• Non ci sono risultati.

Un limite del presente studio è stato senza dubbio quello del ristretto numero di pazienti arruolati (95). Per contro, esso rappresenta a livello locale la prima istantanea - aggiornata all’anno corrente - della situazione epidemiologica e gestionale riguardante le sepsi a partenza dalle vie urinarie dell’Ospedale “F. Lotti” di Pontedera. Tutta l’analisi successiva avrà come riferimento gli indicatori proposti da Hermanides et al.95 (e presentati in Tabella 4).

Il dato d’incidenza di urosepsi (4.15/100 nuovi ricoveri) non risulta facilmente confrontabile con quello di altre patologie o con lo stesso tasso riscontrato in altri ospedali ma risulta indubbiamente significativo dal punto di vista numerico.

I risultati confermano l'estrema complessità del paziente con sepsi ricoverato in Medicina Interna: infatti si tratta di pazienti generalmente anziani, con importanti comorbidità, spesso portatori di catetere vescicale o con anomalie del tratto urinario e che presentano fattori di rischio per lo sviluppo di germi resistenti ai comuni antibiotici anche a causa della loro frequentazione dell'ambiente ospedaliero o delle strutture residenziali di assistenza.

L’86.3% dei pazienti presi in esame aveva almeno un fattore di rischio ORENUC e il 50% aveva almeno un fattore di rischio predisponente lo sviluppo di infezioni antibiotico- resistenti perché associate alle pratiche assistenziali. Ventitré pazienti presentavano anamnesi positiva per insufficienza renale di vario grado ma il GFR (calcolato con le CKD- EPI e sMDRD) è risultato alterato in altri 36 pazienti (Grafico H in Appendice). Anche in considerazione di tutto ciò, il tasso di mortalità si è attestato a 8.4 casi/100 pazienti con urosepsi.

Il concetto che emerge è proprio quello di soggetti “fragili”. Negli ultimi anni è stato dedicato molto spazio nelle letteratura scientifica a questo argomento, ma ancora non è stato raggiunto pieno accordo riguardo i criteri più corretti per identificarlo. Esiste, invece, accordo nel ritenere la fragilità uno stato biologico età-dipendente, caratterizzato da ridotta resistenza agli stress, secondario al declino cumulativo di più sistemi

70

fisiologici100 e correlato a pluripatologia, disabilità, rischio di istituzionalizzazione e mortalità101. Per la persona fragile l’ospedalizzazione, indipendentemente dalla gravità dell’evento che l’ha determinata, è un significativo fattore di rischio di esiti avversi (complicanze post-operatorie, prolungata degenza, istituzionalizzazione post-ricovero)102- 104

e alcuni autori hanno rilevato che l’ospedalizzazione è un fattore ostacolante il recupero da una condizione accertata di fragilità ed è anche un fattore aggravante della fragilità stessa105.

Per quanto riguarda la gestione dei pazienti con urosepsi sono emersi dati sfaccettati con luci ed ombre. Basti pensare che solo al 18% dei pazienti con questo quadro è stato eseguito un prelievo per urinocoltura e/o emocoltura in PS. 82 pazienti non hanno eseguito alcun prelievo in PS, o comunque i campioni prelevati si sono persi nel percorso verso il laboratorio microbiologico: per 35 di questi (37% del totale) il motivo era da ricercare o nel quadro clinico del paziente, che non suggeriva primariamente l’urosepsi, o nel fatto che l’infezione è comparsa durante la degenza in reparto (23 casi pari al 24.2%). La mancanza di questo dato microbiologico precoce ha fatto sì che anche quando i campioni erano stati raccolti in reparto, il risultato era negativo nel 25% o addirittura nel 42% delle urinocolture ed emocolture rispettivamente, perché la crescita batterica era già stata inibita dalla terapia antibiotica precedentemente avviata (in 3 casi addirittura da 2 o più giorni).

La problematica sopra esposta, ha avuto ripercussioni anche sulla variazione della terapia empirica iniziale verso una terapia mirata all’agente eziologico isolato.

