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DISCUSSIONE E CONCLUSIONI

In questo studio abbiamo riportato i dati riguardanti 78 pazienti con infezione primaria da HIV ricoverati o seguiti presso gli ambulatori dell’Unità Operativa di Malattie Infettive dell’Ospedale Cisanello di Pisa: 69 tra il 2000 ed il 2007 e 9 tra il 1993 ed il 1999.

Nel nostro studio abbiamo osservato come l’infezione abbia colpito maggiormente il sesso maschile rispetto a quello femminile, dato conforme a quanto riportato da altri studi volti a valutare la distribuzione dell’infezione nella popolazione mondiale; l’unica eccezione è rappresentata dall’Africa subsahariana, dove l’infezione colpisce prevalentemente le donne (UNAIDS, 2006).

Oggi la più diffusa modalità di trasmissione dell’infezione nel mondo è rappresentata dai rapporti sessuali, anche se la distribuzione geografica dei casi attribuibili alla trasmissione omosessuale ed eterosessuale è molto varia (UNAIDS, 2006).

Nel nostro studio i rapporti eterosessuali sono risultati essere il principale fattore di rischio per l’infezione, come del resto è stato osservato in tutti i paesi dell’Europa centro-occidentale, oltre che nell’Africa subsahariana e nelle isole caraibiche (UNAIDS, 2006; Kinloch-de Loes et al., 1993).

L’epidemiologia dell’infezione è andata modificandosi progressivamente nel tempo: negli anni ’80 e nella prima metà dei ’90, in Italia i tossicodipendenti cosituivano i due terzi dei casi segnalati, mentre oggi rappresentano meno del 10% della popolazione interessata dall’infezione (Moroni et al., 2004; UNAIDS, 2006). Il nostro studio, pur comprendendo un limitato numero di pazienti è in linea con questi dati e riporta la tossicodipendenza come fattore di rischio solo in 4 casi (5% della popolazione esaminata).

Oggi la condivisione di aghi infetti tra tossicodipendenti rappresenta la principale modalità di trasmissione dell’infezione in paesi in cui il virus sembra

aver fatto il suo ingresso più recentemente: Cina, India, Sud-Est asiatico, Medio Oriente ed Europa dell’Est. In queste regioni circa i due terzi dei casi d’infezione sono dovuti allo scambio di siringhe infette. All’ampia diffusione dell’infezione nelle comunità di tossicodipendenti contribuiscono senza dubbio le resistenze e/o difficoltà incontrate in questi paesi da programmi di prevenzione, come quello che prevede lo scambio delle siringhe (Qian et al., 2006; UNAIDS, 2006) oltre che la scarsa diffusione dell’informazione circa le modalità di contagio.

I rapporti omosessuali, responsabili del 26,9% dei casi d’infezione nella popolazione esaminata dal nostro studio, sono risultati essere il secondo fattore di rischio. Questo dato rispecchia quanto osservato negli altri paesi dell’Europa centro-occidentale (UNAIDS, 2006).

Nelle prime fasi di diffusione dell’infezione, nell’America del Nord, nell’Europa occidentale, in Australia e Nuova Zelanda l’omosessualità costituiva il principale fattore di rischio (70% dei casi d’infezione), mentre la diffusione tra gli eterosessuali era molto limitata. Attualmente questa situazione sta cambiando: sebbene negli Stati Uniti, in Canada, in Australia e Nuova Zelanda i rapporti omosessuali rappresentino ancora la più diffusa modalità di contagio, la malattia si sta ampiamente diffondendo tra gli eterosessuali, che oggi costituiscono più del 35% della popolazione interessata dall’infezione (USA Center for Disease Control and Prevention, 2006; UNAIDS, 2006). Nei paesi dell’Europa occidentale la situazione si è addirittura ribaltata: oggi gli omosessuali rappresentano solo un terzo dei casi d’infezione, mentre in più della metà dei casi il contagio avviene per via eterosessuale (EuroHIV, 2006; UNAIDS, 2006).

Attualmente i rapporti sessuali tra uomini costituiscono sicuramente il principale fattore di rischio nei paesi dell’America Latina (fatta eccezione per l’Argentina), dove l’omosessualità viene nascosta e stigmatizzata e non esistono

programmi di prevenzione dell’infezione tra gli omosessuali (Cohen, 2006; UNAIDS, 2006).

