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LA VIGILIA DELLA RIFORMA

2. LA VOCE DEI VESCO

Dei quasi trecento vescovi italiani7, circa un terzo rispose alla circolare inviando, come richiesto, il proprio parere sul progetto di riforma: in un nutrito fascicolo della Segreteria di Stato8 sono infatti raccolte 105 lettere provenienti da ogni parte d’Italia, che costituiscono una prezioso materiale per la ricostruzione di questo importante snodo della storia del movimento cattolico.

Già il fatto che tutto l’episcopato sia stato chiamato a partecipare al processo decisionale intorno alle sorti dell’Azione Cattolica è di per sé un elemento di grande rilievo, in quanto sembra costituire (almeno allo stato attuale delle ricerca storica) un’assoluta novità: se nel 1905 erano state le molteplici associazioni cattoliche, prima aderenti all’Opera dei Congressi, ad essere convocate ufficialmente in plebiscito per approvare il progetto di riforma redatto dal triumvirato Medolago

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Sull’episcopato italiano sotto Pio XI, si veda A. Riccardi, Pio XI e l’episcopato italiano, in AA.VV., Achille Ratti – Pape Pie XI, cit., pp. 529-548. Si possono inoltre trovare interessanti indicazioni in proposito in saggi di più ampia portata, quali Monticone, L’episcopato italiano dall’unità al Concilio Vaticano II, in M. Rosa, Clero e società nell’Italia contemporanea, Laterza, Bari, 1992, pp. 257-330,e G. Battelli, Santa Sede e vescovi nello Stato unitario. Dal secondo Ottocento ai primi anni della Repubblica, in G. Chittolini - G. Miccoli (a cura di) Storia d’Italia, Annali, vol. 9, cit., pp. 807-879. Numerosissimi sono infine gli studi relativi alle singole diocesi, per i quali si rimanda innanzitutto agli atti di due importanti convegni svoltisi a Torreglia nel 1977 e a Roma nel 1981, e alla vasta e dettagliata bibliografia ivi riportata: P. Pecorari (a cura di), Chiesa, Azione Cattolica e fascismo nell’Italia settentrionale durante il pontificato di Pio XI (1922-1939), Vita e Pensiero, Milano, 1979 e AA.VV., Chiesa, Azione Cattolica e fascismo nel 1931, AVE, Roma, 1983.

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ASV, Segreteria di Stato, 1923, rub. 52F, fasc. 1. Salvo diversa indicazione, tutta la documentazione a cui si fa riferimento nel presente paragrafo è tratta da questo fascicolo.

Albani – Toniolo – Pericoli per volontà di Pio X9, adesso, per la prima volta in un simile frangente, ci si rivolgeva, seppure in via riservata, ai vescovi. Il dato non sembra tanto indicare una volontà di ridimensionamento del ruolo dei dirigenti laici - che abbiamo visto essere stati fin qui ampiamente coinvolti nella formulazione del progetto e che anche in questa occasione furono nuovamente interpellati10 -, ma appare piuttosto un segno del cambiamento in corso: alla luce del concetto di Azione Cattolica sviluppato nella circolare, ben si comprende infatti come i vescovi potessero ormai essere ritenuti i naturali referenti di un’organizzazione che si voleva sempre più strettamente dipendente dall’autorità ecclesiastica. In seguito, proprio in ragione dell’approfondirsi di questo legame con la gerarchia, la prassi del coinvolgimento dell’episcopato nei momenti critici della storia dell’Azione Cattolica si sarebbe consolidata: così, durante la crisi del ’31, ai vescovi sarebbe stata affidata la direzione immediata dell’organizzazione nelle rispettive diocesi, e così ancora a loro sarebbe stato sottoposto, all’inizio del pontificato di Pio XII, il nuovo progetto di riforma11.

Oltre a motivazioni di carattere ideale, vi erano poi evidenti ragioni di ordine pratico che rendevano prezioso il parere dell’episcopato. Infatti, se l’alta dirigenza laica poteva prospettare meglio lo stato complessivo delle associazioni ed additarne le necessità organizzative, i vescovi avevano sotto gli occhi le situazioni locali e potevano quindi dar conto dei problemi concreti e del sentire diffuso presso i fedeli loro affidati. Da questo punto di vista, le lettere in analisi testimoniano da un lato l’estensione universale di talune aspirazioni, dall’altro la varietà del modo di interpretarle e darvi forma, in relazione a contesti di provenienza profondamente diversi: se infatti sono quasi tutte plaudenti alla riforma, appaiono però estremamente variegate per osservazioni, poli di interesse, sensibilità degli scriventi.

