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La storia della terapia antiretrovirale, rivolta ai pazienti affetti da immunodeficit HIV relato, inizia nel 1987, con l’approvazione da parte della Food and Drug Administration (FDA) del primo farmaco a dimostrata efficacia terapeutica: l’azidovudina (AZT). Negli anni successivi sono stati approvati ed introdotti altri agenti antiretrovirali, capaci di bloccare il ciclo replicativo di HIV. I primi regimi terapeutici utilizzati comprendevano uno o due farmaci e spesso erano destinati al fallimento, ma, a partire dal 1995, con l’introduzione dell’HAART (highly active antiretroviral therapy) , che consiste nell’associazione terapeutica di almeno tre agenti antiretrovirali, il trattamento dell’infezione da HIV ha subito una svolta radicale, con un forte incremento nella sopravvivenza dei soggetti trattati.

FARMACI ANTIRETROVIRALI

Le classi di farmaci attualmente utilizzate nella terapia dell’infezione da HIV sono quattro:

• inibitori nucleosidici e nucleotidici della trascrittasi inversa (NRTI) • inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa (NNRTI)

• inibitori della proteasi (PI) • inibitori della fusione.

Inibitori nucleosidici e nucleotidici della trascrittasi inversa

Gli analoghi nucleosidici della trascrittasi inversa inibiscono la replicazione di HIV, interferendo con la funzione polimerasica della trascrittasi inversa (RT) virale. Questi farmaci, una volta entrati nella cellula bersaglio, devono essere attivati nella forma trifosfato da parte di chinasi cellulari (Yarchoan et al., 1989). Dal momento che l’attività della nucleoside chinasi

varia a seconda della cellula bersaglio e del suo stato di attivazione, ugualmente la capacità di bloccare la replicazione virale da parte degli analoghi nucleosidici varia nei diversi compartimenti cellulari (Gao et al., 1993). Le forme trifosfato dei farmaci hanno un’elevata affinità per la trascrittasi inversa virale e competono per il legame con i substrati naturali dell’enzima. Gli analoghi nucleosidici vengono incorporati nella catena di DNA nascente, provocando il precoce arresto della sintesi del DNA (Yarchoan et al., 1989; Palmer et al., 1998).

A differenza dei nucleosidici,gli analoghi nucleotidici necessitano di sole due fosforilazioni per essere attivati e, dal momento che gli enzimi responsabili della loro attivazione sono ubiquitari, gli inbitori nucleotidici della trascrittasi inversa possono svolgere la loro attività antiretrovirale nei confronti di un maggior numero di tessuti e bersagli cellulari.

Condividendo il meccanismo d’azione, gli NRTIs hanno anche effetti collaterali analoghi. Questi farmaci possono essere associati ad iperlactatemia asintomatica e, più raramente, ad acidosi lattica sintomatica e a severa epatomegalia con steatosi (Lonergan et al., 2000; Carr et al., 2003). Tali effetti avversi possono essere dovuti alla capacità degli NRTIs di inibire la DNA polimerasi γ, coinvolta nella replicazione mitocondriale (Cui et al., 1996; Birkus et al., 2002).

L’azidovudina (3’-azido-2’,3’-dideossitimidina; AZT) è un analogo del nucleoside timidina. La forma trifosfato del farmaco è un inibitore competitivo con affinità per la trascrittasi inversa 100 volte superiore rispetto al substrato naturale dell’enzima, la deossitimidina trifosfato (dTTP). L’azione del farmaco è dovuta alla sostituzione del gruppo ossidrile in posizione 3’ del ribosio con un gruppo azide. Ciò impedisce la formazione del legame 3’-5’ fosfodiesterico con il nucleoside successivo, provocando l’arresto della trascrizione della catena di DNA nascente (Furman et al., 1986; St Clair et al., 1987).

Subito dopo l’introduzione dell’azidovudina nella pratica clinica, è stato osservato come il farmaco in vitro avesse effetti antiretrovirali sinergici con altri NRTIs, con numerosi NNRTIs e PIs (Johnson et al., 1991; Merrill et al.,1996). Successivamente è stato dimostrato che l’azidovudina, associata ad altri NRTIs e ad un NNRTI o un PI può avere un ruolo importante nell’indurre e mantenere una soppressione della carica virale e nel consentire una ricostituzione immunologica (Hammer et al., 1997; Staszewski et al., 1999; Robbins et al., 2003).

Altri farmaci appartenenti alla classe degli NRTIs sono: la didanosina (2’,3’-dideossinosina; ddI), analogo nucleosidico dell’adenosina, fosforilato nelle cellule bersaglio in dideossiadenosina trifosfato; la zalcitabina (2’,3’- dideossicitidina; ddC), la lamivudina ((-)-β-enantiomero della 2’,3’-dideossi-3’- tiocitidina; 3TC) e l’emtricitabina ([-]-2’,3’-dideossi-5-fluoro-3’-tiocitidina; FTC), analoghi della citosina; la stavudina (2’,3’-dideidro-2’,3’- dideossitimidina; d4T), analogo della timidina; l’abacacavir (ABC), analogo della guanosina. Il tenofovir (9-[-(R)-2-(fosfonometossi)propil]adenina; TDF), analogo dell’adenina, è l’unico analogo nucleotidico facente parte degli NRTIs.

La didanosina, la zalcitabina e la stavudina differiscono dai loro analoghi per la presenza di un idrogeno al posto di un gruppo ossidrile, mentre la lamivudina, l’emtricitabina e l’abacavir presentano modifiche strutturali più complesse, che non compromettono la loro affinità per la trascrittasi inversa virale.

Inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa

Gli inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa (NNRTIs) sono inibitori non competitivi, che si legano all’enzima virale utilizzando siti differenti da quelli dei nucleosidi. Una volta legatisi alla trascrittasi inversa determinano, un cambiamento conformazionale dell’enzima, rendendolo incapace di svolgere la sua funzione. Gli NNRTIs attualmente utilizzati nella

pratica clinica sono: la nevirapina (NVP), la delavirdina (DLV) e l’efavirenz (EFV).

Inibitori della proteasi

La proteasi di HIV è un enzima essenziale affinché avvenga il clivaggio della poliproteina gag e gag-pol (Greene, 1991). Numerose proteine di HIV, comprese quelle che costituiscono il core virale, la proteasi stessa, la trascrittasi inversa e l’integrasi, vengono sintetizzate come poliproteine ed hanno quindi bisogno di essere clivate dalla proteasi virale per produrre proteine mature. Gli inibitori della proteasi non necessitano di essere attivati all’interno della cellula bersaglio e sono capaci di bloccare il clivaggio delle poliproteine negli stadi tardivi del ciclo replicativo di HIV, provocando la produzione di particelle virali difettive (Deeks et al., 1997; McDonald et al., 1997).

Gli inibitori della proteasi che vengono attualmente utilizzati sono principalmente metabolizzati dal complesso enzimatico del citocromo P-450. Possono quindi interferire con il metabolismo epatico di numerosi altri farmaci, agendo come induttori o inibitori del citocromo P-450 (Piscitelli et al., 1996; Flexner, 1998; Piscitelli et al., 2001).

Molti effetti collaterali sono associati all’uso cronico dei PIs. La maggior parte degli inibitori della proteasi induce un aumento significativo dei livelli di colesterolo e trigliceridi nel sangue. Sono stati anche osservati iperglicemia e la comparsa di diabete mellito (Dube et al., 1997; Eastone et al., 1997; Dube, 2000). Una sindrome lipoatrofica, caratterizzata da perdita simmetrica del grasso sottocutaneo dalla faccia e dagli arti è stata osservata in seguito all’introduzione degli inibitori della proteasi nel regime terapeutico (Viraben et al., 1998). Nei soggetti trattati con inibitori della proteasi è anche possibile che si sviluppino depositi adiposi a livello della base posteriore del collo e dell’addome, spesso associati ad ipertrigliceridemia (Lo et al., 1998; Miller et al., 1998). Infine, in pazienti sottoposti a regimi terapeutici comprendenti inibitori della proteasi, è

stata osservata la comparsa di osteopenia, osteoporosi o osteonecrosi (Monier et al., 2000).

Gli inibitori della proteasi attualmente in uso sono: il saquinavir (SQV), il ritonavir (RTV), spesso utilizzato in associazione con altri PIs perché capace di aumentarne i livelli ematici attraverso il blocco esercitato sul citocromo P-450, l’indinavir (IDV), il nelfinavir (NFV), l’amprenavir (APV), il fosamprenavir, profarmaco dell’amprenavir, il lopinavir (LPV), disponibile solo in associazione con il ritonavir, l’atazanavir (ATV), il tipranavir (TPV) ed il darunavir (DRV), questi ultimi due recentemente approvati dalla FDA.

Inibitori della fusione

Gli inibitori della fusione sono farmaci che agiscono in una fase precoce del ciclo replicativo di HIV. Il legame del virus alla cellula bersaglio avviene attraverso l’interazione tra il complesso glicoproteico gp160 virale ed il recettore cellulare CD4. Il complesso gp160 è costituito dalla glicoproteina di superficie gp120 e dalla glicoproteina transmembrana gp41. La gp120 si lega con elevata affinità al CD4 espresso sulla superficie della cellula bersaglio. Questo legame induce cambiamenti conformazionali a carico della gp120, esponendo siti di legame precedentemente nascosti, che consentono alla glicoproteina di interagire con co-recettori, generalmente il CCR5 ed il CXCR4, presenti sulla superficie della cellula bersaglio (Cairns et al., 1998). Il legame con il co- recettore provoca ulteriori cambiamenti conformazionali a carico della gp120, che, a loro volta, consentono l’esposizione della gp41, precedentemente nascosta dalla gp120. Questo permette alle due regioni HR1 e HR2 della gp41 di interagire, consentendo l’avvicinamento tra l’envelope virale e la membrana della cellula bersaglio con la conseguente fusione tra HIV e la cellula stessa. Gli inibitori della fusione si legano alla gp41, inibendo i cambiamenti conformazionali necessari affinché la fusione avvenga.

L’unico farmaco inibitore della fusione utilizzato nella pratica clinica è l’enfuvirtide (T20). L’enfuvirtide è un peptide sintetico costituito da 36 amminoacidi che mima la struttura di parte del dominio HR2 della glicoproteina gp41 (Clavel et al., 2004). Il legame tra farmaco e HR1 blocca l’interazione tra HR1 e HR2, impedendo così la fusione tra la particella virale e la cellula bersaglio.

La necessità di somministrazione sottocutanea ed il costo elevato, limitano l’utilizzazo dell’enfuvirtide a quei pazienti la cui infezione risulti non più controllabile con le altre classi di farmaci (Rockstroh, 2004).

MECCANISMI DI RESISTENZA AI FARMACI ANTIRETROVIRALI

La terapia antiretrovirale è una terapia cronica, dalla durata indefinita, il cui scopo è quello di bloccare la progressione dell’infezione. Spesso i pazienti sono poco aderenti al trattamento o sono costretti ad interromperlo per i molteplici effetti avversi. La tossicità, la difficoltà di aderenza al trattamento, il basso livello di penetrazione dei farmaci antiretrovirali in alcuni distretti corporei ed una certa variabilità farmacocinetica individuale , soprattutto per quel che riguarda gli inibitori della proteasi (Van Heeswijk et al., 2001), possono comportare l’esposizione a regimi terapeutici subottimali, con il conseguente rischio di selezione di mutanti virali resistenti. Durante la replicazione di HIV si verificano costantemente errori nella sintesi dei genomi virali ed il virus non possiede meccanismi di verifica di trascrizione (Roberts et al.,1988; Hertogs et al., 1999). Si calcola che il tasso di mutazioni che si realizzano in vivo a carico del genoma virale sia di 10-5 per paio di basi ad ogni

ciclo replicativo (Coffin, 1995). Questo comporta il continuo prodursi di varianti virali per la pressione selettiva esercitata dai farmaci antiretrovirali. La resistenza farmacologica rappresenta uno dei principali ostacoli al successo della terapia e si instaura quando una molecola antagonista di uno specifico bersaglio

perde in parte o del tutto la sua efficacia (Deeks, 2001; Loveday, 2001; Miller, 2001; Soriano et al., 2002).

Le terapie monofarmaco selezionavano facilmente ceppi virali resistenti, mentre l’uso di associazioni di più farmaci ritarda la comparsa di varianti farmacoresistenti, dovuta al progressivo accumulo di mutazioni, capaci di ridurre l’efficacia di tutti o di gran parte dei farmaci facenti parte del regime terapeutico. Inoltre, l’insorgenza di mutazioni che riducono la sensibilità del virus ad un determinato farmaco, è in grado di diminuire l’efficacia di altri farmaci della stessa classe.

Meccanismi di resistenza agli inibitori nucleosidici e nucleotidici della trascrittasi inversa

La farmacoresistenza di HIV fu descritta già nel 1989 in pazienti sottoposti a monoterapia con AZT (Larder et al., 1989; Hertogs et al., 1999).

Le mutazioni a carico della trascrittasi inversa che conferiscono farmacoresistenza al virus, agiscono in due modi: riducendo l’affinità della trascrittasi inversa per il farmaco, con una conseguente ridotta incorporazione degli inibitori della trascrittasi inversa nella catena di DNA nascente oppure incrementando la capacità dell’enzima virale di rimuovere gli NRTIs incorporati, tramite un aumento della fosforilisi (Ren et al., 1998; Arion et al., 1998).

Un gruppo importante di mutazioni che conferiscono resistenza nei confronti degli inibitori nucleosidici o nucleotidici della trascrittasi inversa sono le NAMs (nucleoside-associated mutations), che comprendono le mutazioni M41L, D67N, K70R, L210W, T215Y o F, K219Q o E. Queste mutazioni inducono resistenza attraverso la rimozione del farmaco incorporato nella catena di DNA per fosforilisi. Le NAMs, anche se indotte dagli NRTIs timidinici, come l’azidovudina e la stavudina, e per questo motivo un tempo denominate TAMs (thymidine analogue-associated mutations), sono capaci di ridurre notevolmente

la sensibilità alla didanosina, all’abacavir ed al tenofovir (Lennerstrand et al., 2001; Mas et al., 2000).

La mutazione M184V, localizzata a livello del sito attivo della trascrittasi inversa, è in grado di ridurre la capacità dell’enzima di legarsi alla lamivudina ed all’emtricitabina e di indurre resistenza anche nei confronti dell’abacavir e della didanosina. Allo stesso tempo questa mutazione, riducendo la fosforilisi e, di conseguenza anche l’escissione del farmaco dalla catena nucleosidica virale, è in grado di aumentare la sensibilità del virus agli analoghi timidinici ed al tenofovir (Gotte et al., 2000; Neager et al., 2001).

Altri due quadri di resistenza multipla nei confronti degli NRTIs sono il complesso Q151M ed il complesso d’inserzione T69S_S (Shirasaza et al., 1995; Schmit et al., 1998). La mutazione Q151M, che comporta una ridotta affinità della trascrittasi inversa per gli NRTIs, è una mutazione piuttosto rara: si osserva infatti in meno del 5% dei soggetti trattati con NRTIs. La comparsa della mutazione Q151M è preceduta dallo sviluppo di una mutazione intermedia Q151K, poco favorevole alla replicazione virale. Inoltre il complesso Q151M comprende anche mutazioni secondarie (F116Y, A62V, V75I, F77L), che si pensa insorgano per compensare la ridotta capacità di replicazione di HIV (Shirasaza et al., 1995). Il comlplesso d’inserzione 69, molto raro, è caratterizzato dall’inserzione di due serine a livello della posizione 69 della trascrittasi inversa. Questo complesso d’inserzione tende a comparire tardivamente e si aggiunge alle NAMs già presenti (Larder et al., 1999).

Ulteriori importanti mutazioni che condizionano la sensibilità di HIV nei confronti degli NRTIs, sono la Y115F, che induce resistenza nei confronti dell’abacavir, la K65R, che provoca resistenza nei confronti della zalcitabina, della didanosina, dell’abacavir ed anche del tenofovir, la L74V, associata ad una ridotta sensibilità alla didanosina ed all’abacavir (Miller et al., 2004; Tisdale et al., 1997; Harrigan et al., 2002).

Meccanismi di resistenza agli inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa

Gli NNRTIs agiscono legandosi ad una tasca idrofobica della trascrittasi inversa, modificandone la struttura ed impedendo la polimerizzazione del DNA virale. Le mutazioni che riducono l’affinità di legame tra l’enzima ed il farmaco a livello di questa tasca idrofobica provocano resistenza (Hsiu et al., 2001). In base al sito della catena amminoacidica in cui si verifica l’alterazione, le mutazioni che conferiscono resistenza nei confronti degli NNRTIs possono essere suddivise in tre gruppi: del primo fanno parte K101Q, K103N, G106A e V108I, del secondo Y181C, Y188L o C e G190A o S, infine, del terzo P225H, M230L e P236L (Hanna et al., 2000; Demeter et al., 2000; Joly et al., 2000; Bacheler et al., 2000; Bacheler et al., 2001).