Circa i due terzi dei pazienti esaminati nel nostro studio presentavano segni e sintomi attribuibili ad una sindrome retrovirale acuta. La maggior parte delle manifestazioni cliniche rilevate erano simili a quelle descritte in studi precedenti (Cooper et al., 1985; Gain set al., 1988; Kinloch-de Loes et al., 1993; Quinn, 1997; Kahn et al., 1998; Daar et al., 2001; Hecht et al., 2002): febbre, faringodinia, malessere, astenia, rash cutaneo, epatosplenomegalia e linfoadenopatia generalizzata. Meno comuni erano cefalea, tosse, mialgia, sudorazione notturna, nausea, diarrea, vomito, dolori addominali, ulcere genitali. In un quinto dei casi da noi esaminati, dato concorde con quanto riportato in altri studi (Tindall et al., 1988; Bollinger et al., 1997; Daar et al., 2001), la gravità delle manifestazioni cliniche era stata tale da richiedere la necessità di un ricovero.

L’analogia delle manifestazioni cliniche della sindrome retrovirale acuta con altre patologie infettive, come influenza, mononucleosi infettiva, toxoplasmosi, rosolia, infezione da CMV, sifilide secondaria, pone il problema della diagnosi differenziale, che dovrebbe basarsi su un’attenta valutazione dei fattori di rischio, uno scrupoloso esame obiettivo ed analisi di laboratorio mirate. Un attento esame della cavità orale, della cute e dei genitali potrebbe essere estremamente utile nella diagnosi di infezione acuta da HIV. Infatti, le ulcere orali che si possono osservare nel corso di una sindrome retrovirale acuta sono particolarmente diffuse nella cavità orale, coinvolgendo, in genere, lingua, mucosa geniena, gengive e palato.

Il 16% dei pazienti da noi esaminati presentava un rash cutaneo maculo- papuloso e la metà di questi soggetti, assieme alle lesioni cutanee, aveva ulcere genitali: l’associazione tra lesioni cutanee ed ulcere genitali sembra essere piuttosto specifica di infezione primaria da HIV (Kinloch-de Loes et al., 1993).

Due pazienti da noi valutati presentavano segni, sintomi ed anomalie radiologiche attribuibili ad una polmonite; per uno dei due si era reso necessario il ricovero. L’interessamento polmonare nel corso dell’infezione acuta non è un evento molto frequente (Kieff et al., 1989; Longworth et al., 1990; Casalino et al., 1991) ed è probabilmente dovuto ad una grave, ma transitoria, immunosoppressione: nei due terzi dei pazienti da noi valutati, infatti, la sintomatologia respiratoria si accompagnava ad un numero particolarmente basso dei CD4+.

Solo due dei pazienti da noi esaminati presentavano un interessamento del sistema nervoso centrale e questo dato contrasta con la frequenza con cui sindromi neurologiche vengono descritte in letteratura (Gains et al., 1988; Sinicco et al., 1990; Simpson et al., 1992; Gray et al., 1996). Le patologie neurologiche che solitamente si presentano durante l’infezione primaria sono: meningiti, encefaliti e neuropatie periferiche. Nella nostra casistica un paziente presentava una meningite asettica, risoltasi spontaneamente pochi giorni dopo il ricovero, mentre l’altro presentava una meningomielite. In letteratura è riportato un solo caso di mielite comparsa durante la fase acuta dell’infezione (Denning et al., 1987).

Sebbene la mielite compaia generalmente in una fase tardiva dell’infezione da HIV, nel nostro paziente la diagnosi di infezione acuta era sostenuta dall’incompleta reattività anticorpale anti-HIV, valutata con Western Blot di conferma, dalla viremia piuttosto elevata e dalla situazione immunologica caratterizzata da una moderata deplezione linfocitaria. Inoltre, la buona risposta alla terapia e la ricostituzione immunologica dopo meno di tre mesi di trattamento deponevano più per un’infezione acuta, che non per un’infezione cronica.

