• Non ci sono risultati.

Qualsiasi discorso sulla traduzione teatrale non può prescindere da una trattazione sulla caratteristiche del testo drammatico, base del processo di trasposizione e terreno sul quale il traduttore si mette in gioco e costantemente alla prova.

Dato che il lavoro di traduzione è un lavoro di scrittura, con buona pace delle polemiche riguardanti il maggiore o minore grado di autorialità di un testo tradotto1, anche l’approccio al testo drammatico non trascurerà il lato pratico. Le teorie semiotiche e linguistiche aiutano a sviscerare certe componenti prettamente comunicative o di inquadramento del testo drammatico nell'insieme; in termini di scrittura vera e propria, nel momento della creazione del testo dalla pagina bianca, è invece la voce dell’autore, del drammaturgo che racconta il suo lavoro, che può aiutare a comprendere come nasce e come si struttura concretamente un testo drammatico, cosa lo rende efficace, cosa lo rende adatto al teatro; quel testo passa poi nelle mani del traduttore e dei registi, che lo riscrivono e lo trasformano seguendo dei criteri (teatrali) diversi; se le possibilità di successo di un testo dipendono dalla qualità della scrittura, la genesi italiana di Rumori Fuori Scena metterà in evidenza che conoscere il meccanismo teatrale è parimenti indispensabile quando si tratta di riscrittura e traduzione.

1

Che la posizione del traduttore sia fortemente sottovalutata nel processo che porta al risultato finale (il libro tradotto) è cosa risaputa: a partire dalla scarsa attenzione (per non dire nulla) di quei critici che spesso omettono di citare il nome del traduttore nelle recensioni, ai commenti (di plauso o di disapprovazione) sullo stile dell’autore, come se ritrovare certi dettagli stilistici nel passaggio da prototesto a metatesto fosse automatico o scontato. Il traduttore mette a disposizione ingegno, creatività e proprietà linguistica per far sì che la traduzione possa riflettere il carattere del testo originale. Ma, trattandosi di ricreazione linguistica, il contributo di chi vi è coinvolto in prima persona non si può trascurare. Ciò non significa che il traduttore possa prendere il prototesto e farne ciò che desidera: l’autorialità del traduttore è inevitabilmente vincolata a quella dell’autore, su questo non vi è dubbio, ed è proprio una relativa flessibilità nella definizione dell’«autorialità dell’originale» (Montella: 2010, 20) ad aver determinato in passato una grandissima libertà dei traduttori, mentre in epoca moderna ormai la consapevolezza dell’equilibrio tra autorialità, scelte addomesticanti o modernizzanti ed esigenze linguistiche è molto più acuta. Oggi è la legislazione in materia di diritto d’autore a regolamentare la posizione del traduttore rispetto all’autore, distinguendo tra autorialità originaria e derivata: Venuti (in contesto anglosassone) sottolinea che «in current law, the producer of a derivative work is and is not the author […] copyright law reserves an exclusive right in derivative works for the author because it assumes that literary form expresses a distinct authorial personality – despite the decisive formal change wrought works like translations» (Venuti: 1998, 50). La legislazione su traduzioni e diritto d’autore in Italia è sintetizzata sia nel sito AITI (Associazione Italiana Traduttori e Interpreti) sia su Strade (Sindacato Traduttori Editoriali). In generale il traduttore è riconosciuto come autore, poiché col suo lavoro crea un’opera diversa da quelle esistenti e che sarà diversa da quella che realizzerebbe un altro traduttore. Il traduttore gode perciò di diritti morali ed economici. Tra i diritti morali (sempre validi, anche dopo la scadenza del contratto di edizione) si possono citare l’obbligo di menzione del nome del traduttore in copertina o frontespizio e il diritto di integrità, ovvero il divieto di modifica della traduzione da parte di terzi. I diritti economici invece sono regolati da un contratto apposito, il contratto di edizione, col quale il traduttore cede all’editore i diritti sull’opera per una durata massima di vent’anni.

