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talizzazione dei processi di lavoro e di espandere l’uso del lavoro a distanza, ma anche un significativo 50% intenzionato ad accelerare l’automazione del lavoro nella propria azienda.

Quando è scoppiata la crisi sanitaria, il mondo si trovava all’apice di una tra-sformazione tecnologica profonda iniziata con l’avvento dei computer, e poi di internet e del web, e caratterizzata dall’intreccio sempre più fitto tra digita-lizzazione e automazione. Sebbene esistano vari canali attraverso i quali la tecnologia può favorire l’aumento dell’occupazione - e infatti, storicamente, i cambiamenti netti nell’occupazione dopo grandi rivoluzioni tecnologiche sono stati positivi - è inevitabile che nel breve periodo alcuni lavori e lavoratori siano sostituiti dalle nuove tecnologie.

Grafico 2.22

Impatto del Covid sulle

strategie aziendali: nei piani più

digitalizzazione e automazione

(“In risposta all’attuale epidemia, quali delle seguenti misure la sua azienda ha implementato o intende implementare?”, ottobre 2020)

Fonte: World Economic Forum, Future of Jobs Survey 2020.

Accelerazione della digitalizzazione nei processi lavorativi (es. uso di strumenti digitali, video conferenze) Fornire più opportunità per lavorare da remoto Accelerazione dell'automazione delle mansioni Accelerazione della digitalizzazione dei processi di formazione (e.s fornitori di tecnologia per la formazione) Accelerazione nell'implementazione di programmi per la riqualificazione delle competenze Accelerazione di trasformazioni organizzative in atto (e.s. ristrutturazioni) Temporanea assegnazione dei lavoratori a mansioni diverse Riduzione temporanea della forza lavoro Riduzione permanente della forza lavoro Espansione temporanea della forza lavoro Nessuna misura specifica implementata Espansione permanente della forza lavoro

0 20 40 60 80 100

(Quota % di risposte dei datori di lavoro) 84 83 50 42 35 34 30 28 13 5 4 1

Il dibattito pubblico (e in parte anche accademico), almeno prima dell’attuale emergenza sanitaria, appariva in effetti molto concentrato sugli effetti di so-stituzione dell’automazione, e sulla preoccupazione che si potesse generare un vuoto nelle opportunità di lavoro. La risposta efficace a questi rischi stava già in un’offerta formativa in grado di trasferire competenze tecniche sempre aggiornate e al tempo stesso una sempre più ampia gamma di competenze trasversali (soft skills), sia ai giovani che devono fare il primo ingresso nel mercato del lavoro sia ai lavoratori già in forza.

La finestra di opportunità per rafforzare e modernizzare i sistemi di istruzione e di formazione continua si è ora ridotta, sia a causa della recessione econo-mica (che inevitabilmente comporta processi di ristrutturazione aziendale e di ricomposizione settoriale) sia perché la crisi ha accelerato i tempi della rivolu-zione digitale e del suo impatto sul mercato del lavoro.

Quali politiche per il lavoro? Le lezioni per l’Italia dal confronto con altri paesi Anche se l’emergenza sanitaria non è finita, è cruciale che le politiche

pubbliche, incluse quelle per il lavoro, siano sempre più orientate a sostenere la ripresa economica, rispetto a un’ottica emergenziale che necessariamente ha prevalso nelle prime fasi dallo scoppio della pandemia.

In Italia, in particolare, le politiche per il lavoro necessitano di essere forte-mente rimodulate all’obiettivo di aumentare l’occupabilità degli individui, sia di quelli che sono stati finora trattenuti presso il proprio posto di lavoro grazie alle estensioni della CIG, sia di quelli che hanno perso il lavoro durante questa crisi e sono andati ad aumentare le fila dei disoccupati o il già ampio bacino

degli inattivi, ovvero coloro che un lavoro non lo cercano, in qualche caso per-ché scoraggiati dalle difficoltà di trovarne uno.

Ciò implica rafforzare le politiche attive per il lavoro, quelle volte a favorire i processi di inserimento e ricollocazione al lavoro, che in Italia sono storica-mente poco finanziate, poco diversificate e ancora troppo poco coordinate a livello nazionale, nonostante gli svariati sforzi di riforma nell’ultimo decennio. Dal confronto con altri paesi europei, l’Italia può derivare alcune importanti lezioni sulle scelte da intraprendere nel rimodulare le politiche per il lavoro, sia per rafforzare l’uscita da questa crisi sia per affrontare debolezze strutturali che affliggono il nostro mercato del lavoro.

