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Verso un protocollo di Antimicrobial Stewardship per le urosepsi

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia

Corso di Laurea Magistrale a ciclo unico in Medicina e Chirurgia

Tesi di laurea

Verso un protocollo di Antimicrobial

Stewardship per le Urosepsi

Relatore:

Chiar.mo Prof. STEFANO TADDEI

Correlatore:

Dott. GIOVANNI GRAZI

Candidata:

Laura Sofia Cardelli

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1. RIASSUNTO

In ambito ospedaliero e comunitario, le infezioni delle vie urinarie (IVU) sono tra le più comuni patologie infettive e sono responsabili del frequente ricorso ad esami diagnostici, alla prescrizione di antibiotici e, più in generale, incidono sulla qualità di vita dei pazienti. Per quanto frequenti, sono patologie difficili da delineare, con molteplici sfaccettature e diversi gradi di severità, che spaziano dalle IVU non complicate fino alle IVU complicate e alle urosepsi. Questo studio condotto su 95 pazienti con sepsi a partenza dalle vie urinarie durante un periodo di otto mesi (da Febbraio a Settembre 2016) rappresenta la fase preliminare all’introduzione di un programma di Antimicrobial Stewardship (ASP) nella realtà locale dei reparti di Medicina Interna dell’Ospedale “F. Lotti” di Pontedera (PI). Inizialmente sono state analizzate le caratteristiche clinico-epidemiologiche e microbiologiche dei pazienti in studio, quali età e fattori di rischio (FR) per lo sviluppo di urosepsi e di antibiotico-resistenza, ma anche i parametri clinici all’esordio del quadro infettivo. È emerso che queste patologie affliggono una tipologia di paziente prevalentemente anziano, con molteplici fattori di rischio (i pazienti con almeno un FR sono ben l’86% del totale) e spesso portatore di numerose altre patologie. Lo studio ha dimostrato che le urosepsi sono affezioni frequenti nei reparti di Medicina Interna (il loro tasso d’incidenza è vicino a 4.15 casi/100 ricoveri), determinano una lunga degenza (almeno 9 giorni) e si caratterizzano per una significativa mortalità (che si attesta intorno all’8.5%). Le condizioni cliniche all’esordio sono caratteristiche: questi pazienti si presentano spesso in shock, con leucocitosi neutrofila, alta concentrazione sierica di PCT e PCR e con una funzione renale peggiorata, anche in assenza di pregressa insufficienza renale. Pertanto queste patologie non sono difficili da diagnosticare e sulla loro gestione iniziale si gioca buona parte del successo terapeutico successivo. Lo studio ha infatti messo in evidenza il ruolo cruciale della raccolta di campioni biologici per esami colturali già in Pronto Soccorso, che permette di modificare precocemente la terapia empirica iniziale a favore di una mirata ai risultati in vitro, una volta che il paziente viene trasferito in reparto.

Successivamente sono stati individuati otto indicatori di qualità gestionale - validati in letteratura – di cui è stata valutata l’applicazione nella realtà in studio; questi sono stati

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poi utilizzati per teorizzare una serie di interventi efficaci e mirati al miglioramento dell’intero percorso terapeutico e che sono confluiti in un programma interno di Antimicrobial Stewardship. Dallo studio retrospettivo è emerso che la percentuale di applicazione di questi indicatori è stata variabile, passando dal 20% al 100%: più in dettaglio, l’esecuzione dell’urinocoltura nei pazienti con urosepsi ha avuto una percentuale di applicazione del 90%, la prescrizione antibiotica empirica in accordo con le linee guida nazionali è stata applicata nel 100% dei casi, l’uso di fluorochinoloni solo come terapia orale nel 27%, la modifica della terapia empirica dopo i risultati delle colture nel 38%; e ancora la variazione della terapia intravenosa in terapia orale dopo 48-72 h in base alle condizioni cliniche nel 17%, la durata della terapia antibiotica di almeno 10 giorni nel 73%, la sostituzione del catetere entro 24h dall’inizio del trattamento antibiotico nel 32% ed infine l’adattamento della dose degli antibiotici in relazione alla funzione renale in tutti i casi esaminati.

Data la frequenza delle IVU, e delle urosepsi, queste affezioni concorrono in maniera significativa al consumo totale degli antibiotici, con incremento della spesa sanitaria e della diffusione dell’antibiotico-resistenza: proprio quest'ultimo fenomeno appare in netta crescita tra i microrganismi responsabili di urosepsi, come è stato messo in evidenza dal confronto tra i dati di antibiotico resistenza regionali (Secondo Report della Rete di Sorveglianza dell’antibiotico-resistenza in Toscana - SART-) e quelli derivati dal nostro studio, soprattutto per quanto riguarda E. coli, E. faecalis, P. aeruginosa e K. Pneumoniae – che sono tra i microrganismi più spesso responsabili di urosepsi -. L'elevata percentuale di resistenza agli antibiotici comunemente utilizzati in terapia antibiotica empirica, e come tali consigliati dalle linee guida nazionali ed internazionali, rende urgente e necessaria la stesura di linee guida locali, così da evitare fallimenti terapeutici futuri. In tal senso, questo studio ha reso disponibile un repertorio di dati epidemiologici locali e attuali che possono sostenere la stesura di tali linee guida: in particolare, prendendo in considerazione gli 87 isolamenti da urinocoltura e/o emocoltura, il 78% si è dimostrato sensibile alla Piperacillina/Tazobactam, che rende questo antibiotico candidato a divenire la prima scelta in terapia empirica in Pronto Soccorso e Medicina Interna dell’Ospedale “F. Lotti” di Pontedera.

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Il programma di Antimicrobial Stewardship avviato dall’analisi dei risultati precedenti e in via di applicazione nella pratica clinica, prende in esame ogni aspetto della gestione terapeutica del paziente - dal suo ingresso in Pronto Soccorso fino alla dimissione passando attraverso la scelta dell’antibiotico più corretto per la realtà locale - con l’obiettivo di migliorarlo.

Questo studio rappresenta pertanto il punto di partenza per ulteriori indagini che potranno analizzare i benefici dell’applicazione nei Reparti di Medicina Interna di questo presidio e potranno facilmente implementarne le raccomandazioni.