Si tratta inoltre di scritti fortemente eterogenei anche per densità e qualità del contenuto: a brevi messaggi di semplice adesione e professione d’obbedienza, arricchiti al più da considerazioni di ordine generale, si affiancano lettere più lunghe, talvolta debitrici della consulenza di qualche competente membro della curia o dei dirigenti dell’Azione Cattolica locale, comprensive di elenchi numerati con domande di chiarimento o proposte - e spesso con brevi note al margine che ne riassumono i concetti fondamentali, apposte a matita durante lo spoglio del materiale pervenuto (con ogni probabilità, sempre da mons. Pizzardo).

La diversa natura delle lettere è già un significativo dato da interpretare: la maggiore o minore incisività del contenuto riflette in genere il grado di sviluppo dell’organizzazione nelle diverse aree.

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Dei pareri delle associazioni cattoliche - in verità non troppo ascoltati - si fecero portavoce i 26 delegati elettivi che parteciparono al convegno di Firenze, durante il quale fu approvato lo statuto della neo-costituita Unione Popolare. Cf. G. De Rosa, Storia del movimento cattolico, vol. I, cit., pp. 510-513.

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Nel fascicolo sono infatti presenti, oltre a quelli dei vescovi, i pareri intorno al progetto redatti da Colombo, Pericoli, Vigorelli, Paganuzzi e dai presidenti delle Giunte Diocesane del Veneto.

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In questo senso, anche il dato numerico ha il suo peso: delle quattordici lettere indicate in Segreteria di Stato come particolarmente rilevanti, con un segno a matita rossa sulla prima pagina, la grande maggioranza proviene dalle regioni settentrionali, tradizionale bacino associativo dell’Azione Cattolica - cinque provengono dal Veneto12, tre dalla Lombardia13, una dal Piemonte14, una dalla Liguria15, una dall’Emilia16. Delle tre rimanenti, una è scritta da un cardinale di Curia17, una dal vescovo di Acquapendente - che dimostra di essere molto addentro alle questioni interne dell’Azione Cattolica, ben oltre la mera conoscenza della situazione locale - e l’ultima, l’unica proveniente dal sud, dal vescovo di Piazza Armerina mons. Mario Sturzo, che per la sua stretta parentela con il fondatore del Partito Popolare è da ritenersi un personaggio sui generis, non certo rappresentativo dell’episcopato meridionale. Di molti vescovi del Mezzogiorno, circa i tre quarti, non si conserva traccia di risposta, mentre dalle regioni settentrionali risponde più della metà dell’episcopato. Anche il contenuto delle lettere rivela l’enorme discrepanza tra Nord e Sud nello sviluppo del movimento cattolico. Da svariati vescovi meridionali giunge appena un moto d’ossequio alle direttive pontificie, da altri, più convinti sostenitori dell’apostolato di Azione Cattolica, il lamento per le difficoltà incontrate in diocesi18 - in primis per l’impreparazione e la resistenza del clero19 -, la richiesta di aiuto per la propaganda20, la raccomandazione di rendere più semplice l’organizzazione21 e non troppo gravoso il tesseramento22. Per contro, è soprattutto delle regioni settentrionali che giungono osservazioni e proposte di più ampia portata, che investono i punti nodali della riforma: il reclutamento degli adulti, il rapporto tra Azione Cattolica ed organizzazioni economiche e professionali, la composizione degli organi centrali e il loro legame con la gerarchia ecclesiastica, la distinzione dall’azione politica.

Soprattutto da queste ultime osservazioni attinse mons. Pizzardo per redigere un conciso «riassunto» dei pareri dei vescovi, conservato nello stesso fascicolo della Segreteria di Stato. Tale

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Padova, Treviso, Udine, Trieste e Gorizia.

Ci si riferisce, naturalmente, alla definizione delle regioni conciliari allora vigente. Cf. Annuario della Santa Sede 1922.

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Bergamo, Lodi e Pavia.

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Biella.

15

Genova. La lettera raccoglie anche il parere dei vescovi di Ventimiglia, Bobbio e Tortona.

16

Modena. Il foglio con le proposte non si trova però unito alla lettera, ed è quindi di problematica identificazione.

17

Il vescovo di Albano card. Granito Pignatelli di Belmonte.

18

Si prendano ad esempio il vescovo di Rossano, che parla di «insormontabili difficoltà», e quello di Ugento, che afferma recisamente: «qui si ha paura delle Associazioni Cattoliche».

