UNA LUNGA GESTAZIONE
2. IL DIBATTITO SULLA STAMPA CATTOLICA
Prima di inoltrarci nell’analisi delle vedute e delle proposte di riforma avanzate da Luigi Colombo e da altri autorevoli esponenti dell’Azione Cattolica, allarghiamo lo sguardo alla riflessione che contemporaneamente stava maturando all’esterno della ristretta cerchia della dirigenza centrale, nel più ampio orizzonte dell’opinione pubblica di area cattolica.
Uno spoglio mirato di alcuni tra i più rilevanti quotidiani cattolici dell’epoca18 ha infatti permesso di scoprire l’esistenza e seguire il filo di un effervescente dibattito che nello stesso periodo investì proprio il significato, la situazione e le necessità dell’Azione Cattolica, e che inevitabilmente ebbe ripercussioni sull’evolversi della sua configurazione: un’ulteriore conferma del fatto che la riforma del 1922 non fu il frutto di una personale iniziativa pontificia, ma nacque come risposta ad esigenze largamente sentite, che affondavano la loro radice nelle novità apportate dal dopoguerra al dispiegarsi del movimento cattolico e dell’intera vita socio-politica dell’Italia.
2.1 Risaliamo alle sorgenti! Consensi e polemiche sullo stato dell’azione cattolica «Se pressata dalle esigenze incalzanti del momento, che concentrano la attenzione sull’azione strettamente politica e soprattutto parlamentare, e solleticata dalla novità e dalle maggiori soddisfazioni apparenti e superficiali di questa azione, la nostra parte continuerà nell’iniziata svalutazione o nella trascuranza evidente di tutte le vecchie ma rinnovabili forme di movimento cattolico, correremo il rischio di non trovare più un giorno in mezzo al popolo quella diffusa e profonda rispondenza che ha incontrato l’appello agli uomini di buona volontà quando, nell’immediato dopo-guerra, sulla piattaforma di un programma di economia e di politica, ma in nome dei principi morali del cristianesimo e delle libertà religiose da rivendicare, il Partito Popolare ha levato la bandiera di riscossa – autonoma, ma non dimentica del lievito dell’idea che bandiva e del terreno in cui questa era stata conservata ed era maturata»19.
In un articolo di fondo apparso il 10 maggio sull’Avvenire d’Italia, Paolo Cappa - direttore della testata, nonché deputato del Partito Popolare - portava sotto i riflettori dell’opinione pubblica la situazione di apparente crisi dell’Azione Cattolica, in particolare nei suoi rami adulti, e lanciava un
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In particolare, sono stati presi in considerazione:
- “L’Avvenire d’Italia”, promotore e protagonista indiscusso del dibattito in questione;
- “L’Osservatore Romano”, portavoce ufficioso della Santa Sede, dal 1920 diretto da Giuseppe dalla Torre; - “L’Unità Cattolica”, tra i più antichi e rilevanti quotidiani cattolici, anch’esso finanziato dalla Santa Sede; - “Il Cittadino di Brescia”, che tra i primi, nel 1921, aveva posto il problema del rilancio dell’Azione Cattolica; - “Il Corriere d’Italia”, fervente sostenitore del Partito Popolare;
- “L’Italia”, celebre testata milanese, a quest’epoca anch’essa schierata su nette posizioni filo-popolari.
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severo monito sulla necessità di correre ai ripari. Faceva vigorosamente appello alla memoria storica dei cattolici italiani, ricordando come solo da un lungo periodo di preparazione nei serrati ranghi dell’Azione Cattolica avesse potuto finalmente sorgere il Partito Popolare, e come soltanto la formazione religiosa e morale in essa impartita fosse vero alimento per l’attività pubblica dei cattolici, ora chiamati a contribuire ancor più attivamente all’orientamento etico dello Stato. Sarebbe stato quindi un grave errore trascurare l’azione propriamente cattolica - vera forza vivificatrice - in favore di quella politica ed economica, che da essa era sgorgata come da pura e limpida sorgente: una volta disseccata la fonte, tutto il rivo dell’attività pubblica dei cattolici avrebbe rischiato di venir meno, o di perdere la sua anima ideale.
«Sorgerebbero giornate grigie di incertezza quando l’Azione Cattolica andasse sgretolata o si fosse arrugginita, alla stregua di una grande officina arrestata».