Non solo integrazione salariale, ma anche offerta formativa a lavoratori coin-volti in CIG

Come già discusso, i paesi europei, inclusa l’Italia, hanno risposto all’emergen-za sanitaria e alle conseguenti chiusure/restrizioni di attività con estensioni molto ampie dei propri programmi di Short Time Compensation, che garanti-scono integrazioni salariali ai lavoratori coinvolti da riduzioni parziali o totali dell’orario di lavoro. Lo sforzo europeo, rivolto a preservare posti di lavoro, è stata una strategia efficiente in risposta allo scoppio dell’emergenza sanitaria, che ha imposto una fase transitoria di sospensione forzata delle attività lavo-rative. Evitando gli esuberi, infatti, si sono preservati anche la capacità pro-duttiva e il capitale umano delle imprese e dell’economia nel suo complesso, rendendo il sistema immediatamente pronto a cogliere la ripartenza: come in effetti è avvenuto nel terzo trimestre 2020, con un allungamento immediato degli orari di lavoro di pari passo alla ripresa dei livelli di attività.

Con l’allungarsi della crisi e, soprattutto, con l’ampliarsi delle differenze tra set-tori (e tra imprese) nella velocità e probabilità di ritornare sui livelli di attività precedenti, diventa tuttavia sempre più urgente rivedere i programmi STC. I governi, d’altronde, non possono sostenere l’occupazione e i salari per un pe-riodo prolungato. Il capitale e i lavoratori dei settori e delle imprese danneggiati dovranno spostarsi verso quelli in espansione. Tali transizioni sono difficili e raramente si verificano abbastanza velocemente da impedire l’aumento dei fal-limenti e delle ristrutturazioni aziendali. Le politiche economiche devono quindi accompagnare la transizione, consentendo rapidi processi di ristrutturazione delle imprese, fornendo reddito ai lavoratori tra un lavoro e l’altro, e formazione alla manodopera in esubero e in transizione verso nuovi posti di lavoro.

Il rafforzamento delle competenze dovrebbe essere rivolto anche ai lavoratori coinvolti da programmi STC, per i quali, via via che si prolunga il periodo di ridu-zione (talvolta totale) dell’orario di lavoro, aumenta il rischio di ricollocaridu-zione ad altre mansioni, dentro la stessa impresa o in altra, dello stesso o altro settore. Un esempio in questa direzione viene dalla Francia, dove le imprese che ab-biano sospeso o ridotto l’attività a causa dell’emergenza sanitaria sono state incoraggiate a fornire formazione ai propri dipendenti utilizzando un sussi-dio speciale per il training (FNE-Formation), tipicamente rivolto a imprese in ristrutturazione che necessitano di re-indirizzare e/o rafforzare le competenze della forza lavoro. In particolare, per piani di formazione depositati entro il 31 ottobre 2020, lo Stato francese ha coperto il 100% dei costi. Da quella data in avanti la copertura è scesa al 70% (80% per i lavoratori in chomage

partiel-lon-gue durée, una declinazione del programma che, con certi vincoli, estende la

possibilità per le imprese di accedervi per ulteriori 24 mesi da luglio 2020). Quella francese è un’iniziativa che suggerisce una strada percorribile anche per altri paesi, inclusa l’Italia, ovvero quella di promuovere, in periodi di sospensioni prolungate dell’attività, il coinvolgimento della forza lavoro in corsi di training (eventualmente online), al fine di facilitarne le opportunità lavorative anche all’in-domani della crisi, a fronte di quelle trasformazioni tecnologiche e del tessuto produttivo in atto, incluse quelle innescate o accelerate dall’attuale situazione.

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Ampliare la spesa per politiche attive del lavoro, strutturalmente bassa in Italia Nel 2018 l’Italia ha speso lo 0,42% del PIL in politiche attive del mercato del lavoro, al di sotto della spesa media tra i paesi dell’Eurozona (0,54% del PIL), pur avendo un tasso di disoccupazione più elevato (10,6% verso 8,1% tra i 15-74 anni). Ciò indica che il Paese investe relativamente poco in misure attive per disoccupato rispetto alla media europea. Il gap è ancor più ampio rispetto ad alcuni dei principali paesi dell’Area (nel 2018 la Germania ha speso lo 0,68% del PIL in politiche attive, con un tasso di disoccupazione del 3,4%) e se si considera il basso tasso di attività in Italia (nel 2019 il 57,3% tra i 15-74 anni, contro il 70,4% in Germania; Grafico 2.23).

Spesa per politiche attive Spesa per politiche passive

0,0 0,2 0,4 0,6 0,8 1,0 1,2 1,4 1,6 1,8 2,0 0,0 0,2 0,4 0,6 0,8 1,0 1,2 1,4 1,6 1,8 2,0 Francia Spagna Germania

Italia Eurozona* Germania Eurozona** Italia Spagna Francia

Grafico 2.23

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