19

Così mons. Puja, allora vescovo di Santa Severina, denunciava l’inedia del basso clero e raccomandava che fosse sollecitato con forza al lavoro di Azione Cattolica: «si diano norme pratiche, istruzioni precise, e obbligazioni particolari della S.Sede a tutti i Parroci».

20

Cf. lettera del vescovo di Rossano.

21

Il vescovo di Nicosia, ad esempio, affermava: «Si desidererebbe un movimento più agile, meno inceppato e più libero ed efficace nell’agire; pur rimanendo ogni Azione Cattolica sotto la guida e la prudente direzione dei diversi Organi Centrale e Diocesano». Nella stessa linea, il vescovo di Valva e Sulmona si spingeva a chiedere che fosse lasciata al vescovo la responsabilità di determinare la configurazione della direzione locale dell’azione cattolica, se necessario prescindendo persino dalla costituzione della Giunta Diocesana, adducendo anch’egli ragioni di agilità: «si desidera da molti la maggiore semplicità possibile, il minimo, per dire così, della burocrazia e del formalismo».

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documento, benché abbia il carattere di un semplice appunto manoscritto, offre una significativa testimonianza della prima fase di rielaborazione curiale dei molteplici pareri raccolti, con tutta la problematicità connessa a questo delicato passaggio. Da un lato, infatti, il testo offre una fedele ed efficace sintesi delle osservazioni più rilevanti o ricorrenti, dall’altro presenta in più punti notevoli discrepanze od omissioni rispetto al contenuto complessivo delle lettere dell’episcopato, restituendone un’immagine parziale e a tratti alterata. Dell’uno e dell’altro aspetto si renderà conto nel seguito dell’ esposizione, cui questo documento offrirà un filo conduttore per districarsi nella fitta pioggia di osservazioni provenienti dai vescovi.

Prima però di addentrarsi in questa polifonia di opinioni, si vedranno le ragioni del loro convergere in unità nel plaudere alla riforma dell’Azione Cattolica; si lascerà invece al termine del capitolo l’analisi delle rare voci dissonanti, che avanzarono serie riserve sul progetto caldeggiato dalla Santa Sede.

2.1 Le ragioni del consenso

Fino a questo momento, la sola cosa nota alla storiografia a proposito del parere dei vescovi sul progetto di riordinamento dell’Azione Cattolica era che questo fosse stato accolto con «plauso unanime»23. Alla luce della ricca documentazione ora disponibile, l’indicazione può finalmente essere messa al vaglio della critica, non tanto per confermarne l’incontestabile verità, quanto per scandagliarne il significato e la portata. Da cosa era stata determinata l’entusiasta approvazione dei vescovi? Quale punto aveva più di tutti incontrato il loro favore? Nel ricevere la circolare di Gasparri, quale idea si erano fatti della riforma in corso, interpretando il pensiero della Santa Sede?

Benché si possa trovare più di una risposta a queste domande, l’elemento unificatore è, ancora una volta, l’aspirazione ad una maggiore unità dei cattolici organizzati. Facendo eco a voci che abbiamo visto largamente diffuse in tutto il mondo cattolico, anche molti vescovi invocavano l’urgente necessità di «coordinamento» e «disciplina», di una maggiore «unità di indirizzo», e concordavano altresì sull’opportunità della creazione di un «unico centro», un’«unica direzione» che presiedesse all’intero movimento dei cattolici organizzati, rendendolo un tutto organico. Emblematica in questo senso l’esclamazione del vescovo di Piacenza: «magnifica cosa l’accentramento di tutte le associazioni in un unico organismo»24. Agli occhi del prelato, nonché di molti altri vescovi, il progetto di riordinamento si qualificava quindi come un processo di accentramento, non tanto finalizzato - o almeno non in prima istanza - ad un maggiore controllo

23

Comunicato sulla costituzione della Giunta Centrale dell’Azione Cattolica Italiana del 30 novembre 1922, in A. M. Cavagna (a cura di), Pio XI e l’Azione Cattolica, cit., p. 424.

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Si vedano anche le lettere dei vescovi di Camerino, Fabriano, Genova, Lucera, Marsico e Potenza, Mazara del Vallo, Modigliana, Montefiascone, Orvieto, Sessa Aurunca, Tivoli, Trieste, Volterra.

ecclesiastico e ad una limitazione dell’autonomia, quanto alla creazione di un organismo unitario, che riunisse i cattolici dando nuovo impulso alla loro azione. Accentramento, quindi, ma in funzione dell’unità.