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5 INDICE

1. RIASSUNTO………..………2

2. INTRODUZIONE ...6

2.1. CLASSIFICAZIONE DELLE IVU ...6

2.1.1. Sede anatomica di infezione ...8

2.1.2. Presenza di fattori di rischio ...9

2.1.3. Grado di severità dell’infezione ... 10

2.1.4. Evidenze microbiologiche ... 10

2.2. IVU NON COMPLICATE ... 10

2.3. IVU COMPLICATE ... 11

2.4. UROSEPSI ... 11

2.5. EPIDEMIOLOGIA ... 15

2.6. EZIOPATOGENESI ... 17

2.7. DIAGNOSI CLINICA E STRUMENTALE ... 20

2.8. TERAPIA ANTIBIOTICA ... 28

2.9. ANTIMICROBIAL STEWARDSHIP ... 33

3. OBIETTIVI DELLO STUDIO ... 38

4. PAZIENTI E METODI ... 38

5. RISULTATI ... 41

5.1. Caratteristiche cliniche dei pazienti con urosepsi ... 41

5.2. Valutazione dell’appropriatezza gestionale dei pazienti con urosepsi ... 48

5.3. Risultati microbiologici... 52

5.4. Terapia antibiotica nei pazienti con urosepsi ... 60

6. DISCUSSIONE ... 69

7. CONCLUSIONE ... 76

8. APPENDICE ... 80

9. BIBLIOGRAFIA ... 88

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2. INTRODUZIONE

Le infezioni delle vie urinarie (IVU) sono ad oggi tra le più comuni infezioni batteriche in ambito ospedaliero e comunitario1. Determinano frequentemente il ricorso ad esami diagnostici e alla prescrizione di antibiotici, concorrono in maniera significativa al consumo totale di questi, associandosi all’incremento della spesa sanitaria ma anche alla diffusione dell’antibiotico-resistenza: quest’ultimo fenomeno appare in significativa crescita tra i microrganismi responsabili di IVU ed è favorito dall’utilizzo spesso inappropriato di molecole ad ampio spettro d’azione come i fluorochinoloni, il cui consumo è aumentato sia in ambito ospedaliero che comunitario2.

Da ciò si comprende come ogni riduzione dell’esposizione agli antibiotici sia importante per diminuire da un lato la pressione selettiva e quindi la resistenza agli antibiotici, dall’altro per ridurre i costi e gli effetti collaterali di questi farmaci3. Pertanto, dovrebbe essere sempre obiettivo primario quello di trattare i pazienti con la terapia antibiotica di durata minima efficace: un argomento ancora più importante nei pazienti anziati in cui le IVU sono spesso sovra-diagnosticate e di conseguenza sovra-trattate4.

Studi scientifici hanno dimostrato anche che l’aderenza alle linee guida per l’uso degli antibiotici migliora l’outcome dei pazienti5,6, quindi queste andrebbero modificate regolarmente e implementate di conseguenza7-9.

2.1. CLASSIFICAZIONE DELLE IVU

Per molto tempo, la classificazione delle IVU si è basata sulle categorie proposte dal Centers for Disease Control and Prevention (CDC) nel 1988 e poi aggiornate nel 200810 (Tabella 12 in Appendice).

Oggi tale classificazione è stata ulteriormente arricchita dalle categorie sviluppate dall’Infectious Disease Society of America/European Society of Clinical Microbiology and

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Infectious Diseases (IDSA/ESCMID) grazie soprattutto all’introduzione del concetto di IVU “complicata” e IVU “non complicata”11 (Tabella 13 in Appendice).

In questo contesto, l’European Association of Urology (EAU) ha proposto ultimamente un valido modello classificativo fruibile nella pratica clinica quotidiana e in ambito di ricerca che si basa sui seguenti criteri:

 Sede anatomica di infezione  Presenza di fattori di rischio  Grado di severità dell’infezione  Evidenze microbiologiche

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Figura 1. Visione sinottica della classificazione delle IVU come proposto dalla EAU Section of Infection in Urology (ESIU). ABU, batteriuria asintomatica; CY, cistite; PN-2, pielonefrite moderata; PN-3, pielonefrite severa; US-4, SIRS; US-5, disfunzione d’organo; US-6, insufficienza d’organo; MSU, urinocoltura da mitto intermedio. (M. Grabe et al.12)

2.1.1. Sede anatomica di infezione

I segni e i sintomi (Tabella 13 in Appendice) permettono di distinguere topograficamente l’infezione in:

 Uretrite: infezione a carico dell’uretra  Cistite: infezione a carico della vescica  Pielonefrite: infezione a carico del rene  Sepsi: infezione ematogena

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2.1.2. Presenza di fattori di rischio

I fattori di rischio riconducibili al paziente, secondo l’EAU, sono esposti nella Tabella 1.

Tabella 1. Fattori di rischio nelle infezioni delle vie urinarie, criterio ORENUC,

rielaborato da EAU European Section of Infection in Urology (ESIU)13.

A questi fattori di rischio possono essere aggiunti quelli predisponenti lo sviluppo di un’infezione associata alle pratiche assistenziali (healthcare-associated infections, HAI)14 e già definite per le malattia respiratorie, che sono riassunti di seguito:

- storia di ricovero > 2 giorni, nei 90 giorni precedenti alla diagnosi di infezione; - e/o residenza in casa di cura o in strutture di lungodegenza;

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- e/o esecuzione di terapie domiciliari per via parenterale endovenosa (compresi antibiotici) o essere stati sottoposti a cura di ferite o ulcere nei 30 giorni precedenti alla diagnosi di infezione;

- e/o esecuzione di una terapia antibiotica nei 90 giorni precedenti; - e/o attuale ospedalizzazione > 5 giorni.

2.1.3. Grado di severità dell’infezione

Il grado di severità è declinato in 6 livelli successivi (1-6) che sono correlati al rischio di eventi fatali (Figura 1 pag. 8).

2.1.4. Evidenze microbiologiche

L’urinocoltura potrà mettere in evidenza il germe patogeno e il suo pattern di suscettibilità: S (sensibile), I (intermedio) e R (resistente). Entrambe le caratteristiche possono essere inserite nella classificazione finale dello stadio clinico di infezione.

Nonostante il modello sopra esposto si renda particolarmente utile alla definizione e classificazione iniziale, nella pratica clinica continua a prevalere la divisione in IVU “complicate”, “non complicate” e “urosepsi”12 e pertanto anche l’esposizione successiva seguirà tale suddivisione.

2.2. IVU NON COMPLICATE

Con il termine di IVU non complicate si identificano le infezioni del basso ed alto apparato urinario maschile e femminile, in soggetti peraltro sani. Inoltre, si inseriscono in questo gruppo tutte quelle infezioni sostenute da germi non-multiresistenti. Ne risulta che le IVU non complicate si distinguono in cistiti e pielonefriti15.

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In base all’insorgenza ed al decorso clinico si distinguono IVU acute (singolo episodio acuto limitato nel tempo) e croniche (due o più episodi di IVU in 6 mesi o tre o più episodi nel corso degli ultimi 12 mesi16): una distinzione che si rende necessaria anche per la programmazione del follow-up e per la pianificazione del trattamento in profilassi, quando indicato, così da ridurre l’utilizzo della terapia antibiotica limitandola ai soli casi selezionati17.