Il monito lanciato dal quotidiano bolognese non era certo una novità. Come abbiamo visto, il problema delle ripercussioni negative sull’Azione Cattolica dell’avvenuto distacco del momento economico e politico era stato avvertito fin dai primordi, e segnalato con forza già nel 1920; con l’invito a risalire alle sorgenti, Paolo Cappa riprendeva la metafora adottata da Benedetto XV per definire il rapporto tra l’azione cattolica e gli altri campi di attività del laicato, e poneva in definitiva la questione esattamente negli stessi termini in cui l’aveva posta Giuseppe Dalla Torre, ai tempi della sua presidenza nell’Unione Popolare. Né era la prima volta che simili concetti trovavano spazio nella stampa quotidiana. Lo stesso Dalla Torre, una volta passato alla direzione dell’Osservatore Romano, aveva continuato la sua battaglia in favore dell’azione cattolica, cimentandosi a chiarire da un punto di vista teorico, sulla colonne del quotidiano, la sua necessità, natura, sfera d’azione, e richiamando l’attenzione dei lettori sul suo assoluto primato20. Sotto la sua direzione, il giornale vaticano aveva già denunciato l’indebolirsi dell’impegno in favore dell’azione propriamente cattolica - «passata praticamente ad un piano inferiore»21 - e aveva additato in toni minacciosi le gravi conseguenze che ne sarebbero derivate:
«Che dobbiamo pensare? Che si vuole l’azione cattolica solamente in quanto essa serve a interessi? Che presa nel senso di forza moderatrice di tutte le attività dei cattolici, non è desiderata? Mille voci si leverebbero a protestare. Ma i fatti sono più eloquenti di ogni parola. [...] Di questo passo, esaurite le riserve spirituali, frutto di tanti anni di sacrifici,
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Cf. ad esempio G. Dalla Torre, Per l’azione cattolica sociale – l’attualità; il dovere; l’attività; il centro di vita, serie di articoli pubblicati in “L’Osservatore Romano” tra l’11 e il 16 giungo 1921, in preparazione del 5° Congresso delle Giunte Diocesane.
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d. l. g., Idee e realtà, in “L’Osservatore Romano”, 1 gennaio 1922. L’articolo, poi ripreso da svariati quotidiani cattolici, tracciava a inizio anno un bilancio negativo dello stato dell’azione cattolica, rilevando lo scarto tra la sua esaltazione “ideale” e la sua “reale” svalutazione pratica da parte di molti cattolici militanti: «Nel campo teorico, dunque, è pacifico: l’azione cattolica innanzi tutto, come base, come luce, come forza di coordinamento, come punto di partenza di quanto i cattolici, specialmente quelli organizzati, si sforzano di compiere per la difesa dei diritti della Chiesa, per la salvezza del nostro patrimonio spirituale, per la difesa della fede del popolo, per portare i principi della scienza cristiana nella soluzione di tutti i formidabili problemi che ci affaticano nel momento presente. Ma questo che molti affermano, e nessuno nega, è altresì una realtà viva e vitale? Francamente non ne abbiamo la sensazione».
quando l’azione cattolica era in cima ad ogni pensiero dei cattolici militanti, un giorno -un brutto giorno- ci troveremo a lottare con soldati sprovveduti della maggiore, dell’unica forza; la forza di una coscienza robustamente formata alla scuola dei principi e della dottrina cattolica»22.
Non stupisce quindi che fosse proprio l’Osservatore Romano, nel maggio 1922, a plaudere all’invito lanciato dall’Avvenire e a rilanciare la provocazione insita nell’articolo di Cappa dando avvio a un più ampio dibattito: perché non cadesse nel vuoto l’ennesimo monito, si incoraggiava a portare la discussione sul piano concreto, aprendo un confronto sulle cause della crisi dell’azione cattolica, sullo stesso significato del termine, sulla realtà della sua situazione presente, sugli interventi necessari per promuoverne il rifiorire. Questi i quesiti posti dall’Osservatore:
«L’attenuato fervore di attività pubblica cattolica, è senz’altro considerato come un male, o, per lo meno, come un pericolo prossimo. Non sarà fuori di posto, pertanto, avvisare coraggiosamente alle cause di esso; intendiamo alle cause ideali e morali. Altrimenti equivarrebbe a sciuparci in una vana accademia.
Poi, sarà bene intenderci sul significato preciso di questa parola: azione cattolica; quale la sua natura, quale il suo scopo, quale la portata del suo programma, intensivamente ed estensivamente, di fronte a tutti i problemi morali, religiosi, culturali, scolastici, famigliari e sociali. Sembrerà ingenuo, dopo oltre cinquant’anni di azione cattolica, porci un tale quesito; ma c’è da scommettere che – tanta è la confusione causata da cento cause diverse – non si troverebbero dieci persone a convenire nella stessa definizione.
