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Diritto all’informazione e tutela della riservatezza

3.2 Il trattato di Prüm

3.2.6 Diritto all’informazione e tutela della riservatezza

Il principio di compenetrazione reciproca tra diritto alla protezione dei dati personali ed esigenze di accertamento dei reati è fatto proprio dalla decisione 2008/615/GAI. Le disposizioni inerenti la protezione delle informazioni personali sono contenute infatti in un insieme di norme collocate successivamente rispetto a tutte le fattispecie regolanti la trasmissione di dati contemplati dal provvedimento; ciò a conferma che le norme a tutela dei dati personali, parrebbero applicabili a tutti gli scambi di informazioni, sia spontanei che a richiesta, previsti dalla decisione e nell’ambito della trasmissione dei dati DNA ad entrambe le fasi del sistema del doppio binario informativo disciplinato dagli artt. 2 e seguenti.

In particolare l’art 25 subordina l’applicabilità dei meccanismi di scambio di informazioni a due condizioni: che le legislazioni degli Stati membri rispettino gli standard di garanzia offerti dalle fonti di diritto internazionale vigenti in materia e particolarmente, la convenzione del Consiglio d’Europa del 28 gennaio 1981, il relativo protocollo dell’8 novembre 2001, nonché la raccomandazione n° R(87) 15 del Comitato dei Ministri del

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Consiglio d’Europa; per altro verso, che i Paesi membri abbiano dato attuazione interna alle norme sulla protezione dei dati contenute nel capo 6 della decisione, assegnando così una posizione prioritaria alle disposizioni a tutela della privacy rispetto all’attuazione dello scambio di informazioni, garantendone, parimenti, l’effettività.

Pe quanto attiene la disciplina relativa alla protezione dei dati, il quadro normativo si propone di garantire il diritto soggettivo della persona interessata alla tutela delle informazioni personali, sia nella prospettiva della “autodeterminazione”, assicurando al soggetto la possibilità di controllare la veridicità, l’aggiornamento, la circolazione e l’uso delle informazioni che lo riguardano, sia nella componente della riservatezza, prescrivendo l’esclusione di alcuni dati dalla categoria delle informazioni accessibili e assicurando il riconoscimento del diritto alla cancellazione del dato.100

L’art 31 delle decisione indica un catalogo di diritti di informativa e di impulso all’autorità competente, che si aggiungono alla facoltà del soggetto, prevista dall’art. 28, di

100

A. BALDASARRE, Diritti inviolabili, in enciclopedia giuridica Treccani 1989; C. FANUELE, Un archivio centrale

per i profili del DNA nella prospettiva di un diritto comune europeo, in Diritto penale e processo 2007 p.385 e

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richiedere allo Stato di verificare la correttezza e l’aggiornamento dei dati oggetto di trasmissione, al fine di operarne la rettifica, la cancellazione o l’apposizione del contrassegno, nonché alla possibilità di adire ai sensi dell’art. 39, l’autorità nazionale al fine di attivare il procedimento di controllo sulla legittimità delle trasmissioni. In particolare l’art. 31 garantisce alla persona coinvolta, il diritto di conoscenza riguardo le notizie a lui relative, nonché il diritto di ottenere la rettifica e la correzione dei dati errati o trattati illecitamente. In caso dei violazione dei diritti di protezione, il soggetto interessato potrà adire sia un tribunale indipendente e imparziale, come previsto dall’art. 6 CEDU sia un’autorità indipendente di controllo ai sensi dell’art. 28 della direttiva 95/46/CE, relativa alla tutela dei dati personali e loro circolazione, potendo ottenere una riparazione in forma specifica o un risarcimento per equivalente.

Per quanto attiene la regola in base alla quale il dato può essere trasmesso solo per uno scopo determinato stabilito dall’art. 36, essa però parrebbe trovare un’ attuazione solo parziale e in quanto tale, non conforme ai parametri regolanti lo scambio di informazioni di cui all’art. 34 del Trattato dell’Unione e più in generale dei diritti fondamentali previsti dalla Carta dei diritti

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fondamentali dell’Unione europea. Infatti tale previsione è derogabile da parte del legislatore interno, senza che l’operatività della deroga venga circoscritta a casi e modi tassativi. Ciò comporta che la discrezionalità degli Stati, seppur vincolata all’autorizzazione da parte dello Stato emittente e al rispetto della legislazione dello Stato ricevente, consente che la “circolarità” del dato venga di fatto lasciata intatta.