52

Ragionare in termini di lingua teatrale implica uno sguardo diverso, da artista della parola teatrale, e molto beneficio ne trae chi aspira alla ‘buona scrittura’, prerogativa fondamentale della traduzione di qualsiasi testo (anche di quello scientifico-divulgativo). Ben più difficile è regolamentare come fare a capire se si sta raggiungendo un livello sempre più soddisfacente di scioltezza linguistica: è una consapevolezza che non si può determinare teoricamente, e qualunque traduttore esperto dirà che è un muscolo che si rafforza solo con la pratica. Per usare le parole di Hatcher, serve «una dimestichezza da mestierante su come scrivere drammi – una dimestichezza tanto solida da diventare necessariamente un riflesso automatico». È un pensiero che tocca straordinariamente da vicino anche i traduttori: alla domanda «come si fa a sapere quando una traduzione è efficace?», difficilmente il traduttore troverà una risposta: è solo la sensibilità linguistica nutrita da una grande varietà di letture e l’esperienza maturata scontrandosi con parole e giri di frase che permette di sviluppare quell’istinto che guida con mano sempre più sicura il lavoro di chi traduce.

Tentativi di definizione del testo drammatico

Rimarcare l'interesse teorico per l'inquadramento del testo drammatico è affermazione scontata, tanti sono stati gli studiosi che hanno affrontato la sfida.

Una famosa definizione di testo drammatico è stata fornita da Patrice Pavis. Pavis distingue chiaramente il dramatic text dal testo che viene rielaborato e rimaneggiato nel percorso che conduce alla mise en scéne:

The dramatic text: a verbal script which is read or heard in performance; [...] we are concerned here solely with texts written prior to performance, not those written or rewritten after rehearsals, improvisations or performance2.

Quindi per Pavis esiste una differenza sostanziale a livello teorico tra ciò che il drammaturgo produce nella solitudine del suo studio e ciò che tale prodotto può diventare quando passa in mani altrui, ignorando quindi i passaggi intermedi. Il testo che lo spettatore ascolta durante la performance è infatti, con altissima possibilità, un testo diverso da quello scritto prima della performance, proprio in virtù di quelle riscritture e rielaborazioni alle quali è sottoposto in lavorazione. Quelle riscritture in corso d'opera sono parte integrante di ciò che verrà poi recitato, del prodotto finito, che sembrano però essere avulse dal risultato finale, mentre invece aiutano a chiarire non solo come si forma il linguaggio teatrale ma anche quali sono le linee guida che di volta in volta determinano la selezione di cosa funziona in scena e cosa invece indebolisce la rappresentazione: sono, in definitiva, le tappe che evidenziano come il testo drammatico sia sempre in evoluzione per rispondere alle esigenze che si

2

Pavis: 1992, 24. Nella querelle sulla precedenza di testo o messinscena la posizione di Pavis è chiaramente a favore di quest'utima, nel senso che la messincena non può essere interpretata né come un 'riempibuchi' di significati, né può essere legata al testo da vincoli di fedeltà (la domanda è la stessa che ci si pone in traduzione: fedeltà a cosa? alle idee del testo, alla tradizione teatrale che il testo incarna, all'estetica?).

53

presentano progressivamente. La tentazione è di mettere dei punti fermi che aiutino a districarsi nell’instabilità, mentre si potrebbe invece riconoscerla e modificare l’analisi di conseguenza: ogni passaggio è interessante per il ragionamento che sottende, ma il problema principale è che spesso non si ha la possibilità di recuperarli. Il testo drammatico (in contesto intra e interlinguistico) funziona un po’ come la traduzione: si tende a saltare dal prodotto iniziale al risultato finale (che in realtà è solo temporaneo) eliminando le tappe intermedie, che sono altrettanto significative. Pur ammettendo che il testo prima della performance non sia stato intaccato (ogni minimo intervento dell'attore può renderlo comunque qualcosa di diverso da quanto aveva pensato l’autore), si ha l’illusione che passare da A a B sia un processo, se non veloce, almeno immediato e lineare3, ma soprattutto si perdono passaggi che, analizzati, premettono di comprendere a fondo il mondo in questione, capire nella pratica come il pubblico arriva ad ascoltare ciò che ascolta.