2.3. IVU COMPLICATE

Al contrario, le IVU complicate sono infezioni associate a condizioni predisponenti - come per esempio un'anomalia strutturale o funzionale del tratto genitourinario - o alla presenza di una malattia sottostante che interferisca con i meccanismi di difesa dell'ospite o che possa aumentare il rischio di contrarre l'infezione o di far fallire la terapia nei confronti della stessa12. Esempi di fattori di rischio si ritrovano soprattutto nelle categorie N, U e C del criterio ORENUC esposto precedentemente (Tabella 1 pag. 9).

2.4. UROSEPSI

La definizione di sepsi urinaria, definita anche come urosepsi, prevede la corretta identificazione dei seguenti criteri clinici e strumentali18:

 Infezione: presenza di un microrganismo in un sito sterile che può attivare una risposta immunitaria;

 Batteriemia: presenza di batteri nel sangue, evidenziati da emoculture (può essere temporanea);

 Systemic Inflammatory response Syndrome (SIRS), che si caratterizza per la presenza di almeno due dei seguenti parametri:

a. Temperatura corporea > 38 °C o < 36 °C b. Frequenza cardiaca ≥ 90 battiti/minuto

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c. Frequenza respiratoria ≥ 20 atti respiratori/minuto o alcalosi respiratoria PaCO2 ≤ 32 mmHg (4.3 kPa)

d. Globuli bianchi > 12.000 cellule/mm3 o < 4000 cellule/mm3 o > 10% di forme immature

Secondo recenti studi americani19, la sepsi è più frequente nel sesso maschile rispetto al femminile e si associa ad una mortalità variabile che dipende sostanzialmente dalla sorgente d’origine dell’infezione: la mortalità nelle urosepsi si attesta intorno al 5% dei casi, ed è inferiore rispetto alla mortalità delle sepsi di altra origine (che hanno percentuali variabili dal 20 al 42%)20.

Sebbene negli ultimi anni si sia osservato un aumento dell’incidenza di sepsi pari all’8.7% per anno in entrambi i sessi21, il rischio di mortalità si è ridotto dal 27.9% del 1995 al 17.9% del 2000, grazie soprattutto al miglioramento della gestione clinica e terapeutica di questi pazienti22.

Una precisazione è d’obbligo riguardo i criteri della SIRS. Essi furono definiti per la prima volta in una Consensus Conferance del 1991, dove si poneva l’attenzione sulle conoscenze allora prevalenti per cui la sepsi fosse una sindrome provocata dalla risposta infiammatoria sistemica dell’ospite (SIRS) ad un’infezione. Nello stesso momento fu definita sepsi severa quella complicata da disfunzione d'organo che più facilmente poteva evolvere in shock settico, definito come “ipotensione persistente indotta dalla sepsi, nonostante l’adeguato reintegro di fluidi”23.

Queste definizioni sono rimaste pressoché invariate per oltre due decenni, nonostante molti gruppi di lavoro abbiano provato ad ampliare l’elenco dei criteri diagnostici (da ricordare soprattutto quelli di Levy et al., vedi Tabella 2).

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13 Tabella 2. Criteri diagnostici della Sepsi18

Appare oggi sempre più chiaro come la sepsi non sia una malattia specifica ma una sindrome con fisiopatologia ancora ampiamente sconosciuta: rappresenta, infatti, una risposta multiforme dell'ospite nei confronti di un patogeno infettante e può essere significativamente amplificata da fattori endogeni24,25. In particolare sappiamo che la sepsi si caratterizza per una precoce attivazione sia delle risposte pro- che anti-infiammatorie26 mediante la liberazione di specifiche citochine, insieme ad importanti modifiche di vie non-immunologiche in apparati come quello cardiovascolare, nervoso (centrale, periferico e autonomico), ormonale, metabolico e il sistema della

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coagulazione24,27,28, tutti in vario modo coinvolti nell’outcome del paziente. Bisogna sottolineare anche una significativa eterogeneità biologica e clinica degli individui affetti29, con fattori come età, sottostanti comorbidità, lesioni concomitanti, farmaci e fonte di infezione che aggiungono ulteriore complessità al quadro30.

Ne risulta che l'originale concettualizzazione di sepsi come infezione con almeno 2 dei 4 criteri SIRS sia oggi ampiamente contestata31. I criteri della SIRS non indicano necessariamente una risposta disregolatoria che mette in pericolo di vita il soggetto e infatti sono presenti in molti pazienti ospedalizzati, compresi quelli che non svilupperanno mai un’infezione e che non avranno outcome negativo32.

Inoltre, Kaukonen et al.33 hanno dimostrato che un paziente su otto ricoverato in unità di terapia intensiva con infezione e disfunzione d’organo acuta non ha i due requisiti minimi della SIRS per soddisfare la definizione di sepsi, anche se il suo decorso sarà gravato da una lunga ospedalizzazione con una significativa morbidità e mortalità.

Alcuni autori hanno di recente proposto un ulteriore sistema di classificazione denominato qSOFA (derivato dai criteri SOFA e basato solo sui risultati dell’esame clinico, Tabella 14 in Appendice). Questo potrebbe rappresentare un utile strumento clinico per i medici e gli altri professionisti che lavorano al di fuori della terapia intensiva - e forse anche al di fuori dell'ospedale - per individuare tempestivamente i pazienti infetti che hanno una probabilità maggiore di esito infausto.

I criteri del qSOFA sono riportati di seguito: 1. Frequenza respiratoria ≥ 22/minuto 2. Pressione sistolica ≤ 100 mmHg 3. Alterazioni dello stato mentale

Questo semplice punteggio può essere eseguito al letto del paziente (Figura 2) e risulta essere particolarmente rilevante in contesti poveri di risorse, in cui i dati di laboratorio non sono facilmente disponibili e/o quando non è nota l’epidemiologia locale delle sepsi.

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Figura 2. Applicazione dei Criteri Clinici per l’identificazione dei pazienti con sepsi e shock settico. Il punteggio SOFA (Sequential [Sepsis-related] Organ Failure Assessment) basale dovrebbe essere considerato zero a meno che il paziente non abbia una preesistente disfunzione d’organo (acuta o cronica) prima dell’insorgenza dell’infezione; qSOFA indica il punteggio “quick SOFA”; MAP, pressione arteriosa media. (Mervyn Singer et al.31)

Ad ogni modo, i punteggi SOFA e qSOFA sono test di severità e predittori di mortalità, non test per sepsi, pertanto i criteri della SIRS rimangono ancora utili nell’identificazione dell’infezione31.