Inoltre il testo del 2008 dedica un’ampia previsione normativa al tema della genuinità del dato, ma la qualità dell’informazione viene misurata esclusivamente in rapporto ai parametri della esattezza e dell’aggiornamento, senza che vengano menzionate le caratteristiche dell’adeguatezza, pertinenza e non eccessività che sono invece considerate espressamente nelle Convenzione n° 108 del 1981.

Infine si prevede un sistema di controllo ex post con esclusione di qualsiasi previsione volta a consentire una verifica in via preventiva circa la sussistenza dei presupposti di legittimità della trasmissione che consentirebbe invece, di realizzare un maggior grado di tutela dell’informazione di carattere personale e sensibile.

109 CONCLUSIONI

Il grado di integrazione differenziata, nella sua componente interna, è notevolmente cresciuto a partire dal trattato di Maastricht ed ha ricevuto un ulteriore incremento dopo il trattato di Lisbona. Questo ampliamento è dovuto alla creazione di nuovi modelli di differenziazione che hanno accresciuto la sua portata e reso più accessibile anche lo strumento della cooperazione rafforzata. Le circostanze a cui tutto ciò è riferibile vengono riscontrate nella crisi economica europea dell’ultimo decennio e in particolare nell’esigenza del suo superamento. Infatti i maggiori esempi di integrazione differenziata sono stati applicati nel settore dell’unione economica e monetaria europea. In questo contesto è sorta anche la seconda componente dell’integrazione differenziata, quella “esterna”, cioè adoperata mediante strumenti che esulano dall’ordinamento dell’Unione europea e caratterizzata da un impulso diretto degli Stati membri, che si fanno promotori di accordi internazionali a discapito dell’iniziativa delle istituzione dell’Ue, come avviene nella differenziazione interna. Il ricorso a questa seconda componente della integrazione differenziata è dovuto all’assenza di strumenti ritenuti idonei, all’interno dell’ ordinamento dell’ Unione, per

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risolvere in maniera celere ed efficace la crisi di tali settori, avvalendosi soprattutto della possibilità di coinvolgere un numero più ristretto di Stati, rendendo più rapida la ratifica del trattato. Inoltre si è avuto così, la possibilità di evitare eventuali veti, di altri Stati, alla modifica dei Trattati istitutivi e ad un’ ulteriore cessione di sovranità da parte di essi. Esempi di ciò sono trattati come il MES e il TSCG, accordi conclusi tra Stati dell’Unione in maniera c.d. “parziale”, cioè coinvolgenti solo una parte di essi.

Dall’analisi di quest’ultimi si giunge a evidenziare quelli che sono i tratti caratteristici dell’integrazione differenziata “esterna” e le problematiche di questo sistema, che avendo forti elementi di connessine con il diritto dell’Unione, porta a degli interrogativi circa: la sua compatibilità con tale diritto, i limiti che sono posti a tale tipo di integrazione e infine l’uso che gli Stati membri fanno delle istituzioni dell’Unione all’interno di tali accordi di tipo internazionale.

I punti di connessione suddetti, sono rappresentati dalle clausole, presenti in questi Trattati101, che sanciscono un obbligo di interpretazione delle loro disposizioni consona ai Trattati

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istitutivi e alle norme secondarie dell’Unione e di una loro riconduzione all’interno dell’ordinamento Ue, come avvenuto per il TSCG102 e per il Trattato di Prüm103.

Questi punti di contatto con l’ordinamento dell’Unione e il fatto che spesso, le funzione svolte da tali accordi internazionali, in quanto riproduttivi di norme già presenti nel diritto Ue, sono già svolte autonomamente dalle Istituzioni europee, ci forniscono una soluzione alla prima problematica suddetta, poiché evidenziano la compatibilità dello strumento dell’integrazione differenziata “esterna”, con l’ordinamento dell’Unione.

