Difficoltà particolari in ordine al libro di Lodato: l’essere un per-sonaggio (conseguente ritegno).
Come personaggio infatti mi riconosco in tanti capitoli del libro e sono grato a Lodato per le immeritate parole di apprezzamento (spreco di aggettivi).
Per inciso non mi riconosco soltanto (si fa per dire) nel giovane che al cap. IV (i professionisti dell’Antimafia) si assume nato all’Al-bergheria.
In realtà io e Falcone siano nati e vissuti alla Kalsa e ricordiamo entrambi accanite partite di calcio o ping-pong con gli uomini che poi ritrovammo componenti del clan di Masino Spadaro.
Ma, eccettuate queste marginali imprecisioni, ritrovo nel libro me stesso, i miei compagni di viaggio (Chinnici, Caponnetto e Falcone soprattutto), le nostre ansie, il nostro impegno e le nostre speranze di quasi un decennio di appassionato lavoro.
Non poteva essere che così, perché Lodato è stato a suo modo uno di questi compagni di viaggio:
non distaccato cronista ma attore comprimario (col suo altissimo impegno civile a rappresentare la stampa accanto la giustizia) e almeno in un paio di occasioni, anche suo malgrado, protagonista.
Mi riferisco anzitutto alla disgraziata storia del suo arresto e di Bolzoni descritta quasi con pudore di sfuggita all’inizio del cap. XVII (i gerontocrati in pista) e quindi alla intervista fattami dallo stesso e da Bolzoni, sempre loro nel luglio 1988, che scatenò tante polemiche.
Intervista e suoi contenuti cui spero di tornare brevemente più avanti.
Mi sembra, infatti, più corretto soffermarmi dapprima sui conte-nuti generali del libro che devo presentare, cominciando dal titolo, anzi dal sottotitolo “La guerra che lo Stato non ha saputo vincere”.
Io avrei preferito scrivere “che non ha saputo combattere”.
E la conferma che contro la mafia è stata condotta una lotta inade-guata la trovo nell’ultimo capitolo del libro (pag. 281) a proposito del rapporto mafia-politica e delle ricorrenti reticenze, in proposito dei c. d. pentiti: “Possano gli esponenti delle parti più sane dello Stato...
etc. ... Questa sintonia è mancata”.
Ma in cosa avrebbe dovuto consistere questa “sintonia” che Lodato (ed io sono d’accordo) giudica così essenziale?
Qui è necessaria una breve digressione sull’essenza della mafia.
Questa non è soltanto un potere criminale da debellare (o meglio contenere) con operazioni repressive. Vallanzasca - Epaminonda - i sequestratori sardi etc. sono stati scoperti, arrestati e sconfitti senza insormontabili difficoltà con mere operazioni di polizia e con l’in-tervento repressivo della magistratura.
La mafia è un antistato. Si distingue dagli altri poteri criminali perché tende ad affermare la propria supremazia su un territorio. (La droga è un accidente storico). Essa è territorio.
La “famiglia” mafiosa non sarebbe tale se non avesse il territorio fra i suoi elementi costitutivi.
Sul territorio tende ad esercitare le stesse potestà di imperio che ivi legittimamente esercita lo Stato (e gli altri Enti pubblici che ne costituiscono l’articolazione territoriale).
la giustizia l’ordine pubblico
il controllo delle risorse economiche.
Questa sua tendenza è alternativa alle potestà pubbliche esercitate dallo Stato e quindi teoricamente le due istituzioni sono in insanabile conflitto.
Solo che il conflitto non viene normalmente risolto con lo scontro armato. La mafia non dichiara guerra ma tende al condizionamento delle persone fisiche che impersonano le istituzioni perché la loro at-tività pubblica venga dirottata dal fine del bene comune all’interesse proprio dei gruppi mafiosi.
Questa è la normale via attraverso cui la mafia cerca e trova la sua supremazia. Chi non si piega come ultima ratio viene fatto fuori perché non sta al gioco.
È evidente che l’eliminazione e il contenimento di questo cancro non passa soltanto attraverso la via repressiva, ma postula l’elimina-zione di tutte le cause socio-economiche e politiche in forza delle quali questo anti-stato riesce ad affermarsi.