L’altro elemento che guadagnò la concorde approvazione dei vescovi fu la soppressione del nome “Unione Popolare”, che poneva fine al «pretesto di continuare la confusione o l’equivoco d’identità tra P.P. e U.P.»25. Mentre in altre sedi il dibattito si era concentrato sull’opportunità o meno di sopprimere l’Unione Popolare in se stessa, riservando solo uno spazio marginale alla questione del nome, nel caso dell’episcopato le proporzioni si invertivano: questa veniva portata alla ribalta, mentre solo poche voci si premuravano di sottolineare la scarsa vitalità dell’Unione Popolare, rallegrandosi del nuovo impianto organizzativo26. La cosa non stupisce se si tiene conto della preoccupazione - pastorale, più che organizzativa - dei vescovi, testimoni della grande confusione imperante nel popolo. Non era in gioco una mera questione di appellativi, ma il ben più ampio e delicato problema della distinzione tra azione religiosa e azione politica, sul quale continuavano a perpetrarsi una pericolosa serie di equivoci che la forte assonanza dei nomi contribuiva ad alimentare. Da un lato, tra le masse cattoliche il Partito Popolare era stato spesso ritenuto una diretta emanazione dell’azione cattolica ufficiale, divenendo nuovo e spesso esclusivo catalizzatore delle forze più attive, del laicato come del clero; in questo senso, anche da qualche vescovo si lamentava che il partito avesse «assorbito le migliori energie dei cattolici»27, a discapito dell’Unione Popolare. Dall’altro lato, questa errata convinzione di molti cattolici dava adito alle accuse dei detrattori del Partito Popolare, dei liberali in primis, che malevolmente vi scorgevano uno strumento di ingerenza della Chiesa nella vita pubblica, nonché di chi - è il caso dei fascisti - ne traeva il pretesto per scagliarsi con violenza, nella propria azione di opposizione politica, allo stesso titolo contro i tesserati del partito, quelli delle associazioni cattoliche, e persino il clero. Come si è visto, la circolare della Segreteria di Stato sull’astensione dei sacerdoti dalla politica faceva riferimento a questa deprecabile situazione, con la ferma volontà di porvi definitivamente rimedio. Nella stessa linea le affermazioni di taluni vescovi, i quali si auguravano che il cambiamento di nome dell’Unione Popolare servisse a liberare l’Azione Cattolica, strettamente

25

Lettera del vescovo di Pitigliano. L’ “equivocità” della vecchia denominazione è additata anche nelle lettere dei vescovi di Bergamo, Camerino, Catania, Iesi, Marsico e Potenza, Pavia, Santa Severina.

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Così il vescovo di Treviso: « l’Unione Popolare come organizzazione a sé non rispondeva ai bisogni ed alla mentalità di noi italiani». Similmente, il vescovo di Isernia e Venafro e quello di Volterra sottolineavano come essa non fosse compresa dai cattolici.

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È un’espressione del vescovo di Pozzuoli, certo non priva di venature polemiche. Ancor più significativa appare, a questo proposito, un’espressione del vescovo di Montalto Marche, il quale, rallegrandosi per la riforma, affermava che «unire i cattolici in due eserciti paralleli non era possibile». L’espressione, di significato ambiguo, sembrerebbe lasciar intendere che, a parere del vescovo, fino a quel momento si fosse deliberatamente considerato il partito una forma alternativa e parallela di militanza, forse sperando di servirsi direttamente di esso per perseguire obiettivi di Azione Cattolica: cosa che la Santa Sede aveva sempre insistentemente negato e che appare quindi inattesa nella dichiarazione di un vescovo.

legata alla Chiesa, da «ogni parvenza di intromissione nella politica»28, sottraendo «ai partiti avversi ogni pretesto per coinvolgere il clero in competizioni meramente politiche»29. Sembra dunque che l’insistenza dell’episcopato sulla questione del nome stia, in un certo senso, a manifestare l’accoglienza ed approvazione delle direttive pontificie contenute nella circolare, delle quali si presagiva la portata rinnovatrice per l’intero movimento cattolico. Ben lo esprimeva il vescovo di Montepulciano, il quale, fedele al nomina sunt consequentia rerum, si professava convinto che il nuovo nome - Unione fra i Cattolici Italiani - meglio esprimesse lo scopo della massima organizzazione dei cattolici, la realtà di ciò che essa era chiamata ad essere: luogo appunto di unità per tutti i fedeli, al di fuori e al di sopra delle divisioni di parte30.