L’individuazione dei limiti dell’applicazione della differenziazione esterna vanno riscontrati, prima che all’interno del diritto internazionale, nei principi desumibili dall’ordinamento dell’Unione e in particolare dal rapporto che intercorre fra esso e gli Stati membri.

Un primo limite può essere individuato dal sistema delle competenze; infatti agli Stati membri è vietato concludere accordi internazionali tra loro, in materie di competenza esclusiva dell’Unione, salvo i casi particolari in cui sia essa

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Art. 16 TSCG

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stessa ad autorizzare tali soggetti ad agire in questi ambiti o singolarmente o per dare attuazione agli atti Ue, nei casi previsti dall’art. 2, par. 1, seconda parte TFUE. Ciò non accade nei settori di competenza concorrente fra Unione e Stati, in quanto in tali materie è data la possibilità ai Paesi membri di esercitare collettivamente la propria competenza.

Un secondo limite è individuato dal primato del diritto dell’Unione sul diritto interno, che garantisce la sua supremazia sia sugli accordi stipulati precedentemente alla creazione del sistema comunitario, sia su quelli successivi. Al riguardo è infatti sancito che sono vietati tutti quegli accordi che vadano a derogare o modificare i Trattati istitutivi e come ampiamente chiarito dalla giurisprudenza della Corte, agli Stati membri, è vietato derogare anche all’intero diritto derivato.

Un terzo limite è individuato nel principio di leale cooperazione. In primo luogo, perché esso sancisce l’obbligo per gli Stati membri di collaborare alla realizzazione degli obiettivi dei Trattati agevolando l’applicazione del diritto dell’Unione. In secondo luogo, poiché, essendo esso in grado di condizionare e limitare il potere degli Stati membri singolarmente, è di conseguenza capace di incidere anche sul loro potere di

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concludere accordi di diritto internazionale. In particolare il principio di leale cooperazione è una autonoma fonte di obblighi per gli Stati membri, in grado di inibire la conclusione di quegli accordi internazionali che vadano a creare un’interferenza con le norme dell’ordinamento dell’Unione in ambito di competenza concorrente, quando vi sia già in essere un’azione comune o per lo meno una strategia comune.

Infine, un quarto limite è individuato nel principio di sussidiarietà, il quale opera in due direzioni: da un lato limitando l’azione degli Stati membri, quando gli obiettivi previsti sono meglio raggiungibili a livello di Unione, ex art 5, par 3, TUE (tale principio opera in concomitanza con quello di leale cooperazione); dall’altro lato, il principio di sussidiarietà, fa si che, solamente nelle ipotesi in cui l’Unione non offra una soluzione adatta, si possa ricorrere allo strumento dell’accordo internazionale, in particolare nei casi in cui: l’Unione non sia in grado di raggiungere il consenso per l’adozione di un atto necessario, a causa di divergenze fra gli Stati membri; la materia in cui si interviene abbia una portata limitata o coinvolga solamente alcuni Stati membri; l’Unione abbia una competenza limitata al sostegno, al coordinamento e al completamento

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dell’azione degli Stati membri in ambito di turismo, cultura o istruzione. In tutti gli altri casi l’azione di concerto dell’Unione, deve quindi essere preferita in nome proprio della sussidiarietà.

Una delle maggiori problematiche riscontrate nel ricorso ad accordi internazionali fra gli Stati membri, consiste nella possibilità che quest’ultimi hanno, mediante questo strumento, di conferire compiti specifici ad istituzioni dell’Unione. Questo qualità caratterizza in special modo i due trattati MES e TSCG.

Nel primo, si dà il compito alla Commissione europea sia di valutare le richieste di sostegno sia, di concerto con la BCE, di negoziare un’intesa con lo Stato richiedente e di verificarne il rispetto delle condizioni. Mentre sono affidate alla Corte di Giustizia europea le contestazioni riguardanti le decisioni, prese dal Consiglio dei Governatori, sulle controversie tra il MES e i suoi membri o fra di essi in ambito di interpretazione e applicazione del Trattato.