2.5. EPIDEMIOLOGIA

Le IVU rappresentano, dopo quelle respiratorie, le patologie infettive di più frequente riscontro in ambito comunitario e ospedaliero. In particolare, rappresentano il 17% circa delle infezioni associate alle pratiche assistenziali (healthcare-associated infections, HAI)34 e il 6% di tutte le infezioni ad esito infausto35.

Tra la popolazione anziana non istituzionalizzata degli Stati Uniti rappresentano la seconda forma più comune di infezione (pari a circa il 25% dei casi); mentre le IVU

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catetere-associate rappresentano la più comune causa di infezione nosocomiale, con più di 1 milione di casi l’anno negli ospedali e nelle case di cura36.

Sempre da studi americani si evince che le IVU acquisite in comunità sono responsabili di oltre 7 milioni di visite ambulatoriali annue e di oltre 1 milione di visite ospedaliere annue che si traducono in più di 100.000 ospedalizzazioni36.

Ad ogni modo è difficile ottenere dati d’incidenza accurati per le IVU, perché da un lato i quadri clinici sono molto eterogenei e dall’altro la diagnosi non può prescindere dall’esecuzione dell’urinocoltura, che soprattutto in ambiente ambulatoriale non viene eseguita frequentemente1.

Da un punto di vista finanziario, per le IVU comunitarie si stima un costo annuale diretto di circa 1,6 miliardi di dollari36 (basti pensare che circa il 25% dei pazienti ospedalizzati e cateterizzati da più di 7 giorni sviluppa batteriuria): ciò comporta un aumento medio del costo diretto per singola ospedalizzazione pari a 500-1.000 dollari37.

L’impatto finanziario, dovuto all’elevata incidenza delle IVU, risulta importante anche in Italia: da uno studio condotto su 120 urologi è stato dimostrato che il 40% del loro tempo di lavoro annuale è dedicato a visite per infezioni urinarie. Vanno inoltre considerati tutti i costi dovuti alle prescrizioni, alle spese per visite domiciliari, alle ospedalizzazioni e a tutti quei costi non strettamente legati al sistema sanitario, i cosiddetti costi indiretti come ad esempio le giornate lavorative perse e il disagio arrecato alla qualità di vita dei pazienti38.

Secondo i dati della Società Italiana di Medicina Generale, le IVU costituiscono occasione per rivolgersi al medico di medicina generale (MMG) nell’1% dei casi; ma l’apparente discrepanza tra frequenza delle IVU e scarsi contatti MMG-paziente si spiega con le caratteristiche peculiari dell’affezione. Infatti, si tratta di una patologia che nella maggior parte dei casi è poco severa, anche se ricorrente, responsabile più di fastidio che di un reale rischio per il benessere dell’individuo e con la cui gestione il cittadino acquisisce confidenza: dopo un periodo orientato dal medico, ricorre poi facilmente all’automedicazione o al contatto telefonico con il curante, ovviando frequentemente alla visita in studio39.

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Al contrario, per le forme più severe (per sintomi e/o per gravità), il cittadino ricorre alle prestazioni del medico di famiglia, al pronto soccorso o allo specialista: da ciò si deduce comunque l’elevata frequenza con cui viene richiesta la consulenza specialistica, nefrologica o urologica, o addirittura il ricovero ospedaliero.

Le IVU interessano entrambi i sessi e tutte le fasce di età, sebbene con diversa incidenza. Durante il periodo neonatale, l’incidenza è lievemente superiore nei maschi, poiché questi sono più spesso affetti da anomalie congenite all’apparato uro-genitale. Dall’infanzia fino ai 50 anni di età, l’incidenza delle IVU e delle IVU ricorrenti è superiore nelle donne: si calcola che circa una donna su due sperimenterà almeno un episodio di IVU nel corso della propria vita e frequentemente richiederà un trattamento antibiotico. Dopo i 50 anni di età, a causa dell’invecchiamento e della maggiore frequenza di patologie prostatiche, l’incidenza delle IVU aumenta in modo significativo anche negli uomini e diventa numericamente simile a quella delle donne36.

2.6. EZIOPATOGENESI

I microrganismi possono raggiungere le vie urinarie per via ematogena, linfatica o per via retrograda, ma le evidenze cliniche e sperimentali indicano come quest’ultima sia in assoluto la via più comune attraverso la quale si stabilisce un’IVU, soprattutto per quanto riguarda i microrganismi di origine enterica (Escherichia coli ed altre Enterobacteriaceae).

IVU non complicate.

I patogeni maggiormente responsabili delle IVU non complicate sono E. coli nel 70-95% ed occasionalmente altri patogeni a frequenza minore come Staphylococcus saprophyticus (5-10%), altri enterobatteri e raramente Proteus mirabilis e Klebsiella sp.40. Recenti studi hanno posto in evidenza un aumento della prevalenza delle IVU del basso apparato

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urinario da parte di Enterococcus faecalis in particolar modo nelle IVU croniche delle giovani donne41.

Ad ogni modo, non è stata riportata alcuna differenza in termini di prevalenza dei germi patogeni tra le IVU del basso ed alto apparato urinario40.

IVU complicate.

Le IVU complicate possono essere causate da un’ampia gamma di patogeni: in questo caso lo spettro è molto più vasto rispetto ad un’IVU semplice ed inoltre i patogeni hanno una maggiore probabilità di essere resistenti agli antimicrobici, soprattutto nei casi di poli-trattamento.

Anche in questo caso le Enterobacteriaceae sono i patogeni predominanti, tra le quali E. coli è certamente il più comune. Tuttavia, anche i bacilli Gram-negativi (es. Pseudomonas aeruginosa) e i cocchi Gram-positivi (es. Stafilococchi ed Enterococchi) possono avere un ruolo clinicamente rilevante in funzione delle condizioni sottostanti. Ne consegue che, in ambito nosocomiale o nelle infezioni complicate, l’incidenza di infezioni sostenute da Proteus, Klebsiella, Enterobacter, Serratia e Pseudomonas, ma anche da Enterococcus faecalis e da alcune specie fungine, subisce un netto incremento, ridimensionando il ruolo patogeno di E. coli42.

IVU correlate a calcolosi.

Nelle IVU correlate a calcolosi urinaria (sottoinsieme delle IVU complicate) la prevalenza di infezioni da E. coli e da enterococchi sembra essere meno rilevante. Al contrario, in queste specifiche condizioni si ritrova più spesso la presenza di Proteus e Pseudomonas sp. Tra gli organismi produttori di ureasi predominano Proteus, Providencia, Morganella sp. e Corynebacterium urealyticum; trovano spazio anche Klebsiella, Pseudomonas, Serratia sp. e gli stafilococchi43.

IVU catetere-associate (CA-IVU).