La pratica del teatro insegna che in realtà la visione del testo drammatico non è mai stata qualcosa di granitico, anzi in alcuni casi non ci si preoccupava nemmeno di fissarlo su carta, o di individuarne l’autore. Si prenda ad esempio la Authorship

Question shakespeariana: Paola Pugliatti recentemente ha approfondito il discorso

circa la sicura individuazione autoriale nel teatro elisabettiano passando per il concetto di authorial intention di Jerome McGann, incentrato sul presupposto della modalità sociale di esistenza del testo4. Ciò comporta abbandonare l’idea dell’autore solitario e unico creatore per includere nello scenario l’insieme di revisori e/o adattatori scenici. Per questo insistere sulle teorie autoriali e volere individuare l’unico fautore significa ignorare la pratica del teatro di quel tempo, le divisioni del lavoro rese necessarie dai ritmi di produzione, le molte menti al lavoro su un testo. Secondo la Pugliatti l’evoluzione filologica nell’analisi dei testi shakespeariani passa in tal senso passa proprio per l’abbandono della ricerca del nucleo fondante, approdando all’elaborato percorso del teatro pratico, fatto di più mani che talvolta, intervengono nell’uniformazione del testo: è comprovata l’esistenza dei Plot

Scenarios, nei quali ad una prima penna è attribuibile la spina dorsale del dramma,

mentre è da ricercare altrove la realizzazione approfondita del play. Gli studi sulla

Authorship Question dimostrano che non vi è una sola mente dietro l'elaborazione di

un testo drammatico e che non si lo può mai dire 'finito'. Pavis evidenzia quindi solo due macropassaggi ai quali il testo è sottoposto, ma uno non esclude l'altro: come bisognerebbe allora interpretare il testo drammatico tradotto? Come ulteriore tappa di lavorazione di un testo che però trova validità solo nel suo primo nucleo e quindi non sarebbe più testo drammatico, o come un nuovo punto d'origine - un reset - nella drammaturgia di arrivo?

3

Mentre l’analisi del passaggio dalla traduzione al copione di Rumori Fuori Scena dimostrerà che ripensamenti e passi indietro sono invece sempre possibili.

4 Si fa qui riferimento all’intervento di Paola Pugliatti, Shakespeare era una cooperativa?

Collaborazione nel teatro nella prima età moderna, durante il convegno ‘Filologia, teatro, spettacolo’,

54

Sebbene privilegi l’ambito delle edizioni filologiche, la teoria di Mc Gann circa l’importanza dell’autorialità può poi essere utile anche nel caso del testo drammatico per cercare di rispondere alla domanda appena posta.

Texts are produced and reproduced under specific social and institutional conditions, and hence that every text, included those who may seem to appear to be purely private, is a social text […] a text is not a ‘material’ thing but a material event or set of events, a point in time (or a moment in space) where certain communicative interchanges are being practiced5.

Questo concetto è particolarmente pertinente al testo drammatico, in cui l’influenza dell’autore termina nel momento in cui il testo passa nelle mani di chi lo metterà in scena, e a sua volta l’intento registico nulla può quando la ricezione e interpretazione passano al pubblico. E ancora: «Every part of the productive process is meaning constitutive – so that we are compelled, if we want to understand a literary work, to examine it in all its multiple aspects»6. Concentrarsi solo sul momento iniziale dello sviluppo del testo drammatico, quello in cui tutto il controllo è nelle mani dell’autore, implica appunto validarlo solo da quel punto di vista, e soprattutto ignorare la stratificazione di senso che si acquisisce in seguito: il testo drammatico non cessa di esser tale, solo si trasforma. Il testo drammatico è quindi molto fluido, e tale fluidità può solo moltiplicarsi nel passaggio interculturale e in traduzione, dove l’intero processo finisce per duplicarsi. A livello teorico ciò sembra condurre a indeterminatezza, alla negazione di un punto fermo su cui impostare un ragionamento, e resta valido per un testo originale, rielaborato e adattato progressivamente sia per i testi tradotti. Pavis in seguito afferma che: «Mise en scene is not the staging of a supposed textual 'potential'7»8: proprio perché la messinscena non è secondaria rispetto al testo, la parte parlata dello spettacolo è una delle tante varianti che, se necessario, si rielabora o si adatta; così facendo il potenziale del testo viene sempre aggiornato e riformulato - proprio per incastrarsi ed armonizzarsi nella rappresentazione - e quindi pare limitativo restringere la definizione di testo drammatico a ciò che viene prima/dopo un momento determinato, essendo per natura sempre in evoluzione. A questo proposito Anna Maria Cascetta distingue tra testo drammatico e drammaturgia, rispettivamente l’insieme delle battute e delle didascalie da un lato e «il materiale verbale elaborato per la scena o a partire dal testo drammatico o partire da materiale non drammatico o preventivo»9, considerando anche il fattore improvvisativo. La necessità sembra essere quella di stabilire un punto di origine fatto di parole – il testo drammatico quindi – sul quale interviene il lavoro pratico della drammaturgia: «Il testo drammatico è una tecnica che appartiene

5

McGann: 1991, 21. 6 Ivi, 33.

