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Digitalizzazione e Digital Divide: il gap “tecnologico-Culturale” può essere ridotto dalla web tv?

Teletorre 19. Non è mancata la fantasia agli inquilini di Teletorre 19 a

1.5 Digitalizzazione e Digital Divide: il gap “tecnologico-Culturale” può essere ridotto dalla web tv?

Qualsiasi tecnologia è in grado di cambiare abitudini e comportamenti delle persone. Nuovi strumenti e dispositivi, al momento della loro nascita, producono delle rotture o, come li definisce Miconi (2011), degli “strappi, dei veri e propri salti culturali” dai quali emergono modi d’uso di un medium inediti nella storia della comunicazione.

Internet, ormai, è visto essere come un oggetto ordinario e consolidato, un qualcosa dato per scontato proprio grazie alla sua ampia portata ed alla capacità di poter diffondere maggiormente un’informazione, estendendo nel concreto il discorso ad un uso semplice e diventato ormai comune. Non si riesce ad immaginare la vita senza internet. Non si riesce a pensare che qualcuno, al giorno d’oggi, possa non disporre di un accesso diretto alla rete. Un modo di pensare che, si ripete, deriva dall’ormai scontata concezione della facilità di accesso (anche in termini economici) alla tecnologia. Elemento che parte con la diffusione dei personal computer sulla logica di “almeno uno in ogni casa”, così come è stato per il televisore. E, aggiunge Turkle (1996), “a modificare è la stessa percezione del computer che passò da uno status di macchina “seria” da calcolo a quella di medium d’intrattenimento, lucidità e socialità”.

95 Ma, anche se tale visione è quella della maggioranza, c’è ancora oggi chi non ha un facile accesso alla rete, riscontrando problemi di segnale dovuti a mancanza di tecnologie o particolari morfologie del territorio o di altra natura. Un gap tecnologico, dunque, che ben può essere riassunto nel concetto di Digital Divide.

Il Digital Divide può essere definito, secondo Miconi (2011), come il “lato oscuro della network society: il mondo di chi è tagliato fuori dall’innovazione, di chi non accede alla rete […]. Tutto quello che rimane in penombra, il continente sommerso della comunicazione, dove si aprono ampie radure di silenzio, vaste zone di siccità e carestia, e dove si pone il problema di tutto quello che può dire di internet la sua assenza, o il ritardo della sua diffusione” (Miconi, 2011, pag. 74).

Detto in maniera semplice, con il Digital Divide si misura chi ha e chi non ha possibilità di accesso alla rete focalizzando l’attenzione su paramenti di varia estrazione: territorio, urbanizzazione, indice di sviluppo, condizione sociale, età, reddito, genere, livello di istruzione… Il concetto di divide è allora usato per evidenziare una disparità d’accesso e diffusione che i mezzi digitali creerebbero.

Sartori (2006) definisce, invece, il Digital Divide come un concetto che viene stranamente applicato solo alla rete, senza prendere in considerazione gli altri media.

Un’affermazione, quest’ultima, vera in un certo senso ma che esclude la comune concezione che il gap tecnologico dato dall’avvento del digitale ha riguardato anche la televisione che, come sintetizzano Balbi e Magaudda (2014, pag. 130-137), ha subito trasformazioni e cambiamenti sulla scia di quattro dimensioni distinte ma interconnesse:

- l’evoluzione: con la convergenza dei media, a partire dagli anni Novanta, si è assistito all’integrazione tra imprese televisive e altre che appartengono a diversi comparti della comunicazione, comportando una

96 vera e propria caduta di barriere tra i diversi settori operanti nello stesso sistema delle comunicazioni;

- la digitalizzazione: il tradizionale segnale di broadcasting analogico, a partire dagli anni Duemila, diventa digitale (processo di switch-off). Si assiste dunque ad una trasformazione di una tecnologia affermatasi negli anni Quaranta (prima di questa vi fu solo l’introduzione del colore) e che vedeva le trasmissioni televisive poggiare su modalità analogiche via etere o via cavo. Il processo di digitalizzazione del segnale televisivo si è sviluppato dagli anni Novanta (diffondendosi ampiamente nei due decenni successivi) con modi e tempi differenti in varie aree del mondo, a seconda delle caratteristiche (anche morfologiche) di ogni singolo Paese. Operare uno switch-off collettivo in termini globali (in Europa lo spegnimento definitivo dell’analogico – switch-over – era stato fissato al massimo entro il 2012) rappresenta anche un modo per metter fine alle disomogeneità ancora esistenti nei processi di trasmissione del segnale e dar vita alla tanto ambita società dell’informazione in cui tutti comunicano utilizzando uguali strumenti puntando all’eliminazione di una sorta di “torre di babele” per approdare, infine, ad una semplificata e facilitata comprensione reciproca;