Dato che tutti gli NNRTIs interagiscono con la medesima regione della molecola della trascrittasi inversa, le singole mutazioni possono indurre resistenza crociata (Bacheler et al., 2001). Le mutazioni K103N ed Y188L, che solitamente compaiono in seguito al trattamento con efavirenz, sono le principali responsabili di resistenza crociata (Shulman et al., 2000).

A seguito di mutazioni multiple che conferiscono resistenza agli NRTIs è stata descritta un’aumentata sensibilità agli NNRTIs, definita

hypersusceptibility. Questo fenomeno si verifica dopo trattamenti protratti con azidovudina ed abacavir, è associato alla resistenza all’azidovudina e si manifesta con una rapida risposta virologica agli NNRTIs (Haubrich et al., 2002). Inoltre, Shulman et al. hanno dimostrato che i mutanti virali che presentano hypersusceptibility agli NNRTIs hanno una ridotta capacità di replicazione rispetto ai virus selvaggi (Magdalena et al., 2006).

Meccanismi di resistenza agli inibitori della proteasi

La resistenza agli inibitori della proteasi è indotta da mutazioni a carico dei 20 amminoacidi che costituiscono la tasca idrofobica della proteasi virale. Tali alterazioni riducono l’affinità di legame tra farmaco e proteasi. Altre

mutazioni non riguardano direttamente il sito attivo, ma possono causare alterazioni della catalasi enzimatica, ridotta stabilità della forma attiva della proteasi ed alterazioni della cinetica di legame degli inibitori. Le mutazioni che conferiscono resistenza agli inibitori della proteasi si possono suddividere in primarie e secondarie. Le mutazioni primarie compaiono in seguito alla selezione esercitata da un inibitore della proteasi e generalmente conferiscono resistenza solo nei confronti dello stesso inibitore utilizzato. In seguito ad una terapia prolungata HIV può indurre lo sviluppo di altre mutazioni, capaci di ridurre la sensibilità del virus nei confronti dell’intera classe di farmaci. Da sole queste mutazioni secondarie conferiscono una scarsa o nessuna resistenza agli inbitori della proteasi.

L’uso del saquinavir è spesso associato alla mutazione primaria L90M, seguita dalle mutazioni secondarie L10I, A71V, G73S. Le mutazioni indotte dal saquinavir determinano un cambiamento strutturale di tutto l’enzima, conferendo così al virus una reattività crociata nei confronti di tutti gli inibitori della proteasi (Jacobsen et al., 1996; Schapiro et al., 1999). La mutazione L90M si associa anche alla terapia con nelfinavir, anche se questo farmaco induce primariamente la mutazione D30N, verso cui gli altri inibitori mantengono una buona attività (Kemper et al., 2001). L’amprenavir si associa alla mutazione I50V, che tende a conferire resistenza anche nei confronti di lopinavir e ritonavir (Maguire et al., 2002). Il lopinavir venne introdotto in terapia per vincere la resistenza indotta dalla mutazione V82A nei confronti di ritonavir ed indinavir (Molla et al., 1996). La resistenza al lopinavir si verifica solo nel caso in cui vengano a sommarsi numerose mutazioni (Carrillo et al., 1998; Kempf et al., 1997).

Le mutazioni principali a carico della proteasi, capaci di determinare resistenza crociata nei confronti dell’intera classe di farmaci sono D30N, G48V, I50V, V82A/F/T/S, I84V ed L90M (Lorenzi et al., 1999; Condra et al., 1995).

Una delle strategie terapeutiche utilizzata per evitare il sommarsi di mutazioni capaci di determinare resistenza, è l’utilizzo di basse dosi di ritonavir in associazione con altri PIs. Il ritonavir è in grado di aumentare la concentrazione plasmatica degli altri inbitori della proteasi, con una conseguente maggiore soppressione dei ceppi virali mutanti.

Le mutazioni D30N, N88S, indotte dal nelfinavir, e V82A, indotta da indinavir e ritonavir, danno luogo al fenomeno dell’ hypersusceptibility, conferendo un’aumentata sensibilità agli altri PI (Martinez-Picado et al., 2000).