Sottoinsieme rilevante è anche quello delle CA-IVU, dato che costituiscono fino al 40-45% delle infezioni nosocomiali44. Infatti, secondo indagini epidemiologiche dell’European

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Centre for Disease Prevention and Control (ECDC), il catetere risulterebbe il device più frequentemente utilizzato in ambito sanitario, se si pensa che è presente in circa il 17% dei pazienti ospedalizzati europei45. In questi pazienti l’incidenza di febbre di sospetta origine urinaria è pari a 0.7-1.1 episodi/100 giorni-catetere, circa 3 volte maggiore rispetto a quella di analoghi pazienti batteriurici ma non cateterizzati46.

Le CA-IVU sono inoltre la sorgente di circa il 50% delle batteriemie nelle strutture di lungodegenza47: in questi contesti il rischio è di 3-36 volte superiore nei cateterizzati rispetto ai pazienti non cateterizzati48.

Il principale fattore di rischio legato all’insorgenza di una CA-IVU rimane la durata della cateterizzazione: gli studi di Nicolle et al. stimano il rischio di infezione al 3%-10% per ogni giorno di mantenimento in sede del device44,46,49.

La presenza del catetere vescicale favorisce la penetrazione dei batteri all’interno delle vie escretrici e altera i meccanismi di difesa abitualmente attivi a questo livello. Inoltre i batteri che colonizzano la porzione più distale del tubo possono risalire lungo la sua superficie raggiungendo e colonizzando la mucosa vescicale in un secondo momento. Meno di frequente i batteri possono refluire da una sacca di raccolta colonizzata oppure proliferare nel residuo vescicale che si raccoglie in conseguenza dell’incompleto svuotamento della vescica. Da sottolineare poi che i batteri possono penetrare in vescica anche in conseguenza delle continue manipolazioni a cui il catetere è sottoposto da parte del personale sanitario49.

Da un punto di vista patogenetico, l’elemento più importante è la formazione del biofilm, un materiale organico complesso costituito da microrganismi che crescono in colonie entro una sostanza mucopolisaccaridica extracellulare che loro stessi producono (e in cui vengono incorporati anche ioni magnesio e calcio e la proteina di Tamm-Horsfall)50. La formazione del biofilm comincia immediatamente dopo l’inserimento del catetere e coinvolge sia la superficie esterna che quella interna. I microrganismi che crescono nel biofilm risultano essere pertanto in un ambiente relativamente protetto dagli antimicrobici e dalle difese dell’ospite.

La batteriuria catetere-associata, secondaria alla presenza di cateteri a breve permanenza (< 30 giorni), è solitamente monomicrobica ed E.coli è l’uropatogeno più frequentemente

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isolato (12%-29%), seguito da altri enterobatteri (Klebsiella spp., Enterobacter spp. Serratia spp., Citrobacter spp.), P. aeruginosa, Enterococcus spp., stafilococchi coagulasi negativi ed S.aureus. I miceti, generalmente Candida spp., si isolano nel 3%-32% dei casi. Al contrario, nei pazienti con cateterismo di lunga permanenza (> 30 giorni), la flora è generalmente polimicrobica ed insieme alle specie precedentemente elencate si isolano molto più spesso P. mirabilis (40% dei casi), Morganella morganii e P.stuartii46.

Urosepsi.

Per quanto riguarda nello specifico le urosepsi, in circa il 30-80% dei casi vengono isolati batteri Gram-negativi e solo nel 5%-24% dei casi batteri Gram-positivi. L’Escherichia Coli rappresenta il ceppo batterico di più frequente riscontro (circa il 30%-40%), seguito dalla famiglia delle Klebisiella-Enterobacter-Serratia in circa il 20% dei casi, mentre Pseudomonas, Proteus, Providencia e le specie anaerobie sono coinvolte ciascuna nel 10% dei casi di sepsi51.

2.7. DIAGNOSI CLINICA E STRUMENTALE

Il percorso diagnostico di ciascuna sindrome da IVU inizia con una dettagliata raccolta anamnestica, inizialmente rivolta alla ricerca di segni e sintomi indicativi di IVU e poi alla ricerca di fattori di rischio che possano collocare il paziente nella categoria delle IVU complicate.

Tra i sintomi di più frequente riscontro troviamo la disuria, la frequenza minzionale, l’urgenza e la pollachiuria che ci indirizzano verso un’infezione delle basse vie urinarie. Alcune donne possono presentare perdite vaginali, segni clinici di uretrite o dispareunia: se tali segni sono presenti devono essere indagati e valutati attraverso un attento esame obiettivo pelvico così da escludere patologie ginecologiche.

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Altri sintomi come dolore al dorso o al fianco, tensione all’angolo costo-vertebrale, nausea/vomito e febbre (> 38°C) – associati o meno a sintomi riferibili a IVU del basso apparato urinario (vedi sopra) – indirizzano verso la diagnosi di pielonefrite acuta.

Bisogna comunque sottolineare come i sintomi (soprattutto quelli di interessamento delle basse vie urinarie) siano comunque aspecifici, potendosi presentare anche in altre malattie e/o trattamenti urologici, come l’iperplasia prostatica benigna o dopo resezione transuretrale della prostata (TURP).

Per quanto riguarda nello specifico le infezioni urinarie catetere-associate (CA-IVU) la pratica quotidiana suggerisce che in questi casi la clinica è di scarso ausilio e, benché l’IDSA elenchi come possibili segni/sintomi la febbre di nuova origine o in peggioramento, l’alterazione dello stato di coscienza, la sonnolenza, il malessere generalizzato, il dolore al fianco o all’angolo costo-vertebrale, l’ematuria e il dolore a livello pelvico49, di fatto il corollario sintomatologico è spesso assente44,46,52. In queste circostanze la diagnosi è di esclusione, dovendosi ipotizzare l’origine urinaria della febbre solo in assenza di altri potenziali focolai di infezione46.

In aggiunta alla raccolta anamnestica di segni e sintomi, un valido aiuto proviene da esami aggiuntivi come test con dipstick, esame delle urine e urinocoltura. Solo in casi selezionati, che verranno esaminati in seguito, sarà necessario eseguire indagini strumentali come l’ultrasonografia, TC addome o URO-TC.

L'utilizzo di corrette modalità di raccolta e conservazione dei campioni per gli esami microbiologici è condizione indispensabile per l'ottenimento di risultati attendibili e utili ad impostare una terapia mirata: spesso una non corretta esecuzione del campionamento può determinare risultati errati che inficiano la terapia.

Può essere utile ricordare la sequenza esatta di azioni per la raccolta del mitto intermedio da suggerire al paziente:

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1. procurarsi in farmacia un barattolo sterile ad imboccatura larga “per urinocoltura” (evitare provette piccole);

2. lavare accuratamente mani e genitali esterni con acqua e sapone;

3. urinare scartando il primo getto e raccogliendo parte di quello successivo direttamente nel contenitore sterile, possibilmente senza interrompere la minzione;

4. non toccare con le mani o con i genitali i bordi e l'interno del contenitore e richiudere accuratamente il contenitore;

5. consegnare il contenitore al laboratorio in tempo breve (se non è possibile consegnarlo subito, esso deve essere conservato a temperatura di circa 4°C in frigo massimo per 2 ore)13.