- la trasformazione: il televisore da dispositivo tecnico di visione viene modificato e accompagnato da una molteplicità di accessori e strumenti digitali. L’idea di base era che, invece del computer, i servizi digitali potessero diventare accessibili attraverso un mezzo più familiare e già presente in milioni di case: la televisione appunto. Il digitale terrestre (che tra le sue novità vanta il forte aumento dei canali televisivi accessibili, i servizi televisivi interattivi, l’accesso tramite il televisore ai servizi associati a internet, la portabilità e mobilità del televisore e la

97 televisione ad alta definizione116) avrebbe allora permesso, da un lato, di portare all’interno delle realtà domestiche nuovi servizi informatici e, dall’altro, di razionalizzare l’uso dello spettro hertziano, economizzando le frequenze televisive in favore di quelle dedicate ai servizi di telecomunicazione, internet e telefonia mobile. In tal modo viene ampliata la possibilità di consumo a disposizione degli spettatori. Tra i nuovi strumenti e funzioni integrate, la prima cosa che si nota, con il passaggio al digitale, è la moltiplicazione dei canali, cosa che ha favorito anche l’emergere di smart tv e hybrid tv, capaci di integrare la possibilità di connettersi a internet, quella di noleggiare film digitali dalla rete, oppure ancora di accedere a varie forme di contenuti on demand. Questa trasformazione si è accompagnata alla crescente mobilità della visione permessa dalla diffusione dei dispositivi digitali personali prendendo sempre più piede con l’avvento dei moderni smartphone e tablet;

- la traduzione: la tv, a contatto con internet, si reinventa con modelli e logiche del tutto nuove che vedono, in particolare, la diffusione di forme di produzione e consumo legate alle nuove piattaforme di video sharing. Tra gli esempi più noti figura YouTube, forma più caratteristica di convergente fra internet e televisione, che, come afferma Uricchio (2009) “mette in crisi vari aspetti della tv tradizionale come la forza espressiva della diretta, la caratteristica di flusso continuo dei contenuti o la capacità di aggregare attorno a un medesimo contenuto un pubblico disperso e altamente differenziato” permettendo a chiunque di creare e condividere la propria tv dando vita a quelle che Jenkins (2010) ha definito culture partecipative, ovvero l’insieme di utenti che, dopo la fruizione di un contenuto, in un processo di

116 Cola M., Prario B., Richeri G., Media, tecnologie e vita quotidiana: la domestication, Carocci,

98 coinvolgimento attivo (ma che parte dal basso), continua a mantenerlo in vita con commenti, condivisioni, rielaborazioni ed interpretazioni dello e allo stesso.

Tornando alla rete del world wide web e guardando al contesto italiano, “il consumo di internet appare più diffuso tra gli uomini, i giovani e le persone con alto livello di istruzione, reddito e stato professionale. Con il progressivo abbattimento dei costi, che è una regola generale della diffusione dei media, ma con una velocità tutta particolare, il dato degli accessi ha iniziato a mostrare una riduzione delle differenze e un primo livellamento delle disuguaglianze, indicando una tendenza verso la chiusura del divario” (Miconi, 2011, pag. 75).

Ciononostante, anche se si è registrato negli ultimi anni un tendenziale livellamento del divario digitale nel contesto nazionale italiano (si pensi che nel 2011 – come riportato nel Piano Nazionale Banda larga del Ministero dello Sviluppo economico – regioni confinanti presentavano tassi di divide molto alti, come Puglia (2,1%) e Molise (29%), esso rimane comunque alto se paragonato al resto dell’Europa. Ciò viene confermato da alcuni dati presentati dalla Confconsumatori nell’aprile del 2015: “Secondo le indagini Eurostat un terzo degli italiani (34%) non ha mai usato internet, un dato che posiziona il Paese in fondo alla classifica europea in tema di accesso al web. Solo il 54% degli italiani dichiara di usare internet ogni giorno, a fronte di una media europea del 62%. In questo modo pochissimi sfruttano la risorsa dell’e- government: solo il 21% degli italiani dichiara di usare i servizi digitali offerti dalla pubblica amministrazione, la metà rispetto alle medie europee.