7

Jansen invece interpretava il rapporto tra testo drammatico e messinscena come rapporto tra varianti ed invarianti: anche in questo caso la messiscena è la manifestazione secondaria del testo drammatico, che diventa unica costante.

8

Pavis: 1992, 26.

55

alla letteratura ma guarda alla scena; la drammaturgia è una tecnica che appartiene al teatro ma guarda alla letteratura10».

Drammaturgia è quindi un testo astratto – la sua astrazione stando nella mancanza di organizzazione precisa e fissata come nel testo letterario – e concreto – traendo la concretezza dalla realtà della messinscena. Sicuramente questa prospettiva ha il merito di riconoscere l’esistenza del lavoro pratico nella creazione dell’evento teatrale, un lavoro che coinvolge tutti i codici, incluso quello linguistico; dai contributi di vari drammaturghi però si percepisce che in realtà la drammaturgia va di pari passo col testo drammatico, si scrive lasciandosi guidare dalle esigenze sceniche. Roman Ingarden, che già esordiva evidenziando la natura «borderline»11 del testo teatrale, distingueva tra il testo principale (il dialogo, le parole, la forma verbale) e il testo sussidiario (costituito di elementi non verbali). Il primo sarebbe a disposizione del pubblico, che da esso trae significato, il secondo ha lettura più complessa e variabile a seconda del regista e dello staff tecnico: la necessità di questa distinzione risiede nel fatto che il pubblico non entra in contatto col ‹‹side text›› ma con lo ‹‹stage text›› che «actualizes the potential of the dramatic work’s side text»12. Quindi esistono quattro passaggi prima di arrivare al prodotto estetico finito: ‹‹the written work››, dato dall’unione del testo principale e del side text; ‹‹the stage play››, nel quale i professionisti del teatro attualizzano le potenzialità del side text e così facendo, anche parte del main text; la performance, che attualizza definitivamente il main text, e infine l’oggetto estetico finale la cui completezza è affidata al pubblico13.

Di impronta simile ma focalizzata non tanto sulla natura dei testi quanto sul ricevente è la concezione di testo drammatico di Wallis e Shepherd, i quali distinguono tra testo drammatico e testo teatrale – «dramatic text/ theatrical text»14; il primo riguarda il lettore, quindi ci limitiamo all’ambito letterario, il secondo riguarda lo spettatore, che è sì impegnato in una lettura, ma della performance. I due testi sono poi legati da una connessione temporale, poichè il testo drammatico viene considerato come un pre-testo che precede quello teatrale che invece diventa integrato nella performance. Il testo drammatico prevede dialogo e stage directions, mentre il testo teatrale coinvolge personaggi, dialoghi, spazio, azione, e la presenza fisica dell'attore15; appunto di immediata utilità per chi traduce ma che verrà approfondito più avanti è il fatto che secondo Wallis e Shepherd non sono solo le

stage directions ma anche i dialoghi ad indicare le modalità di espressione di una

battuta.

Tutto ciò rimanda alla definizione di testo drammatico così come la intende De Marinis. Per De Marinis il testo drammatico scritto è un pre-testo, sul quale poi

10 Ivi, 128. 11 Mitscherling: 1978, 164. 12 Ivi, 165.

13 Ivi, 166. Il fatto che Ingarden pensi a tali passaggi come necessari alla completa concretizzazione del testo lascia però intuire la posizione di predominanza dello stesso su tutto il resto.

14

Wallis - Shepherd: 2002, 2. 15 Ivi, 4.