Un altro quesito da farsi: la situazione odierna dell’azione cattolica in Italia può rispondere – non ostante la migliore delle buone volontà – ai bisogni presenti?
E da ultimo con quali mezzi, con quali organismi attuare il programma cattolico?» 23.
Dalla colonne dell’Osservatore, portavoce ufficioso della Santa Sede, partiva quindi un invito alla riflessione rivolto a tutti i cattolici italiani, che tutti chiamava ad esprimere liberamente e responsabilmente la propria opinione, a quanto pare persino su un tema di diretta competenza dell’autorità ecclesiastica quale la definizione della struttura dell’Azione Cattolica in Italia. Un simile invito non era privo di significato e, benché non lo dichiarasse in modo esplicito, lasciava presagire che fossero ormai maturi i tempi per una riforma, atta a rilanciare l’organizzazione in stato di crisi; la notizia dell’imminente riordinamento, inoltre, trapelò in breve tempo e fu divulgata dalla stampa, seppur con qualche discrezione24. Fu così che per la prima volta l’invito a ristabilire il primato dell’azione cattolica non rimase vox clamantis in deserto, ma diede origine ad un ampio dibattito che si protrasse per diversi mesi sulle pagine dei giornali.
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d. l. g., Dopo il X Congresso di Studi Sociali, in “L’Osservatore Romano”, 4 maggio 1922.
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d. l. g., “Risaliamo alle sorgenti”, in “L’Osservatore Romano”, 12 maggio 1922.
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Cf. S., Per un allarme, in “Il Cittadino di Brescia”, 18 maggio 1922: «Si dice anzi, ma noi non sappiamo fino a qual punto ciò sia vero, che presso la S. Sede si stia studiando un nuovo piano di azione da dare ai cattolici italiani per rinnovarli nel fervore della fede, e riorganizzarli in modo più vivo e disciplinato nel campo della religione. [...] Ci auguriamo anzi che la S. Sede presenti davvero ai cattolici italiani qualche cosa di nuovo e di più vivo perché occorre che l’U.P. sia realmente Unione Popolare, soprattutto vivente nel fervore delle idee, nella difesa e nella propagazione del pensiero cristiano».
Lo slogan lanciato dall’Avvenire fu in breve sulla bocca di tutti: risaliamo alle sorgenti! Tutti si mostravano concordi nel rilevare lo stato di crisi dell’Azione Cattolica, e convinti della necessità di rilanciarla per salvaguardare le basi ideali e morali dell’azione pubblica del laicato. Carlo Bresciani - anch’egli, come Cappa, deputato popolare, nonché direttore del Cittadino di Brescia -, che per primo nel 1921 aveva paventato dalle colonne del suo giornale il pericolo dell’allontanamento dallo spirito cristiano delle organizzazioni sindacali, indirizzò al suo amico e collega una lunga lettera in cui faceva eco al monito di «rimettere in onore» l’azione cattolica, «perché questa faccia di giorno in giorno rifluire correnti di pensiero animatore ed energie e virtù di uomini nell’azione sociale e di partito»25. Si associarono molti altri, tanto che l’Unità Cattolica, fra le ultime testate a prendere la parola, rilevò la convergenza unanime su questo punto:
«V’è la sensazione, in altri termini, che a mantener saldi gli organismi politici, sindacali e cooperativi, più che la difesa degli interessi transeunti esercitata volta a volta da partiti e da organizzazioni spesso in contrasto tra loro, giovi rafforzare la comunanza dei sentimenti religiosi e morali tra gli adepti, sostituendo al debole filo del tornaconto economico e politico, il legame ben più tenace di una coscienza precisa della propria fede, dei propri doveri sociali»26.
E chiosava avvisando che un simile proposito avrebbe potuto trasformarsi in realtà soltanto grazie alla «fervida collaborazione di tutti gli uomini di fede», in qualunque campo d’azione fossero impegnati. In termini più concreti, da molte parti si levava l’invito alla proficua cooperazione tra le organizzazioni di Azione Cattolica e le altre istituzioni di ispirazione cristiana, in specie quelle politiche ed economiche non più soggette alla dipendenza diretta dall’autorità ecclesiastica:
«L’azione cattolica, se forma lo scopo proprio principale di alcuni particolari organismi sociali che agiscono in diretta dipendenza dall’autorità religiosa, in realtà non si limita ad essi, e deve inverdire tutte le organizzazioni che si ispirano al principio cristiano. […] Occorre una continuità d’azione tra i nostri organismi […], facciamo rifluire lo spirito cristiano con un contatto più diretto delle nostre branche, delle nostre attività colle opere dell’Azione Cattolica, in cui quello spirito viene elaborato e potentemente indotto sotto l’influsso della Chiesa»27.