Anche la copertura e la qualità della banda larga in Italia sono da migliorare. In particolare, dalla Relazione annuale dell’Agcom emerge la necessità di superare il divario digitale all’interno della penisola. Secondo l’Istat internet è disponibile nel 63,3% delle famiglie del Centro-Nord e solo nel 55,1% delle

99 famiglie del Sud e nel 54,7% delle Isole. Le regioni peggiori sono il Molise, la Calabria, la Sicilia e, al nord, la Liguria.

Permangono anche le differenza di età e di genere: soltanto il 12,7% delle famiglie costituite esclusivamente da over 65 è collegata da casa. Inoltre naviga il 60,2% degli uomini e solo il 49,7% delle donne. Gli stranieri sono limitati ad esempio nell’accesso ai servizi online della PA per mancanza di informazioni e problemi di lingua. E nemmeno le nuove generazioni “native digitali” si salvano: per Save the Children ben 452 mila adolescenti italiani non hanno accesso alla Rete”.

Al di là di dati statistici e percentuali, diversi studiosi avanzano molteplici teorie sul tema del Digital Divide. C’è chi parla di “normalizzazione”, dove la disuguaglianza è percepita come un problema temporaneo destinato ad essere sanato al compimento del ciclo espansivo. C’è chi invece introduce il concetto di “stratificazione” come Sartori (2006, pag. 32), per cui il divario andrà a inserirsi in una struttura sociale già polarizzata in modo che chi si trova in posizione di vantaggio finirà per incrementarla. La prima ipotesi è che il divario sia destinato a ridursi. Nella seconda opzione, invece, il divario sembra essere destinato a tradursi in forme di distinzione diverse: seguendo la logica della convergenza, le “nuove” divergenze consisterebbero non più sulle ridotte possibilità di accesso alla rete ma sull’uso stesso di internet117 che porterebbe in presenza di analfabeti informatici. Il divario digitale si elimina “con un’educazione alla modernità118 che ha la necessità di partire dalle basi”. Esso, pertanto, “non concerne solo la possibilità o meno di accedere alla rete, ma

117

Cfr. Miconi A., Reti. Origini e struttura della Network Society, Laterza, Roma-Bari, 2011, pag. 75.

118

Esiste un divario tra coloro che sono nati nell’era pre-digitale e coloro che invece sono nati “smanettando” tra siti e social network. Un divario che, talvolta, viene considerato insormontabile, vuoi per incapacità di adattamento, vuoi per pigrizia, vuoi per rifiuto mentale. Purtroppo, educare alla cultura della modernità risulta un passaggio fondamentale per iniziare a parlare nuovamente lo stesso linguaggio e capirsi (Crocitti V., Dalla Tv alla Web-Tv: il giornalismo tra streaming, hashtag e

100 anche le modalità in cui l’utente si interfaccia con essa” (Crocitti, 2012, pag. 51).

A partire da queste asserzioni appare doveroso spostare l’attenzione dalla misurazione dell’accesso alla “disuguaglianza digitale” (Miconi, 2011, pag. 76) che considera non solo il momento della connessione ma anche le differenze di competenze e risorse delle persone che accedono alla rete. Ciò a cui si guarda è dunque il capitale culturale degli utenti, il loro grado di capacità e di competenza nell’approcciarsi e nell’utilizzare le tecnologie (quella che Servon definisce alfabetizzazione digitale119 e che tiene conto delle competenze tecniche e cognitive degli utenti), oltre al livello di interesse ed alla disponibilità ad essere connessi.

van Dijk (2005) descrive alcuni dei motivi del divario (d’accesso e d’utilizzo) riassumibili in quattro gradini progressivi: spinta motivazionale verso la nuova tecnologia, disponibilità di computer e connessione, competenze e opportunità d’uso (queste ultime rappresentano quegli utenti che, seppur esperti, non usano la rete per mancanza di tempo o perché non ne avvertono la necessità) . Il livello di attenzione si concentra soprattutto sulle condizioni di disuguaglianza di utilizzo ponendo l’accento sulle competenze distinte in operazionali (necessarie per far funzionare il pc e i software più comuni), strategiche (utile per capitalizzare l’uso della rete), informazionali (abilità da sfruttare per ricercare e organizzare i contenuti offerti da internet). Le competenze informazionali sono poi divise a loro volta in formali (capacità, ad esempio, di accedere ai vari menu proposti in una home page) e sostanziali (come le tattiche messe in atto nell’interrogare un motore di ricerca)120.

“Le difficoltà d’uso di tali servizi, e quindi uno scarso livello di addomesticamento delle apparecchiature e dei contenuti, è una delle possibili

119

Servon L.J., Bridging the Digital Divide: Technology, Community, and Public Policy, Blackwell, Londra, 2002.

120

Cfr. Centorino M., Romeo A., Sociologia dei digital media. Concetti e percorsi di ricerca tra

101 cause del freno alla diffusione” (Cola, Prario, Richeri, 2010, pag. 91) di alcune delle nuove tecnologie comunicative. Occorre anche considerare la presenza e la disponibilità di contenuti adatti al nuovo tipo di pubblico che è andato a delinearsi nell’era del digitale, contenuti che non siano semplicemente modellati sulla base di quanto era già esistente e che, sotto questa luce, permettano di rendere la partecipazione al web come una pratica più appetibile. Chen e Wellman (2005, pag. 469) sintetizzano il tutto in uno schema a quattro quadranti dove mettono in relazione, sul piano verticale, l’aspetto tecnologico e quello sociale del digitale, mentre su quello orizzontale considerano le pratiche di accesso e di utilizzo.

Accesso Uso Aspetto tecnologico Accesso tecnologico: - Infrastruttura - Hardware, software, larghezza di banda Alfabetizzazione tecnologica: - Competenze tecniche - Competenze cognitive

Aspetto sociale Accesso sociale:

- Reddito - Consapevolezza e interesse - Linguaggio - Contenuti e usabilità - Luoghi di accesso Uso sociale: - Ricerca di informazioni - Mobilitazione di risorse - Impegno civile - Inclusione sociale

Anche in questo caso i fattori discriminanti appaiono essere le competenze tecniche e culturali di ogni individuo sottolineando come però un uso “sociale” possa rinforzare una rete di relazioni/collaborazioni (principalmente online e, in alcuni casi, anche offline). Il non essere in possesso o il non acquisire (ed il non impegnarsi/sforzarsi a farlo) tali competenze può comportare ad avere nei confronti del soggetto in questione una sorta di “esclusione sociale”. Come afferma van Dijk (2005, pag. 2) “il Digital Divide, mentre ha smesso di allargarsi, sta diventando più profondo, come una cicatrice meno estesa in

102 ampiezza, ma più dolorosa, che ha preso a infettarsi e a scavare nuovi strati di disuguaglianza”121.

Si noti, però, che il Digital Divide non è un argomento del tutto nuovo, spuntato dal nulla con l’avvento del digitale. Una forma di apprendimento e di “adattamento” (o come la definirebbe Silverstone di “addomesticamento”122) la si riscontra ogni qual volta si viene messi di fronte ad un nuovo medium. Così è stato per la radio, per la televisione, per il telefono e così sarà anche per internet, le web tv e tutto quanto possa essere correlato alla rete. Ogni nuovo medium è stato assorbito ed integrato nella propria quotidianità trasformando in tal modo quella novità in un oggetto di uso comune e familiare.

“Ogni tecnologia dell’informazione e della comunicazione deve trovare la giusta collocazione all’interno della vita quotidiana degli individui e delle unità domestiche. Il processo di integrazione di un nuovo elemento può essere più o meno lento e condizionare in misura maggiore o minore le abitudini individuali e sociali degli individui. È chiaro che per poter sfruttare le opportunità dei nuovi canali e servizi non basta garantirsi le condizioni di accesso tecniche ed economiche, ma occorre acquisire anche le competenze d’uso e addomesticare il mezzo in relazione alle proprie routine e a quelle della propria unità domestica” (Cola, Prario, Richeri, 2010, pag. 92).

D’altro canto è bene tenere in considerazione anche la rapidità con cui oggigiorno cambia e si evolve la tecnologia, elemento che non permette di abituarsi al nuovo in quanto c’è già qualcosa di ancor più nuovo (e in tanti, secondo Castells) non sono in grado di adattarsi alla velocità del cambiamento) e che, pertanto, allontana progressivamente la possibilità di un definitivo assottigliamento del Divide.

121

Cfr. Miconi A., Reti. Origini e struttura della Network Society, Laterza, Roma-Bari, 2011, pag. 78.

122

Cfr. Scifo B., Culture mobili: ricerche sull’adozione giovanile della telefonia cellulare, Vita e Pensiero, Milano, 2005, pp. 22-28.

103 Si consideri ora un aspetto preso in esame in precedenza, ovvero che occorre anche valutare la presenza e la disponibilità di contenuti adatti al nuovo tipo di pubblico che è andato a delinearsi nell’era del digitale, contenuti che non siano semplicemente modellati sulla base di quanto era già esistente e che, sotto questa luce, permettano di rendere la partecipazione al web una pratica più appetibile.

Possono essere individuati, a tal proposito, due settori emergenti: la produzione di contenuti trasversali ai diversi media, che comporta una commistione di linguaggi e di apparati produttivi. I prodotti, infatti, tendono ad essere strutturati per una distribuzione multipiattaforma; i cambiamenti di identità delle industrie mediali: le trasformazioni in questo settore non dipendono solo dal paradigma tecnologico ma anche da fattori diversi relativi l’ambito sociale, istituzionale ed economico. Occorre, dunque, prendere in considerazione le relazioni del sistema mediale e le barriere tecnico-culturali che si frappongono all’integrazione.

Alla luce di quanto detto fin ora una domanda sorge spontanea: Come mai, nonostante le enormi potenzialità, l’aumentata semplicità nell’utilizzo, la facilità di accesso e di possesso dei nuovi mezzi di comunicazione, che oltre a guardare all’aspetto meramente informativo possono rispondere ad un bisogno di tipo ludico puntando ad un miglioramento dell’esperienza comunicativa in generale (con risvolti positivi anche in ulteriori settori ed aspetti della quotidianità), le persone sembrano essere restie al cambiamento, ad una sorta di tecno-entusiasmo (visibile spesso solo nelle fasi di esordio di un nuovo medium tecnologico) e continuano a restar legate ai vecchi sistemi esistenti? Perché a contatto con il nuovo il vecchio appare migliore?

Si potrebbe rispondere utilizzando le parole di Miconi (2011, pag. 155): “Mentre il dito indicava la luna, noi abbiamo guardato il dito, perché, a forza di scrutare il lungo tramonto di un vecchio potere, abbiamo voltato le spalle al sorgere di uno nuovo, disarticolato e sottile, frantumato in una costellazione di

104 piccole forme, e affidato per lo più alla forza asettica, e in fondo tranquillizzante, degli strumenti tecnici. E il fascino delle soluzioni tecnologiche, osserva in modo opportuno David Boyle, non è dovuto solo al fatto che funzionano bene, almeno quando funzionano, ma dall’idea che in apparenza eludano la dimensione del potere, tanto che di solito si pensa al sistema legale come a un regime coercitivo e alla tecnologia, tutto all’opposto e chissà perché, come una forza positiva, capace di facilitare le nostre scelte e agire per la libertà e l’autodeterminazione delle persone”. Ma la questione necessita di una analisi più approfondita.

L’avvento di novità, come si è avuto modo di comprendere, divide lo scenario in due filoni principali: quello che vede una forte presenza di “apocalittici” o tecno-scettici e quello in cui invece si contano gli “integrati” o tecno entusiasti (cfr. Colombo, 2014, pag. 5). Questi ultimi rappresentano coloro che partecipano più attivamene all’uso delle novità entrando spesso a far parte, con la propria creatività, all’interno del processo produttivo dei contenuti mediali.

Lewin (1951), inoltre, afferma che le persone cambiano se percepiscono i loro schemi mentali e comportamentali come inadeguati ad affrontare delle situazioni nuove o non più in grado di assicurare una performance positiva.

A tal proposito si possono individuare due modelli ideali di strategia di comunicazione organizzativa legati alla gestione del cambiamento: il primo vede una logica di tipo top-down (Invernizzi, 2002) dove la comunicazione è finalizzata a rilevare il gap tra modello desiderato (nuovi valori, mission e vision, comportamenti) e modello effettivamente agito (situazione presente). Inoltre questo modello si propone di diffondere i nuovi valori, mission e vision, facilitare l’interiorizzazione dei driver del cambiamento, vincere le resistenze, diffondere i nuovi comportamenti/atteggiamenti richiesti dal processo di trasformazione.

105 Il secondo, invece, si muove su una logica di tipo bottom-up (Maimone, 2010) in cui la strategia parte dall’ascolto delle tante voci dell’azienda/ente e persegue un approccio multi-stakeholder123. La comunicazione in questo caso sarà finalizzata a facilitare l’ascolto e la rivelazione/negoziazione delle esigenze e delle aspettative dei diversi stakeholder interni ed esterni; ad individuare e/o facilitare una cultura inter-faccia (o cultura ponte) che consenta di mediare tra le differenze culturali presenti all’interno dell’organizzazione; a definire una strategia e un piano di azione finalizzati a facilitare l’implementazione dei processi di cambiamento, che contempli anche le azioni pianificate dal management con la valorizzazione dei processi informali e dei fenomeni organizzativi emergenti; a coinvolgere diversi attori (top