Al contrario, la raccolta dell’urinocoltura da catetere da suggerire al personale sanitario prevede di:

1. lavarsi accuratamente le mani ed indossare guanti monouso;

2. chiudere il sistema di raccolta delle urine con il morsetto o una pinza autostatica pulita per il tempo necessario a consentire la raccolta dell’urina nel catetere a monte del morsetto;

3. disinfettare il diaframma perforabile del sistema di raccolta delle urine;

4. pungere il diaframma perforabile con la siringa sterile o con il sistema di prelievo sottovuoto tipo Vacuette®/Vacutainer®;

5. aspirare la quantità di urine necessaria con la siringa o lasciare riempire la provetta sottovuoto per depressione; è assolutamente importante non prelevare le urine dal sacchetto di raccolta o sconnettere il catetere;

6. trasferire il campione di urina nel contenitore sterile senza contaminarlo e chiuderlo ermeticamente;

7. aprire il morsetto o rimuovere la pinza autostatica dal sistema di raccolta, verificando il deflusso dell'urina;

8. consegnare il contenitore al laboratorio in tempo breve (se non è possibile consegnarlo subito, esso deve essere conservato a temperatura di circa 4°C in frigo massimo per 2 ore)13.

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IVU non complicate.

In caso di IVU non complicate, solitamente non è necessaria l’esecuzione dell’urinocoltura perché gli organismi patogeni ed il loro profilo di suscettibilità agli antibiotici sono prevedibili, anche se è comunque consigliato eseguire un dipstick sulle urine al fine di confermare la presenza di microematuria, piuria e nitriti. Tale esame è sufficiente per iniziare una terapia antibiotica empirica.

L’urinocoltura è invece raccomandata nelle seguenti situazioni: - sospetto di pielonefrite acuta;

- se i sintomi persistono da più di 2 settimane nonostante l’istaurazione della terapia;

- donne con sintomi atipici ed inusuali.

Il laboratorio microbiologico dovrebbe essere indirizzato alla ricerca di basse cariche microbiche, specialmente in caso di un evento acuto con caratteristiche atipiche53,54: in particolare, per le IVU non complicate deve essere considerata clinicamente significativa la presenza ≥103 cfu/ml di uropatogeni nel campione di urine di donne con sintomi patognomonici per IVU55; mentre deve essere considerata significativa una conta batterica >104 cfu/ml di uropatogeni se il sospetto è quello di pielonefrite acuta55.

Nel sospetto di pielonefrite acuta è necessario supportare la diagnosi clinica con i seguenti accertamenti:

 dipstick urinario in prima istanza, seguito da esame urine completo ed urinocoltura;

 emocromo e valutazione degli indici di flogosi (in previsione del monitoraggio del quadro clinico);

 valutazione ultrasonografica delle alte vie urinarie per escludere la presenza di ostruzione. Esami aggiuntivi, come TC diretta addome (per escludere la litiasi) oppure URO-TC, dovrebbero essere presi in considerazione solo sulla base della situazione clinica del paziente (ad esempio se la febbre non regredisce dopo 72 ore di terapia) così da escludere altri fattori complicanti come urolitiasi, ascessi renali o perirenali. Ad ogni modo, studi recenti hanno dimostrato che l’esecuzione

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di URO-TC di routine in pazienti con pielonefrite acuta non complicata ha scarso valore poiché la maggior parte degli adulti con pielonefrite acuta non complicata ha vie escretrici alte normali56.

IVU complicate.

Alle IVU complicate si applicano le stesse indicazioni diagnostiche viste in precedenza ma in questo caso la batteriuria è significativa per una carica batterica >105 cfu/ml e >104 cfu/ml nel campione di urine di donne e uomini, rispettivamente55.

IVU catetere associate (CA-IVU).

Secondo le più recenti linee guida dell’Infectious Disease Society of America (IDSA)49, si definisce batteriuria asintomatica catetere-associata (CA-ASB) l’isolamento da urinocoltura di una o più specie batteriche di carica ≥105 ufc/ml in un paziente asintomatico e portatore di catetere vescicale da almeno 48 ore. Se il campione di urine proviene da un paziente cateterizzato e con segni/sintomi clinici suggestivi di IVU, è da considerare significativa la positività per almeno una specie batterica con carica ≥103 cfu/ml.

In questo contesto è d’obbligo un’ulteriore precisazione: così come doveva essere posta particolare cautela in ambito clinico, anche il cut-off batterico in corso di CA-IVU deve essere correttamente interpretato, infatti il catetere a lunga permanenza è invariabilmente colonizzato e l’esito dell’urinocoltura potrebbe risentire più della colonizzazione che di una reale infezione. Per tale motivo nei pazienti portatori di catetere vescicale da almeno 2 settimane, si preferisce sempre sostituire il device prima di procedere all’urinocoltura46.

Un altro parametro che potrebbe essere preso in considerazione è la piuria: se assente, pur in presenza di urinocoltura positiva, esclude sia la batteriuria asintomatica catetere-associata che la CA-IVU. La sua presenza, al contrario, è molto poco significativa perché anche solo la presenza del catetere come corpo estraneo può infiammare la mucosa uretrale, senza che necessariamente vi sia batteriuria46.

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Urosepsi.

Una rapida diagnosi è il punto cruciale nella terapia dei pazienti affetti da urosepsi/shock settico. I criteri per una accurata diagnosi sono stati esposti precedentemente.

Considerando che l’apparato urogenitale è uno dei siti maggiormente coinvolti nei pazienti affetti da sepsi severa e shock settico, in questi soggetti ne viene sempre effettuata una valutazione accurata, in particolare alla ricerca di dolore al fianco o durante la minzione, di ritenzione urinaria, o dolore a livello scrotale e perineale. Nei pazienti maschi, l’esame obiettivo tenderà ad escludere la presenza di una prostatite acuta attraverso l’esplorazione rettale o di un’epididimite mediante la palpazione dello scroto.

In tutti i pazienti con urosepsi devono essere raccolti campioni di sangue e urine su cui eseguire un esame colturale57.

L’ecografia rappresenta l’indagine strumentale di primo livello, ma in presenza di alterazioni evidenti potrà essere utile completare il percorso diagnostico mediante una TC con o senza mezzo di contrasto in base alle condizioni generali del paziente ed agli indici di funzionalità renale57.