2.2 La federazione per gli adulti: federazione… di cosa?

L’aspirazione a far convergere in unità tutti i fedeli nell’Azione Cattolica implicava, come si è detto, un rinnovato sforzo per riguadagnare gli adulti, in gran parte rivoltisi all’attività politica ed economica, e il cui contributo numerico nelle fila dell’organizzazione ufficiale appariva alquanto ridotto se confrontato con il rigoglioso sviluppo del movimento giovanile e femminile. La volontà di rimpinguare i ranghi degli adulti trovava naturalmente concorde anche l’episcopato31, come pure, in generale, la proposta di ricorrere al modello federativo, già propagandato nell’ultimo biennio. Nelle lettere si manifestava infatti un diffuso pregiudizio verso il sistema ad adesione individuale adottato originariamente dall’Unione Popolare, tanto che molti vescovi si dichiaravano contrari al mantenimento di soci isolati provenienti dalle file dell’organizzazione disciolta e premevano perché dessero il nome a qualcuna delle associazioni da federarsi. Così, ad esempio, i vescovi liguri:

«Non si comprende chiaramente come possano entrare a far parte della nuova Unione gli iscritti attuali dell’Unione Popolare e dei gruppi parrocchiali quali soci isolati restando così senza gerarchia e senza diretta rappresentanza propria di fronte alle altre associazioni organizzate. Dal momento che l’Unione popolare ed i gruppi parrocchiali devono cessare, come entrano i loro soci nel nuovo organamento? Si preferirebbe che fossero esclusi i soci

28

Lettera del vescovo di Genova, che raccoglie anche i pareri dei vescovi delle diocesi suffraganee.

29

Lettera del vescovo di Rieti. Si veda anche la lettera del vescovo di Borgo San Donnino, che testimoniava le persecuzioni attuate contro le organizzazioni giovanili, col pretesto che l’azione del sacerdote fosse di carattere politico.

30

Oltre a rallegrarsi per il nuovo battesimo dell’Unione Popolare, alcuni si spingevano poi a proporre nomi alternativi, a loro parere più semplici ed efficaci. Così recita infatti il primo punto del citato «riassunto» redatto da mons. Pizzardo: «1. Alcuni propongono che in luogo di “Unione fra i Cattolici Italiani” a render più snello e più agile il tutto si dica “Unione Cattolica Italiana”, o “Azione Cattolica Italiana” o “Unione Generale Cattolici Italiani”». La prima proposta era di gran lunga la più gettonata; l’espressione “Azione Cattolica Italiana”, invalsa in seguito, ma già di uso comune e adoperata persino nel titolo dello schema di rimaneggiamento, veniva indicata dal solo vescovo di Lodi, che riteneva consigliabile un più radicale mutamento di nome; la terza proposta, a ben vedere, non era stata avanzata da nessun vescovo, bensì da alcuni dirigenti laici, quali Colombo e Vigorelli.

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Si vedano ad esempio le lettere dei vescovi di Pozzuoli, Siena, Treviso e Trieste, che sottolineano la necessità della riforma per raggiungere tale obiettivo.

isolati che non appartengono a nessuna associazione particolare e ciò anche per stimolare i cattolici ad entrare nelle associazioni corrispondenti alle condizioni di ciascuno»32.

Se la nuova organizzazione voleva essere davvero vitale, bisognava evitare l’errore, già commesso in passato, di raccogliere adesioni (e quote associative) che risultassero sulla carta, ma che non corrispondessero ad un impegno attivo in qualche ambito, preciso e ben definibile, d’azione cattolica. In altri termini, nel nuovo esercito che si stava progettando c’era posto per tutti, ma ognuno doveva stare al suo posto di combattimento.

Se fino a questo punto, salvo rare eccezioni33, il consenso era unanime, da qui in poi iniziavano i dubbi, le domande, le differenti proposte rispondenti a diversi modi di intendere. Come nel caso dei progetti dei dirigenti laici, anche per l’episcopato si poneva infatti la questione di quali fossero le organizzazioni per adulti da federare ed inquadrare nei ranghi della nuova Azione Cattolica.

Mons. Pizzardo prendeva nota di tale diffusa perplessità nel secondo punto del suo «riassunto»: «2. Molti si preoccupano di sapere quali potranno essere le sezioni specifiche che potranno costituirsi o alle quali potranno iscriversi i cattolici adulti, che appartenendo all’Unione Popolare, al suo sciogliersi resterebbero isolati»34.

La domanda in realtà riguardava non solo gli adulti iscritti all’Unione Popolare, ma anche tutti gli altri, e in particolare quelli che uscivano per limiti di età dalla Gioventù Cattolica e dei quali si voleva evitare la dispersione. Ecco, ad esempio, gli interrogativi posti dall’arcivescovo di Salerno: