni, poiché la natura stessa dell’interazione teatrale impone una scioltezza, una confidenza con la lingua che solo la lingua madre può garantire17.

A riprova del cambiamento nella fruizione del prodotto teatrale a seconda della lingua, si pensi alla ricezione di Pirandello in territorio britannico. La prima ondata di attenzione verso il teatro piradelliano risale agli anni Venti del Novecento, mentre le prime traduzioni vengono effettivamente pubblicate intorno agli anni Cinquanta.

Perciò, durante il periodo descritto dal Times del 16 giugno 1925 come ‹‹the Pirandellian Season››18 i drammi come Enrico IV e Sei personaggi venivano rappresentati in italiano: «a company performing in foreign tongue was viewed as being on home rather than on English soil and, as a result, was considered to be less

15 Ivi, 22.

16

Marinetti: 2013, 311.

17 Un discorso che volendo si può riportare anche nell’attività dell’adattamento e doppiaggio dialoghi. Vi è maggior coinvolgimento nel vedere il film in lingua originale seguendo i sottotitoli oppure ascoltandolo nella propria lingua e concentrandosi sulle immagini?

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of a threat to the moral code of conduct of an English audience»19. Emerge un sentimento di chiusura nei confronti del nuovo, una ritrosia all’accettazione dell’alterità (che non è in ogni caso evento isolato, basti pensare alle difficoltà dei testi shakespeariani in nazioni diverse da quella inglese); compromesso ragionevole è eliminare tutte le barriere tranne una, quella linguistica, e privare la produzione di una delle sue componenti – non si ragiona qui in termini di predominanza dell’elemento verbale, ma si considera l’armonia complessiva di un dramma nel quale il pubblico ha a disposizione tutti i codici che lo compongono. Il fatto è che non tutti furono in grado di giudicare serenamente l’opera pirandelliana proprio in virtù della barriera linguistica: James Agate, critico del Sunday Times, confessa il profondo disagio e la frustrazione derivanti dal non riuscire a cogliere appieno ciò che succedeva in scena perché mancava la chiave linguistica, la conoscenza dell’italiano.

Dopo l’exploit degli anni Venti e il declino degli anni del regime, i drammi di Pirandello iniziano ad essere tradotti e pubblicati nel 1950 (in America qualche anno dopo, nel 1952, col volume Naked Masks - five plays by Luigi Pirandello, edito da Eric Bentley, seguito sei anni dopo da The Mountain Giants and other plays, tradotti da Marta Abba, attrice preferita e confidente dell’autore), ed è qui che iniziano le riflessioni più interessanti su come la traduzione non sia mai innocente o scontata. L’avanzata di Pirandello in ambito anglosassone è stata per esempio ostacolata anche dall’imagologia legata alla rappresentazione britannica del Mediterraneo, una stereotipizzazione che accentua l’impronta latina. Entrano quindi in gioco gli schemi mentali di culture diverse, che permeano in primis la letteratura, tant’è vero che basta scorrere autori e temi del panorama letterario inglese per constatare come le terre del Mediterraneo – Italia inclusa – vengano sempre inquadrate in un’immagine ricorrente, e, data la fortissima connessione tra traduzione e schemi della cultura di arrivo, è significativo come si cerchi di incastrare e di contenere i tratti ‘noti’ ma ormai stereotipizzati, forzando la mano pur di riuscire a creare un prodotto facilmente riconoscibile e familiare, con risultati talvolta incerti:

In her review of the production of Liolà (1916) originally written in Sicilian dialect, staged by the New International theatre in London in 1982, Jennifer Lorch found the ‘gelato/spaghetti English’ a regrettable ‘reflection of the British view of the Italian urban proletariat uneasily absorbed into its culture’20.

Arriviamo al 1987, quando Sei personaggi viene rimesso in scena con una traduzione di Nicholas Wright. Diventa qui rilevante l’addomesticamento dei riferimenti culturali, dato che, invece del Giuoco delle parti, gli attori devono mettere in scena l’Amleto. La critica ha messo in rilievo l’accomodante tentativo di far sentire il pubblico meno spaesato – anche se non sono mancate osservazioni circa il volere alleggerire «the exuberance of Latin passion»21: è l’acculturazione ad aver permesso la diffusione di Pirandello in contesto inglese, poiché è stata la progressiva

19 Ibidem.

20

Ivi, 248. 21 Ivi, 252.

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perdita di italianità a favore dell’universalità del messaggio a permetterne l’affermazione.

La convinzione che il testo pirandelliano fosse cerebrale, fortemente incentrato sulla riflessione filosofica tra arte e vita, ha determinato un appesantimento delle traduzioni che, cercando di appoggiare tale sentire, risultavano più macchinose del necessario22, il che ha giocato a sfavore della qualità finale, e la ‘verbosità’ di certe rese testuali, dovute a obbligate regole sintattiche e linguistiche, influisce negativamente sull’impatto del momento drammatico: «No other playwright has suffered as much in translation as [Pirandello] does, and even in his lifetime he was aware of it»23. È stata quindi una combinazione di strategia traduttiva mal impostata e di resa inefficace ad aver contribuito a complicare la conoscenza dei testi pirandelliani fuori dall’Italia e nei paesi di lingua inglese: «in several cases the English translations are so bad as to be unreadable, let alone actable»24. Pirandello era ben cosciente di questo, e probabilmente da qui derivano le sue aspre riserve sulla traduzione e sul traduttore-traditore colpevole di distorcere sistematicamente il suo operato.

Ecco una traduzione di Murray tratta dalla fine dell’atto 1 di Il piacere dell’onestà - The pleasure of honesty messa a confronto con una non accreditata:

BALDOVINO (seguitando) …come uno che venga a mettere in circolazione oro sonante in un paese che non conosca altro che moneta di carta. – subito si diffida dell’oro; è naturale. – Lei ha certo la tentazione di rifiutarlo: no? Ma è oro, stia sicuro, signor marchese. – Non ho potuto sperperarlo, perché l’ho nell’anima e non nelle tasche. Altrimenti!25

BALDOVINO I am like the person trying to circulate gold money in a country that has never seen anything but paper. People are inclined to suspect that gold, are they not? It is quite natural. Well, you are certainly tempted to refuse it here. But it’s gold, Signor Marchese, I assure you – pure gold – the only gold, by the way, I have been able to spend, because I have it inside me – in my soul and not in my pockets.

BALDOVINO I’m like a man who wants to spend gold in a country where the

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