Un ulteriore indicatore diagnostico dell’urosepsi è rappresentato dalla Procalcitonina (PCT) che è tra i più studiati marker infiammatori a disposizione e di cui è raccomandato l’uso per confermare o escludere la sepsi severa.

La PCT è risultata più affidabile della Proteina C reattiva (PCR) e permette di distinguere l’infezione batterica da altri tipi di infezione. Inoltre un valore di PCT <0.5 ng/ml esclude praticamente la sepsi severa o lo shock settico, mentre livelli >2 ng/ml rendono questi ultimi molto probabili58.

Nello studio di coorte multicentrico e prospettico di Cees van Nieuwkoop et al.58, l’uso della PCT con cut-off di 0.25 ng/ml si è dimostrato in grado di identificare la batteriemia nei pazienti febbrili con infezioni del tratto urinario ottenendo un livello di sensitività del 95% (intervallo di confidenza al 95% [0.89–0.98]) e di specificità del 50% (intervallo di confidenza al 95% [0.46–0.55]) (Figura 3 e Figura 4).

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Figura 3. Valore predittivo di procalcitonina (PCT) per la diagnosi di batteriemia in 581 adulti con infezione febbrile del tratto urinario. AUC, area sotto la curva; ROC, receiver operating characteristic; NPV, valore predittivo negativo; PPV, valore predittivo positivo; LR+, rapporto di verosimiglianza positivo; LR-, rapporto di verosimiglianza negativo. (Cees van Nieuwkoop et al.58 CC)

Figura 4. Relazione tra il livello di PCT alla presentazione dell'urosepsi (n = 25) e il tempo di positivizzazione dell'emocoltura. (Cees van Nieuwkoop et al.58 CC)

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Diversi studi hanno dimostrato che i protocolli terapeutici basati sui valori di PCT sono in grado di ridurre la durata della somministrazione antibiotica nei pazienti con sepsi, senza aumentare la mortalità59: ad esempio lo studio PRORATA60 ha documentato una riduzione sicura dell’uso di antibiotici attraverso una strategia basata sul livello di PCT nei pazienti con sepsi (Figura 5).

Figura 5. Algoritmo per la terapia antibiotica guidata da PCT nello studio PRORATA.

Come detto precedentemente, nei pazienti con infezioni delle basse vie urinare, può essere utile integrare alla PCT una spia di infezione locale, come la piuria61,62.

Va comunque sottolineato che i marker infiammatori non possono essere utilizzati da soli per fare diagnosi: questi possono solo supportarla nell’ambito del contesto clinico del paziente31.

Algoritmo per la somministrazione della terapia antibiotica

Concentrazione < 0.25 μg/l Terapia fortemente sconsigliata Concentrazione tra 0.25 e 0.5 μg/l Terapia sconsigliata Concentrazione tra 0.5 e 1 μg/l Terapia consigliata Concentrazione > 1 μg/l Terapia fortemente consigliata

Algoritmo per l'interruzione della terapia antibiotica

Concentrazione < 0.25 μg/l Interruzione fortemente consigliata Concentrazione tra 0.25 e 0.5 μg/l Interruzione consigliata Concentrazione tra 0.5 e 1 μg/l Interruzione sconsigliata Concentrazione > 1 μg/l Interruzione fortemente sconsigliata

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2.8. TERAPIA ANTIBIOTICA

Il trattamento delle IVU è raccomandato esclusivamente per i pazienti sintomatici, iniziando con molecole ad ampio spettro da sostituire eventualmente sulla base dell’antibiogramma del germe/i isolato/i.

La terapia iniziale, anche se empirica e non supportata dai dati microbiologici dell’urinocoltura, è ragionata sui seguenti aspetti:

 spettro di suscettibilità dei probabili agenti eziologici coinvolti e maggiormente isolati in quella comunità;

 efficacia del singolo antibiotico negli studi clinici su popolazioni con caratteristiche comparabili con quelle del paziente da trattare;

 tollerabilità, reazioni avverse ed allergie riferite;

 pregresse terapie antibiotiche e pregresse urinocolture;  rapporto costo/beneficio;

 disponibilità del singolo antibiotico.

In questo contesto di trattamento andrà sempre posta l’attenzione sul fatto che l’uso intenso di qualsiasi antimicrobico, specialmente se implementato in modo empirico, porterà inevitabilmente allo sviluppo di microrganismi resistenti. Pertanto, quando possibile, la terapia empirica deve essere sostituita da una terapia basata sull’antibiogramma dell’urinocoltura. Ciò significa che un campione di urina per coltura deve essere ottenuto idealmente prima dell'inizio della terapia e, di conseguenza, la terapia antibiotica dovrebbe essere rivalutata ed eventualmente modificata sulla base dell’antibiogramma stesso13.

IVU non complicate.

Le IVU non complicate delle basse vie urinarie (es. cistiti) vanno spesso incontro a remissioni spontanee e non rappresentano un fattore di rischio per lo sviluppo di pielonefriti o conseguenze a lungo termine: ciò nonostante, alti livelli di evidenza

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suggeriscono come la terapia antibiotica sia raccomandata, efficace e migliori la qualità di vita di questi pazienti63.

Per quanto riguarda il trattamento antibiotico delle pielonefriti acute, vista la mancanza di studi epidemiologici sulla frequenza e sul pattern di resistenza dei patogeni responsabili, le attuali linee guida consigliano di impostare la terapia empirica sulla base dei dati di prevalenza e resistenza della IVU del basso apparato urinario per la comunità di appartenenza13.

IVU complicate.

Al contrario, la strategia di trattamento delle IVU complicate dipende dalla gravità della malattia: è infatti necessario impostare una terapia antibiotica adeguata e gestire le eventuali complicanze urinarie. A seconda della gravità della patologia, potrà essere necessaria una terapia di supporto anche in regime di ospedalizzazione. Come per le IVU non complicate, anche il trattamento empirico di una IVU complicata richiede la conoscenza dello spettro dei possibili patogeni implicati e dei pattern di resistenza agli antibiotici locali, nonché la valutazione della gravità di eventuali anomalie urologiche sottostanti (compresa la valutazione della funzionalità renale, soprattutto per i soggetti anziani in cui è spesso alterata).

Come suggerito sopra, il trattamento è indicato esclusivamente per i pazienti sintomatici e viene iniziato con molecole ad ampio spettro, da sostituire eventualmente sulla base dell’antibiogramma del/i germe/i isolato/i.

Gli antibiotici raccomandati per il trattamento empirico iniziale sono: - Fluorochinoloni;

- Aminopenicilline con inibitore delle β-lattamasi; - Cefalosporine di III generazione;

- Aminogliocosidi.