Al 38% dei pazienti è stata modificata la terapia antibiotica empirica sulla base dei test in vitro (sia urinocolture che emocolture): in questo gruppo sono stati inseriti anche quei pazienti per i quali la modifica della terapia antibiotica ha coinvolto la terapia domiciliare ma non quella ospedaliera, oltre ai casi in cui è stata intrapresa da subito una terapia antibiotica mirata, perché era disponibile al momento del ricovero un esame colturale recente. Al contrario, nel 30.5% dei pazienti la terapia iniziale è stata mantenuta anche dopo i risultati colturali: infatti, nonostante i germi isolati presentassero un profilo di

71

resistenza in vitro agli antibiotici utilizzati, in tutti i casi si è avuta risoluzione clinica del quadro morboso. Per il 31.5% non è stato possibile esprimersi circa la modifica della terapia iniziale: 5 pazienti non erano stati sottoposti ad alcun prelievo colturale, 3 pazienti avevano iniziato una terapia antibiotica empirica che si era dimostrata immediatamente efficace verso il microrganismo (perché sensibile al principio attivo) e infine per 22 pazienti non è stato possibile valutare questo parametro di appropriatezza terapeutica perché le urinocolture e/o le emocolture sono risultate negative, inquinate o non sono pervenute in laboratorio.

In linea di massima, l’analisi dei dati conferma una gestione ancora insufficiente del catetere vescicale (CV), che secondo le linee guida (livello di evidenza II)106 andrebbe sostituito entro 24 ore dall’inizio della terapia antibiotica. Il 46% dei pazienti in esame ne era portatore prima dell’ingresso in ospedale (PS o reparto di medicina interna), comprendendo i casi di cateterismo intermittente e quelli a permanenza, sia lunga che breve: il device è stato sostituito nel 32% dei pazienti entro 24 h dall’inizio della terapia antibiotica, comprendendo anche i casi in cui il CV a permanenza era stato sostituito in PS.

Prendendo in considerazione l’aspetto microbiologico dei pazienti con urosepsi cateterizzati e confrontandolo con quello del complesso dei pazienti con urosepsi (visto nelle pagine precedenti), si è osservata una prevalenza leggermente inferiore di E. coli e Entecoccus faecalis (gruppo D) nel primo gruppo; sempre nel gruppo dei pazienti cateterizzati Proteus mirabilis è stato 3 volte meno frequente, mentre Klebsiella pneumoniae è stata di poco maggiore. Candida albicans e Staphylococcus epidermidis hanno avuto una prevalenza pressoché identica nei due gruppi; mentre Pseudomonas aeruginosa si è presentata con una percentuale quasi doppia nei pazienti cateterizzati.

Pur coinvolgendo un numero limitato di pazienti e con un'unica condizione infettiva, l’analisi della farmaco-utilizzazione per i due reparti di Medicina Interna dell’Ospedale “F. Lotti” è stata la prima nel suo genere. In futuro questi dati potranno essere facilmente

72

implementati da studi sull'utilizzazione complessiva degli antibiotici in questi due reparti e per tutte le condizioni infettive.

L’antibiotico più frequentemente utilizzato per le sepsi a partenza dalle vie urinarie nel presente studio è stato il Ceftriaxone, seguito dalla Levofloxacina, dalla Piperacillina+Tazobactam, dal Meropenem, da altre cefalosporine di III generazione e da Amoxicillina+Acido clavulanico.

Tra i due reparti è stata messa in evidenza una sostanziale differenza nell’impiego degli antibiotici per i pazienti con urosepsi: nel reparto di Medicina 1 è prevalso l’uso di Ceftriaxone e Piperacillina+Tazobactam; mentre nel reparto di Medicina 2 è prevalso l’uso di Levofloxacina e Meropenem, anche se è stato riscontrato un discreto utilizzo di Ceftriaxone. Data l’omogeneità dei dati anagrafici e clinici dei due gruppi di pazienti, questa differenza può ragionevolmente essere spiegata con la variabilità di scelta personale del singolo medico prescrittore.

Senza entrare nel merito di tale scelta, dall’analisi del rapporto PDD/DDD per singolo antibiotico e via di somministrazione sono emerse complessivamente alcune differenze in base alle classi antibiotiche.