Infine, l’infezione simultanea con altri agenti patogeni sembra essere un evento piuttosto raro (Tindall et al., 1988; Pedersen et al., 1989; Kinloch-de Loes et al., 1993); soltanto in due dei pazienti da noi esaminati era stata

diagnosticata una coinfezione: un’epatite acuta B in un caso ed un’uretrite gonococcica nell’altro.

Generalmente la carica virale di HIV-1 al momento della diagnosi di sindrome retrovirale acuta è molto alta, superando le 100000 copie/ml e raggiungendo, in alcuni casi, valori superiori a 106

copie/ml (Henrad et al., 1994; Zetola et al., 2006); raramente sono stati riscontrati valori di viremia inferiori alle 10000 copie/ml (Hecht et al., 2002). Anche nel nostro studio abbiamo riscontrato che nella maggior parte dei casi la viremia basale era superiore a 105

copie/ml, raggiungendo in otto casi valori superiori a 106

copie/ml. Tra i 78 pazienti da noi esaminati bisogna segnalare un caso di esordio dell’infezione acuta con una viremia al di sotto del limite di rilevabilità del test: potrebbe trattarsi di un’infezione con un isolato virale non rilevato dai sistemi diagnostici disponibili in commercio oppure di un’infezione con decorso virologico particolare, in relazione a caratteristiche intrinseche dell’ospite (Fellah et al., 2007).

Il nostro studio, in accordo con i risultati riportati in precedenti pubblicazioni (Cooper et al., 1987; Gains et al., 1990), ha rilevato come l’infezione acuta, oltre ad essere caratterizzata da un’elevata carica virale, si associ anche ad una riduzione nel numero e nella percentuale dei linfociti T CD4+, ma dai dati in nostro possesso non emerge alcuna associazione statisticamente significativa (P≥0,05) tra l’entità della carica virale durante la fase acuta dell’infezione ed il grado di deplezione dei linfociti T CD4+ basali. Alcuni lavori hanno però dimostrato come la carica virale basale sia in grado di condizionare la riduzione dei CD4+ in una fase tardiva dell’infezione, condizionando così la progressione a lungo termine della patologia (Bruiste et al., 1997; Mellors et al., 1997; Giorgi et al., 2002; Mellors et al., 2007).

Il nostro studio ha rilevato come la viremia basale sia in grado di condizionare la rapidità di risposta al trattamento antiretrovirale; infatti, mentre i pazienti che presentavano una viremia basale inferiore alle 105

erano più viremici entro tre mesi dall’inizio del trattamento, quelli che avevano una carica virale basale superiore alle 105

copie/ml raggiungevano valori di viremia inferiori alle 50 copie/ml dopo sei mesi di terapia. Comunque, la maggior parte dei pazienti da noi esaminati raggiungeva valori di viremia inferiori alle 50 copie/ml associati ad una buona ricostituzione immunologica (la media dei CD4+ aumentava progressivamente a tre e sei mesi dall’inizio della terapia) entro 48 settimane dall’inizio del trattamento, indipendentemente dallo schema terapeutico utilizzato, dalla carica virale e dal numero dei CD4+ basali. (Figure V.7 e V.8). Questi risultati sono sovrapponibili a quelli evidenziati da altri studi volti a valutare gli effetti immunologici e virologici di una terapia antiretrovirale iniziata precocemente (Desquilibet et al., 2002; Hecht et al., 2006). Questi studi dimostrano come l’HAART iniziata durante l’infezione primaria sia in grado di ridurre la carica virale ed aumentare la conta dei CD4+ per tutta la durata del trattamento, ma i benefici a lungo termine di una terapia antiretrovirale iniziata nella fase acuta dell’infezione sono ancora oggetto di discussione. Sebbene alcuni lavori (Kinloch-de Loes et al., 1995; Niu et al., 1998) dimostrino come il trattamento precoce sia in grado di ridurre la deplezione dei linfociti T CD4+ che si realizza nel corso dell’infezione acuta, rallentando così la progressione della malattia negli anni successivi, studi recenti (Desquilibet et al., 2002; Hecht et al., 2006) suggeriscono che tali benefici immunologici verrebbero meno entro un anno dalla sospensione della terapia. Seguire nel tempo i pazienti sottoposti a terapia antiretrovirale a partire dalla fase acuta dell’infezione ci permetterebbe di valutare le conseguenze a lungo termine dell’HAART e di verificare l’effettiva capacità della terapia di ritardare la progressione della patologia e la comparsa di AIDS, ma ciò esula dall’obiettivo del nostro studio.