In una parola, il grido che rimbalzava di bocca in bocca era “Unità!”. Nella nuova temperie storica, in una società che si avviava decisamente a divenire di massa e su cui aleggiava la minaccia della secolarizzazione, appariva imprescindibile che i cattolici ritrovassero la loro unità, per poter preservare la tradizione religiosa del paese e incidere in modo significativo sul suo tessuto socio- politico e soprattutto sul suo orientamento morale. L’autonomia del partito e delle organizzazioni sindacali, cooperativistiche e mutualistiche non poteva divenire causa di divisioni o, ancor peggio,
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C. Bresciani, Torniamo alle sorgenti, in “L’Avvenire d’Italia”, 25 maggio 1922.
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Azione Cattolica, in “L’Unità Cattolica”, 27 maggio 1922.
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Mons. Baviera, Risaliamo alle sorgenti! Come si deve intendere l’azione cattolica, in “L’Avvenire d’Italia”, 24 maggio 1922.
di deviazioni da questo anelito comune che per decenni aveva alimentato il laicato militante e che era quindi posto alle radici (o meglio, alle sorgenti) del loro stesso operare. Si trattava quindi di una questione di principio, che trascendeva il piano meramente organizzativo per collocarsi nella sfera ideale dell’ambita restaurazione cristiana della società.
Ben lo espresse in un suo articolo Ernesto Callegari, allora direttore dell’Unità Cattolica: «Tornare alle fonti dell’azione nostra vuol significare non perdere mai di vista il fine cristiano religioso, etico, integralmente cattolico della nostra azione, qualunque sia il campo in cui si esplica, qualunque sia l’aspetto che riveste, sia cioè puramente religiosa, o contingentemente e obbiettivamente politica e sociale. […] Fuor di metafora è necessario che la politica, il cooperativismo, il sindacalismo, che sono mezzo per penetrare nella vita civile e sociale, non diventino fine, obliando poco o molto, nell’aconfessionalità e nell’autonomia, la loro ragion d’essere, ch’è quella precipua e diretta di rifar cristiano il popolo, lo Stato, la nazione, le leggi, con il ritorno delle coscienze e della vita privata e pubblica alla morale dell’Evangelo. […] Tutto questo altro non deve significare che sarebbe pericoloso e non profittevole alle nove attività credere o supporre di avere in se stesse la vita e il fine, quando l’una e l’altro non debbono né possono essere diversi da quelle dell’azione cristiana, propriamente intesa: e d’altronde non più s’intenderebbe la legge di sviluppo dell’azione cattolica se i nuovi organi suoi ignorassero i vecchi e questi si trovassero soffocati da quelli. Non è dunque questione di forma nell’ordinamento, ma di sostanza. Non è neppure quindi una crisi, bensì è il problema integrale morale della vita cattolica nell’esplicazione militante laica, il quale non deve venir considerato né risoluto frammentariamente, ma nella sua interezza»28.
Una questione sostanziale, dunque. Ma innegabilmente con precise implicazioni sul concreto dipanarsi del movimento cattolico: innanzitutto, l’esigenza di un centro autorevole che servisse appunto a coordinare e far convergere in unità tutte le forze cattoliche. In realtà, ne era ben consapevole lo stesso Callegari, che tempo dopo, scendendo dalle nubi dell’idealità e delle affermazioni di principio, scriveva:
«Bisogna coordinare, riordinare, disciplinare in un organismo vivo, operante, inteso e seguito, tutte le forze vive, vecchie e nuove, dei cattolici militanti. Questo sì. Chiamasi poi Opera dei Congressi o Unione Popolare, poco importa. Bisogna vivere, poi filosofare. E quindi occorre che oltre e sopra il P.P. ma non contro di esso né senza di esso, per le naturali interferenze, si pervenga a dare all’azione cattolica quell’unità d’indirizzo, di impulso, di concordia e di disciplina, che faccia delle coscienze cattoliche una coscienza sola nel suo multiplo esplicarsi»29.