Trai i β-lattamici, l’uso delle cefalosporine di III generazione è stato mediamente corretto tranne in 4 pazienti (8.8%) in terapia con Ceftriaxone, in 6 pazienti (54.5%) in terapia con Cefotaxime e in 1 in terapia con Ceftazidime. Lo stesso si è osservato per Piperacillina+Tazobactam, tranne in 9 casi (33.3%) in cui la dose era inferiore a quella raccomandata (per 2 di questi il motivo era l’IRC). I carbapenemi (26 pazienti totali) sono stati utilizzati sempre ad una dose inferiore rispetto alla DDD: per 1 paziente in terapia con Meropenem tale riduzione era giustificata dalla presenza di IRC. In tutti i casi di terapia con Amoxicillina+Acido clavulanico sono state impiegate dosi corrette rispetto alla DDD.

Sul totale dei 55 pazienti in terapia con fluorochinoloni, la dose prescritta è stata sempre inferiore alla DDD, anche se tale riduzione posologica era giustificata dall’IRC in 2 casi di terapia con Levofloxacina e in 6 con Ciprofloxacina.

73

Tra gli aminoglicosidi, è stata usata la sola Gentamicina (15 pazienti totali, dei quali 2 con IRC) la cui dose è risultata sempre sotto-dosata rispetto alla DDD.

Per la classe dei glicopeptidi è stata utilizzata esclusivamente la teicoplanina e la PDD è risultata essere sempre in accorto alla DDD, così come per i macrolidi (Azitromicina) e il Linezolid.

Secondo le linee guida più recenti, l’utilizzo dei Fluorochinoloni (FQs) andrebbe ristretto al solo impiego per via orale95 così da ridurre la pressione selettiva nei loro confronti. Per quanto riguarda i dati d’impiego di questa categoria di farmaci nei pazienti con urosepsi è emerso che nel 56.6% dei casi che hanno ricevuto Levofloxacina, la somministrazione è avvenuta per via parenterale; diverso il caso della Ciprofloxacina dove nel 92% dei casi la somministrazione è stata per via orale.

Dei 95 pazienti in esame, 6 avevano un dato anamnestico positivo per allergia agli antibiotici, di cui uno alla Penicillina. Le linee guida suggeriscono di utilizzare i FQs in pazienti allergici ai β-lattamici95, ma nel nostro paziente allergico si è optato per l’utilizzo di un altro β-lattamico come il Meropenem.

Il passaggio da antibiotico per via parenterale a via orale dopo 48-72 ore, in base alle condizioni cliniche, è stato effettuato solo nel 16.8% dei pazienti. Nel 51.6% non è stato effettuato, mentre il 5.3% dei pazienti è stato trattato fin dall'inizio con una terapia orale. Nel restante 26.3% dei pazienti, le gravi condizioni cliniche e le severe comorbidità hanno reso impossibile questa variazione.

La comunità scientifica è ormai concorde nel ritenere che tale variazione riduca il rischio di infezione del catetere intravenoso (altra possibile sorgente infettiva), aumenti il comfort e la mobilità per il paziente, fino anche a permettere una dimissione precoce dall’ospedale, con un risparmio indiretto dei costi. Inoltre, la terapia orale grava meno sul lavoro infermieristico ed è meno costosa rispetto a quella parenterale107. Gli studi svolti negli anni hanno mostrato un’efficacia sostanzialmente uguale delle due strategie

74

terapeutiche e quindi il precoce cambiamento da endovenosa ad orale è da preferire per i motivi visti sopra107-110.

Un ulteriore elemento di analisi riguarda il confronto tra i dati microbiologici del nostro studio (168 pazienti in totale = 124 urinocolture, 22 emocolture, 5 colture da CVC) e quelli del secondo report della Rete di Sorveglianza dell’Antibiotico Resistenza in Toscana (SART)111 del 2015 (dati su emocolture).

I nostri isolati di E. Coli hanno mostrato un’identica distribuzione percentuale di resistenze rispetto ai dati regionali (Figura 10), da cui si evince come dato assoluto che la resistenza ai β-lattamici, fluorochinoloni e cefalosporine di III generazione rimane a livelli allarmanti. Le resistenze di E. coli ai fluorochinoloni rappresentano uno dei maggiori problemi toscani111, con un valore medio regionale al 2014 del 55%, che si inserisce in una situazione territoriale relativamente omogenea e caratterizzata da percentuali molto elevate. Questi valori raramente scendono al di sotto del 50% degli isolati e sono notevolmente al di sopra della media italiana (43.9% nel 2014) e di quella europea (22.4% per il 2014), in cui solo l’Italia e alcuni paesi del Mediterraneo presentano percentuali così alte112.