Nonostante la maggior parte degli isolati virali dei pazienti da noi valutati presentasse numerosi polimorfismi a carico del gene pol, soltanto il 5,8% dei pazienti esaminati presentava un’infezione sostenuta da varianti virali con una o

più mutazioni correlabili a ridotta risposta alla terapia antiretrovirale. Questi risultati sono differenti da quelli riportati in altri lavori che riferiscono che dal 9 al 21% delle nuove infezioni in Europa sono sostenute da varianti virali farmacoresistenti (Balotta et al., 2000; Yerly et al., 2001; Wensing et al., 2005). Questa differenza potrebbe dipendere dal ridotto numero di casi da noi esaminati e dal fatto che i nostri pazienti provengano da un’area geografica limitata; infatti gli studi citati fanno riferimento ad isolati virali provenienti da diverse aree geografiche.

Le mutazioni riscontrate nei pazienti da noi esaminati erano associate a resistenza nei confronti degli NRTIs e dei PIs. In contrasto con quanto osservato in altri studi (Wensing et al.,2005; Fox et al.,2006), non si rilevavano resistenze nei confronti degli NNRTIs. Tali lavori evidenziano come, sebbene nei primi anni dopo l’introduzione della terapia antiretrovirale il livello di resistenza nei confronti degli NRTIs fosse molto alto, questa resistenza si sia andata progressivamente riducendo a partire dall’introduzione dell’HAART, in concomitanza con un aumento delle resistenze nei confronti degli NNRTIs (Wensing et al.,2005). Inoltre, lo studio di Wensing et al. sottolinea come il tasso di mutazioni associate a farmacoresistenza sia maggiore negli isolati di sottotipo B rispetto ai non-B. Nel nostro studio abbiamo potuto osservare come solo una mutazione fosse presente in un sottotipo non-B, mentre tutte le altre comparivano in isolati di sottotipo B. Queste differenze nel tasso di mutazioni dei sottotipi B e non-B sono probabilmente dovute al fatto che l’esposizione dei sottotipi non-B ai farmaci antiretrovirali è stata meno prolungata, dal momento che la diffusione di ceppi non-B in Europa ed in Nord America è un fenomeno piuttosto recente.

Infine, il nostro studio mette in evidenza come la prevalenza di sottotipi non- B nella popolazione esaminata sia del 28,4%, dato che conferma l’ampia diffusione dei sottotipi non-B in Italia e nell’Europa occidentale già descritta in altri studi (Snoek et al.,2004; Geretti,2006; Buonaguro et al.,2007). I sottotipi

non-B hanno iniziato a circolare in Italia a partire dal 1996 e la loro prevalenza è andata aumentando progressivamente fino a raggiungere quasi il 20%. Tra i sottotipi non-B quello maggiormente rappresentato nella popolazione da noi esaminata è il sottotipo F (17,9%), prevalente nei paesi dell’Europa dell’Est e del Sud America. Inoltre, nel nostro studio è stato riscontrato un numero considerevole di URF (5,9%); ciò indica che la coinfezione o la superinfezione da parte di diversi ceppi virali avviene con una frequenza superiore a quanto si possa supporre (Hu et al.,2005; Smith et al.,2005) e che la ricombinazione tra sottotipi diversi è un fenomeno piuttosto diffuso, mentre il successo evolutivo di una URF, consistente nel suo consolidamento in CRF, è un evento assai raro. Bisogna, inoltre, segnalare un caso di infezione sostenuta dalla variante CRF02_AG, altamente rappresentata nell’Africa centrale e due casi di infezione sostenuta dal sottotipo C, il sottotipo più rappresentato nel mondo.

La lenta introduzione e diffusione dei sottotipi non-B in Italia ed in Europa potrebbe indurre la necessità di adattare le strategie diagnostiche e terapeutiche alla nuova situazione epidemiologica.

Sezione V

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