Una volta espressa la volontà di richiamare tutti cattolici a serrare le file, a costituire un esercito compatto per lanciarsi alla riconquista della società, emergeva palese l’esigenza di superare le divisioni e i particolarismi, e di radunare le forze in un unico organismo, con un centro direttivo autorevole che coordinasse e i diversi settori e, pur nel rispetto della loro autonomia, desse un indirizzo unitario all’azione dei cattolici: questo doveva essere il compito assolto dall’Azione
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Mikròs (pseud. di E. Callegari), Le fonti dell’Azione Cattolica, in “L’Unità Cattolica”, 11 giugno 1922.
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Cattolica, e nell’adempiere tale imprescindibile funzione l’Unione Popolare si era rivelata senza dubbio carente. Diversi giornalisti non mancarono di rilevarlo, sulla scia del Bresciani che, nella lettera citata più sopra, per primo lo aveva indicato tra le cause del declino dell’azione cattolica:
«Manca un elemento fortemente coordinatore e disciplinatore degli sforzi singoli per fonderli in un grande poderoso sforzo comune quale si richiederebbe per quel formidabile colpo d’ala che dovrebbe finalmente ridonare il Paese alla sua storica fisionomia cattolica a maggiore sviluppo e gloria dei suoi nuovi liberi istituti civili e politici»30.
Anch’egli, come Callegari, nel fare memoria della gloriosa tradizione storica del movimento cattolico aveva sotto gli occhi l’Opera dei Congressi, che con successo era riuscita a tenere insieme, per quasi un trentennio, la variegata trama delle attività promosse dai cattolici. Dinanzi al mancato decollo dell’Unione Popolare, riaffiorava alla mente di molti il ricordo di quella gloriosa istituzione, spesso rievocata - a dispetto delle forti tensioni che pur avevano albergato al suo interno e che ne avevano comportato lo scioglimento - come archetipo ideale di concordia e di unità. Si tornava a pensare alle grandi assise dei cattolici che avevano prestato occasioni di confronto, di radicamento nelle comuni idealità, di forte impulso per il rilancio dell’azione. Da più parti si auspicava la ripresa dei congressi annuali, quale simbolo del rinnovato convergere in unità di tutte le forze cattoliche.
Il proposito era senz’altro sincero e sentito ma, volenti o nolenti, bisognava prendere atto del cambiamento dei tempi: l’Opera dei Congressi aveva operato in un momento in cui i cattolici erano ancora ufficialmente alieni dal diretto impegno politico e in un contesto in cui l’azione cattolica tendeva a includere, nella sua onnicomprensività, qualsiasi forma di attività promossa dai fedeli, tanto in ambito propriamente religioso quanto culturale, sociale, economico, politico-elettorale. Adesso che era stata posta con chiarezza la distinzione tra azione propriamente cattolica, in dipendenza diretta dall’autorità ecclesiastica, e azione politica ed economica, autonomamente svolta dai fedeli, impegnati a titolo personale in organi ufficialmente aconfessionali, cosa voleva dire “tornare alle sorgenti”? Come garantire l’unità di indirizzo, di pensiero e di azione?
Sul piano teorico, come abbiamo visto, non sussistevano dubbi: l’Azione Cattolica doveva restare il luogo dell’unità, fornendo a tutti il retto orientamento perché poi potessero impegnarsi responsabilmente negli svariati ambiti di attività, inclusi quelli che restavano ora estranei alle sue dirette competenze. Con immancabile lucidità lo esprimeva Egilberto Martire, fermamente convinto che la conquistata autonomia dell’attività politica ed economica non dovesse andare a detrimento dell’Azione Cattolica:
«L’avvento dell’azione e dell’autonomia politica dei cattolici non solo non ha reso inutile o meno utile l’Azione Cattolica: l’ha resa, anzi, se fosse lecito dirsi, più necessaria che non ieri. Perché se l’autonomia politica dei cattolici si attua nella onesta libertà delle cose
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dubbie, in dubiis libertas, l’Azione Cattolica è destinata a custodire il senso e le forze dell’unità, in necessariis unitas»31.
Mentre a livello ideale tutti concordavano, sul piano concreto non era facile trovare la stessa armonia: come vedremo, le divergenze iniziavano al momento di definire il contenuto di questo “in necessariis” - l’effettiva sfera d’influenza della nuova Azione Cattolica -, ma soprattutto quando si trattava di stabilire le modalità concrete in cui la sua funzione doveva esplicarsi - in che modo, ad esempio, dovesse funzionare il centro direttivo dell’organizzazione, e quali dovessero essere i suoi rapporti pratici con le altre istituzioni di ispirazione cristiana.