Il tripanavir ed il darunavir, inibitori di proteasi di ultima generazione, presentano profili di resistenza relativamente differenti da quelli dei precedenti farmaci della stessa classe (Naeger et al., 2007; Poveda et al., 2006).

Meccanismi di resistenza all’enfuvirtide

L’enfuvirtide, unico inibitore della fusione utilizzato nella pratica clinica, è stato incluso nei regimi terapeutici di pazienti che presentavano resistenze multiple nei confronti degli inibitori della proteasi e degli inibitori della trascrittasi. In questi soggetti trattati con enfuvirtide sono stati osservati un aumento dei linfociti T CD4+ ed una riduzione della viremia. I migliori risultati sono stati ottenuti da regimi terapeutici che comprendevano, oltre all’enfuvirtide, anche inibitori della proteasi e della trascrittasi verso cui la popolazione virale non era ancora completamente farmacoresistente (Jacob, 2004; Nelson et al., 2005; Raffi et al., 2006).

La comparsa di varianti virali che presentano resistenza nei confronti dell’enfuvirtide, con mutazioni a carico delle posizioni 36-38 della gp41, è stata osservata sia in vivo che in esperimenti condotti in vitro (Sista, 2004).

Studi recenti hanno dimostrato come la farmacoresistenza nei confronti del T20 sia associata a mutazioni a carico delle posizioni 36, 38, 40, 42 e 43 della regione HR1 della gp41 (Sista, 2004; Xu, 2005). Inoltre, in soggetti trattati con enfuvirtide, è stata messa in evidenza la comparsa della mutazione S138A

nel dominio HR2, che si sviluppa successivamente all’insorgenza delle mutazioni a carico dell’HR1. Varianti virali che presentano oltre alla N43D anche la S138A sviluppano una resistenza al T20 circa tre volte maggiore rispetto alle varianti con la sola N43D (Xu, 2005).

E’ stato osservato che i mutanti virali che presentano farmacoresistenza nei confronti dell’enfuvirtide, hanno anche una ridotta capacità replicativa. Inoltre, le alterazioni a carico del solo codone 38 sembrano essere associate al mantenimento di una buona risposta immunologica (Aquaro et al., 2006). Tale vantaggio viene però perso con la selezione di mutanti multipli, conseguente alla prosecuzione della terapia con T20 (Melby et al., 2006).

NUOVI AGENTI ANTIRETROVIRALI

La ricerca di nuovi agenti antiretrovirali è in parte orientata verso l’identificazione di nuove molecole capaci di bloccare la replicazione di HIV sfruttando meccanismi già noti, come l’inibizione della proteasi o della trascrittasi inversa ed in parte diretta verso la ricerca di molecole capaci di colpire ulteriori bersagli virali, come gli inibitori dell’integrasi.

In base al meccanismo d’azione gli agenti antiretrovirali attualmente in fase di sperimentazione, possono essere suddivisi in:

• inibitori di entrata

• inibitori della trascrittasi inversa • inibitori della maturazione virale • inibitori dell’integrasi

• inibitori della proteasi.

Inibitori di entrata

Tra gli inibitori di entrata sono stati identificati nuovi agenti capaci di legare la glicoproteina gp120 con elevata affinità, inibendo così l’interazione tra

quest’ultima ed il recettore CD4. Si tratta di proteine ricombinanti simili alle immunoglobuline umane, come ad esempio la molecola PRO-542 (Pierson et al., 2003). Altri inibitori di entrata sono il TNX-355, anticorpo monoclonale capace di legarsi al CD4, impedendo così al recettore di interagire con la gp120, le molecole KRH-3955 e KRH-3140, antagonisti del co-recettore CXCR4 ed il PRO-140 anticorpo monoclonale in grado di legarsi al co-recettore CCR5.

Alcuni studi condotti in vitro hanno evidenziato l’efficacia di due peptidi inibitori della fusione, il TRI-1144 ed il TRI-999, nel bloccare la replicazione di varianti virali resistenti all’enfuvirtide.

Gli studi condotti in vitro sull’aprepitant, un antagonista del recettore per la neurokinina-1, approvato dall’FDA per il trattamento della nausea indotta dalla chemioterapia, hanno dimostrato come questo farmaco sia in grado di ridurre l’espressione del CCR5 e quindi di inibire l’infezione da HIV sostenuta da varianti virali CCR5 tropiche (Magdalena et al., 2006).

Inibitori della trascrittasi inversa

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