56

interviene la messa in scena, con un tempo dell’evento teatrale ben definito (su cui pesa la significazione: anche la durata quindi produce senso). DeMarinis parla di Testo Spettacolare16, assumendo l’oggetto spettacolo teatrale: il testo spettacolare è interpretato come una serie di codici in cui si ritrova anche la parte testuale dello spettacolo, quindi ancora una volta si ribadisce la necessità di inquadrare gli elementi del fatto teatrale senza gerarchizzarli. Il testo spettacolare si può analizzare in prospettiva strutturale, nella quale il testo è enunciato fine a sé stesso, senza connessioni nel campo della ricezione, o con un approccio di tipo pragmatico nel quale il testo è incluso nel processo comunicativo che produce senso. L’analisi può essere co-testuale, interna al testo spettacolare, di tipo formale; oppure può essere analisi con-testuale, esterna al testo spettacolare, di livello culturale17 (cioè analizzando i testi della stessa sincronia culturale) e spettacolare (ovvero le circostanze pragmatiche). Di particolare interesse per un discorso traduttivo e integrato con l’interculturalità intesa da Pavis è il fattore intertestuale del testo spettacolare: all’interno vi sono dei rimandi più o meno espliciti, citazioni, che lo rendono unione di vecchio e nuovo, di codici preesistenti di natura generale e di codici singolarmente determinati18; al traduttore il compito di riconoscerli e valorizzarli dove possibile. Il testo spettacolare comporta anche un certo grado di assenza variabile: la natura effimera dello spettacolo è costante, ma De Marinis parla di ‹‹oscillazioni››19 che permettono di porvi rimedio, come nella possibilità di avere una registrazione audiovisiva che rende lo spettacolo parzialmente presente; l’assenza è invece completa quando non si può far affidamento nemmeno su questo tipo di supporto. Su cosa può contare allora il traduttore? Un aiuto dovrebbe arrivare dalla possibilità di vedere lo spettacolo in questione (laddove si parli di testi contemporanei) nella sua messinscena originaria, se non altro per capire quali problemi potrebbero sorgere nel passaggio alla metacultura; uno scenario non improbabile ma che sottende un coinvolgimento del traduttore che va al di là del semplice commissionamento di un testo da tradurre. Il discorso di De Marinis sulla ricostruzione di spettacoli ormai assenti riconduce subito al caso della traduzione shakespeariana, una documentazione indiretta di natura teatrale o extrateatrale20.

Vi è poi una percentuale di non detto che va colmata, ed è proprio quest’ultimo fattore a porre degli interrogativi pressanti nel momento della resa in un’altra lingua. Sempre estendibile alla traduzione è poi l’ambito della ricezione: si analizza la comunicazione al pubblico individuando lo spettatore modello (nella stratificazione del testo) e lo spettatore reale, quello effettivo. Esattamente come avviene nella traduzione, i due insiemi non trovano coincidenza automatica, sebbene sia necessario

16

‹‹Per /testo spettacolare/ deve intendersi lo spettacolo teatrale, considerato come un insieme non

ordinato (ma coerente e compiuto) di unità testuali (espressioni), di varie dimensioni che reinviano a codici diversi, eterogenei fra loro e non tutti specifici (o almeno, non necessariamente) e attraverso le quali si realizzano delle strategie comunicative, dipendenti anche dal contesto produttivo-recettivo››

(De Marinis: 1982, 60). 17 Ivi, 97. 18 Ivi, 151. 19 Ivi, 78. 20 Ivi, 81.

57

avere un’ idea di come il pubblico potrebbe percepire lo spettacolo; spesso sono queste le considerazioni al centro di tutte le modifiche che il testo subisce quando lo si vuole immettere nella metacultura, partendo da quei segnali di localizzazione il cui riesamine è praticamente obbligatorio (come si vedrà in Rumori fuori scena) fino a ridiscutere le sfumature di contenuto (sempre restando su Michael Frayn, come è successo per la versione italiana di Copenhagen: delle due macrodimensioni presentate nel ricco testo, quella scientifica e quella familiare-affettiva, nella forma plasmata da Mauro Avogadro è la prima ad avere il sopravvento). Quindi si inizia a vedere che per chi traduce teatro l’isolamento tipicamente associato al mestiere inizia a rivelarsi controproducente: troppe le variabili in gioco, troppe le figure coinvolte, troppe le decisioni da prendere.

Anche Ruffini parla di testo spettacolare TS, costituito da Tn, un numero determinato di testi tra i quali figura anche quello verbale. Quando Ruffini cita il testo letterario drammatico lo intende come copione. Si passa poi al testo

Documenti correlati