Anche per E. faecalis i dati regionali (Figura 11) sono stati pressoché identici a quelli della nostra coorte di pazienti, ad eccezione della resistenza alla Gentamicina ad alto dosaggio (resistenza regionale del 62%, 77% dai nostri dati) e alla Streptomicina ad alto dosaggio (resistenza regionale del 56%, 70% dai nostri dati).

Per quanto riguarda K. pneumoniae, i nostri dati hanno mostrato un sostanziale aumento di resistenza per l'Amoxicillina/Clavulanato (resistenza regionale del 65%, 90% dai nostri dati), per la Ciprofloxacina (resistenza regionale del 62%, 84% dai nostri dati) e per la Gentamicina (resistenza regionale del 20%, 40% dai nostri dati); la resistenza dei nostri isolati all’Imipenem è risultata minore rispetto ai dati regionali (22% contro 40%); mentre la percentuale di ceppi resistenti/intermedi alla Piperacillina/Tazobactam è stata dell’85% (contro il 65% dei dati regionali). A livello regionale (Figura 12) la resistenza verso i fluorochinoloni e le cefalosporine di III generazione è caratterizzata da una distribuzione relativamente omogenea e con livelli comunque molto elevati111. Anche in questo caso la

75

situazione toscana rispecchia complessivamente quella italiana, che ha una media di resistenze tra le più alte dei paesi europei112.

Percentuali di resistenza maggiori sono state identificate anche per P. aeruginosa ed in particolare verso la Ciprofloxacina (resistenza regionale del 24%, 50% dai nostri dati) e la Gentamicina (resistenza regionale del 20%, 50% dai nostri dati); al contrario, la resistenza dei nostri ceppi alla Piperacillina/Tazobactam è stata nulla (contro il 20% dei dati regionali). Facendo riferimento al trend regionale (Figura 13), rispetto al 2013 si è registrata una moderata riduzione negli isolati resistenti ai fluorochinoloni, alle cefalosporine di III generazione e agli aminoglicosidi, mentre non si è osservato un decremento nella frequenza di P. aeruginosa resistenti a carbapenemi e si è osservato un incremento nelle resistenza alla Piperacillina-Tazobactam111.

Nel complesso quindi i nostri dati mostrano resistenze antibiotiche in linea con quelle regionali e dove se ne discostano lo fanno in leggero peggioramento.

Nonostante la bassa percentuale di sensibilità dei germi isolati agli antibiotici più frequentemente utilizzati, il successo terapeutico è stato indubbiamente elevato (91.5%). Nonostante questo, 8 pazienti sono deceduti e per tutti la causa è stata la sepsi a partenza dalle vie urinarie (dati ricavati dalle Schede ISTAT). In un caso l’urinocoltura non è pervenuta al laboratorio, in un altro è risultata negativa; in due casi era stato isolato E. coli, in 2 E. faecalis (gruppo D), in uno P. aeruginosa e nell’altro P. mirabilis: in tutti i casi questi germi sono risultati multi-resistenti ad almeno due antibiotici. In 4 casi la terapia era stata modificata sulla base dell’antibiogramma e in altri due era stato impiegato un antibiotico nei confronti del quale il germe era resistente. Nei due casi restanti non è stato possibile eseguire la valutazione a causa dalla mancanza dei referti colturali. In tutti i casi è stata impiegata la dose corretta, con netta prevalenza per la via di somministrazione parenterale.

Dai dati si evince quindi come in questi pazienti la causa di morte sia imputabile da un lato all’aggressività dei germi responsabili della sepsi e dall’altro alle condizioni cliniche dei soggetti: si è trattato infatti di pazienti anziani con età media di 89 (± 4.8) anni anche se con scarsi fattori di rischio (6 pazienti - il 75% - avevano solo 2 fattori di rischio di cui

76

nessuno con IRC o severa immunodepressione). Non è dunque dimostrabile una relazione fra l’impiego della terapia antibiotica e il decesso.

La ridotta dimensione del nostro campione non ha permesso di studiare gli altri fattori in grado di modificare l’outcome nei pazienti che non sono deceduti: ad esempio come una determinata terapia o germe multi-resistente abbiano inciso sulla durata della degenza.

Documenti correlati