Nel secondo, ruoli di spiccata importanza, sono attribuiti alla Commissione e al Consiglio e alla Corte europei. Alla Commissione sono affidati i compiti di proporre il quadro temporale e i principi comuni sulla base dei quali opererà il

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Meccanismo e di concerto con il Consiglio, quelli di determinare la procedura per i disavanzi ex art. 4 TSCG e di approvare il programma di partenariato economico e di bilancio presentato dallo Stato soggetto alla precedente procedura. Sempre in tale ambito, la Commissione può dettare le misure necessarie per gli Stati membri, che divengono obbligatorie in caso di mancata opposizione della maggioranza dei contraenti. Infine, sempre alla Commissione, è affidato il ruolo di presentare una relazione sulla regola del pareggio di bilancio e sul meccanismo di correzione. La Corte di Giustizia europea ha invece il compito di pronunciarsi sulla violazione dell’obbligo, ex art. 3, par. 2, TSCG, riguardante l’introduzione della regola del pareggio di bilancio a livello costituzionale.

Pare dunque evidente che le istituzioni dell’Unione svolgano un ruolo essenziale negli accordi in esame, in quanto l’ efficacia di questi ultimi dipende dai poteri che vengono loro attribuiti in ambito di controllo sul rispetto degli impegni presi dagli Stati membri.

La facoltà di attribuire alle Istituzioni simili poteri contribuisce a raccordare il diritto dell’Unione e i suddetti Trattati, rispetto alla creazione di organi ad hoc. Naturalmente

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ciò non è esente da problematiche quali: la compatibilità di tale prassi con i Trattati istitutivi e l’individuazione degli obblighi che le istituzioni devono rispettare in base agli accordi degli Stati membri.

Con riguardo alla prima problematica la giurisprudenza104 della Corte negli anni, ha sancito che gli Stati membri conservano la capacità di affidare compiti “esterni” alle istituzioni dell’Unione in materie non rientranti nella competenza esclusiva della stessa e, sempre che tali conferimenti non snaturino le attribuzioni che i Trattati istitutivi conferiscono a queste istituzioni.

Con riguardo alla seconda problematica si fa sempre riferimento al fatto di non snaturare le funzioni e i compiti attribuiti dai trattati Istitutivi a tali istituzioni, affermando la necessaria compatibilità con il diritto dell’Unione. In particolare viene affermata la non vincolatività degli accordi fra Stati membri, per le istituzioni dell’Unione interessate, che quindi non sono obbligate a rispettare i compiti che vengono loro affidati ed anzi, laddove li svolgano , esse debbono farlo in modo da non

104 Caso Bangladesh e caso Pringle

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pregiudicare l’equilibrio istituzionale e la propria efficacia sul piano interno.

Per concludere un’ultima questione da affrontare rimane quella se, gli Stati membri, siano liberi o meno di effettuare accordi internazionali tra loro, qualora i medesimi obiettivi siano raggiungibili attraverso una cooperazione rafforzata. L’integrazione differenziata “esterna” risulta più appetibile rispetto agli strumenti di differenziazione interni all’ordinamento dell’Unione, e in particolar modo rispetto alla cooperazione rafforzata in quanto è un’alternativa meno vincolata che può essere effettuata qualora l’accordo verta su una materia di competenza concorrente tra Unione e Stati membri, ma nel caso in cui le condizioni per attuare la cooperazione rafforzata siano eccessivamente restrittive.

Una dottrina minoritaria ritiene che la facoltà degli Stati membri di concludere fra loro accordi internazionali sia limitata alle sole materie nelle quali non è possibile ricorrere alla cooperazione rafforzata; tale tesi non è condivisibile in quanto sia l’art.20, par. 1, TUE, sia considerazioni di ordine sistematico, indicano che i Trattati configurano il ricorso alla cooperazione

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rafforzata come una facoltà e non come un obbligo105. In ogni caso un limite al potere degli Stati membri di ricorrere a forme di cooperazione esterne ai trattati potrebbe derivare dal principio di leale cooperazione: si potrebbe sostenere che gli Stati membri vi possano ricorrere, nelle materie di competenza concorrente solo dopo aver tentato invano di raggiungere il medesimo obiettivo a mezzo della cooperazione rafforzata. Anche se è comunque non semplice individuare il significato concreto di “aver tentato invano”, tuttavia tale interpretazione rispecchia la prassi degli Stati membri, i quali in generale preferiscono il ricorso al diritto dell’Unione rispetto a strumenti esterni.

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