Prime fra tutte
Necessità di interventi legislativi, di riforme delle istituzioni (enti locali innanzitutto), di interventi socio-economici che eliminino la facilità di reclutamento della manovalanza-trasparenza nella distri-buzione delle pubbliche risorse al fine di evitare l’inserimento pa-rassitario e così via (tutto ciò è mancato del tutto o in gran parte) a giudicare dalle più diffuse e accreditate opinioni.
In ultimo l’attività repressiva, cui non vanno attribuiti poteri tau-maturgici.
Il caricare di attese di definitiva soluzione le grandi indagini e i grandi processi è stato un gravissimo errore, spesso in malafede.
Il maxiprocesso non poteva decretare in pubblica udienza la fine della mafia, perché quella non era la sede di questa soluzione defi-nitiva.
La delega generalizzata di risolvere il problema (quasi una partita tra guardie e ladri) data a polizia e magistratura è stata una truffa atta ad ingannare una opinione pubblica che poi è rimasta sconcertata.
Tanti mafiosi in carcere, tante condanne, ma come mai continuano ad esser potenti come prima e più di prima?
Così si è alimentata la pericolosissima e ricorrente tentazione alla convivenza.
Ma poi questa delega a Polizia e magistratura, oltre che a Parole, vi è stata davvero?
Le vicende narrate nel libro di Lodato lo escludono.
Vi troviamo tanti uomini che nell’arco di un decennio, da
Ter-ranova a Falcone, attraverso Chinnici, Cassarà, Caponnetto e molti altri, hanno inventato le indagini antimafia, operando dapprima in una realtà se non ostile perfettamente indifferente.
Il pool antimafia non fu creato dallo Stato e istituito per decreto ma sorse per faticosissima germinazione spontanea di volenterosi il cui senso dello Stato era sicuramente ed estremamente più alto di quello dei loro governanti.
Fu uno strumento con l’uso del quale furono sicuramente commessi anche gravi errori, ma fu l’unico strumento esistente e funzionante appieno in quegli anni.
Quando ne denunciai la morte imminente, con l’intervista a Lo-dato, si scatenarono le più accese polemiche e del fiume di parole che in quella torrida estate del 1988 si riversò addosso agli italiani, pochi ricordano una pacata intervista del Min. Vassalli al settimanale Epoca, nel corso della quale egli sottolineò l’esigenza di una regola-mentazione legislativa di quella validissima esperienza.
Non se ne è fatto nulla!!
Il nuovo c.p.p., nel frattempo entrato in vigore, contiene solo una norma sul coordinamento fra i vari PM, priva della prospettazione di rimedi in caso di omissione di una determinazione a coordinarsi, che rimane essenzialmente volontaria.
Lo stesso c.p.p. (o meglio le concrete modalità con le quali la ma-gistratura è costretta ad applicarlo) rende seriamente problematiche le indagini anti-mafia (sei giorni al mese, secondo vari documenti della Procura di Palermo).
Il nuovo ordinamento giudiziario ha messo fuori uso uffici di im-portanza vitale (situazione di Marsala).
Pessimismo? Storia senza speranza?
No!
Lasciatemi concludere con una nota di profondo ottimismo, la stessa con la quale l’11.1.90 Lodato concludeva il suo libro.
Dieci anni di antimafia, questi dieci anni di indagini e di polemiche hanno avuto un effetto, sicuramente non perseguito deliberatamente da investigatori e giudici, ma non per questo meno importante. Un effetto culturale che ha svegliato al problema (per la prima volta) l’opinione pubblica meridionale. Che ha allontanato soprattutto dalle giovani generazioni meridionali quella tentazione alla convivenza col fenomeno che generava in ultima analisi quel consenso diffuso di cui la mafia si è sempre nutrita.
Questo è un punto di non ritorno che ci convince di non aver lavo-rato inutilmente e che ha fatto capire alla mafia che ormai “la Sicilia non è più il cortile di casa sua”.
Roma, C. S. M. 22 gennaio 1992