Gli antibiotici raccomandati per la terapia antibiotica in caso di fallimento iniziale o casi gravi sono invece:

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- Fluorochinoloni (se non usati come terapia iniziale);

- Ureidopenicilline (piperacillina) con inibitore delle β-lattamasi; - Cefalosporine di III generazione;

- Carbapenemi.

La terapia empirica, soprattutto nel caso di CA-IVU in pazienti con cateterismo a lungo termine/permanenza, tiene conto degli ultimi dati microbiologici disponibili o, se assenti, dell’epidemiologia locale, sospettando comunque bacilli Gram-negativi produttori di β-lattamasi a spettro esteso o addirittura di carbapenemasi.

Per quanto riguarda la durata del trattamento, le attuali linee guida13 suggeriscono di protrarlo per 7-14 giorni anche in base alla risoluzione dell’anomalia sottostante; a seconda della clinica, si può rendere necessario proseguire la terapia fino a 21 giorni55.

Urosepsi.

Nel contesto di trattamento delle urosepsi, già dal 2004 la Surviving Sepsis Campaign ha introdotto una serie di norme da seguire nella gestione di questi pazienti64. Tra le raccomandazioni proposte vengono identificati due percorsi: uno di rianimazione, da raggiungere entro le 6 ore, e uno di gestione da raggiungere entro le 24 ore12,57,65. Le principali raccomandazioni proposte comprendono:

1. rapida rianimazione del paziente;

2. invio di emocolture prima della terapia antibiotica; 3. indagine diagnostiche strumentali (ecografia, TC);

4. terapia antibiotica ad ampio spettro entro 1 ora dalla diagnosi con successiva modifica giornaliera della terapia in base all’evoluzione clinica ed al risultato delle indagini colturali;

5. controllo del sito di infezione entro le 12 ore dalla diagnosi;

6. ripristino del bilancio idro-elettrolitico, controllo della volemia, della perfusione tissutale, di una corretta ossigenazione e stabilizzazione della pressione arteriosa; 7. controllo della glicemia mediante la somministrazione di insulina;

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9. precoce alimentazione per via orale o enterale evitando il digiuno prolungato oltre le 48 ore.

La terapia antibiotica empirica nei soggetti con sepsi/shock settico deve tener presente il tipo di batterio atteso in base al sito di infezione, alle specifiche resistenze batteriche osservate nell’ospedale e alle caratteristiche del paziente.

In generale, nei pazienti con sospetta infezione da E. Coli si preferisce iniziare il trattamento con una cefalosporina di III generazione, con la piperacillina/inibitore β-lattamasi o con un chinolonico (ciprofloxacina/ levofloxacina) se all’anamnesi non riferisce una precedente terapia con questa categoria di antibiotici nei 6 mesi precedenti. Pertanto, la scelta dell’antibiotico dovrebbe ricadere su:

- Ceftriaxone 2 grammi (gr) endovenosa (e.v) 1 fiala ogni 24 ore; - Cefotaxime 2 gr e.v ogni 8 ore;

- Ceftazidime 2 gr e.v ogni 8 ore;

- Piperacillina/Tazobactam 4.5 gr e.v ogni 6 ore; - Levofloxacina 500 mg e.v ogni 12 ore;

- Ciprofloxacina 400 mg e.v ogni 8 ore; - Meropenem 1 gr e.v ogni 6/8 ore; - Imipenem 1 gr e.v ogni 8 ore.

Nei pazienti con sepsi gravi è consigliato somministrare i beta-lattamici in infusione continua.

Altro punto fondamentale nella gestione dei pazienti affetti da urosepsi è identificare, controllare e se possibile eliminare i fattori scatenanti come una idronefrosi od una ritenzione cronica di urine: nelle prime sei ore l’obiettivo sarà quello di rimuovere l’ostruzione mediante il posizionamento di un catetere vescicale, uno stent ureterale/nefrostomia a seconda della condizione clinica del paziente. Solo successivamente si agirà sulla patologia di base.

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Tabella 3. Riepilogo delle linee guida nazionali per il trattamento delle sindromi da IVU66.

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2.9. ANTIMICROBIAL STEWARDSHIP

All’inizio dell’era antibiotica, lo sviluppo dei farmaci sempre in forte espansione ha fatto sì che fosse comunque disponibile un nuovo farmaco anche qualora si fosse sviluppata una resistenza ai precedenti: basti pensare che tra il 1935 e il 2003 sono state introdotte ben quattordici nuove classi di antibiotici. Tuttavia, il rapido sviluppo antibiotico ha prodotto una sempre maggiore resistenza antimicrobica. Nel 2003, il CDC ha riportato un tasso di resistenza alla meticillina di quasi il 60% da parte dello Staphylococcus aureus nelle unità di terapia intensiva degli Stati Uniti67 ed è stato forse ancora più difficile gestire l’aumento di resistenza tra i Gram-negativi68. I programmi internazionali come lo SMART (Studio per il Monitoraggio della Resistenza Antimicrobica)69 e quello di Sorveglianza Antimicrobica SENTRY hanno mostrato un sostanziale aumento del tasso di resistenza della Klebsiella alle Cefalosporine di III generazione, così come un aumento di ceppi di K. pneumoniae ed E. coli produttori di β-lattamasi a spettro esteso e di Pseudomonas resistenti ai Fluoroquinoloni67,70,71. Nel corso degli ultimi 30 anni, lo sviluppo di antibiotici si è rallentato considerevolmente e le opzioni a disposizione per il trattamento di infezioni sempre più resistenti risultano oggi molto limitate: basti pensare che dal 1998 sono stati approvati solo 10 nuovi antibiotici, solo 2 dei quali (Linezolid e Daptomicina) hanno avuto nuovi bersagli d’azione. Le ragioni sono semplici: lo sviluppo dei farmaci è rischioso e costoso e i farmaci per trattare le infezioni non sono redditizi come quelli per trattare le malattie croniche. Gli antibiotici attualmente in fase di sviluppo appartengono a classi già esistenti e sono ad ampio spettro, il che significa che hanno più probabilità di promuovere l’ulteriore sviluppo di resistenza se utilizzati nella pratica quotidiana72.

Tuttavia, oggi, l’attenzione posta sull’inappropriatezza d’uso degli antibiotici si inserisce in un discorso più ampio che non riguarda solo l’emergere di batteri resistenti ma anche i potenziali danni al paziente. In particolare, la comunità scientifica si concentra sull’importanza di ottenere un esito clinico ottimale evitando complicanze quali l’insufficienza renale e la colite da C. difficile, e sul fatto che i pazienti con infezioni resistenti agli antibiotici hanno più probabilità di andare incontro ad infezioni ricorrenti, lunghi ricoveri – spesso dovuti all’inefficacia del trattamento – e persino alla morte73,74.

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Diversi fattori influenzano l'appropriatezza della prescrizione75,76 e questi stessi determinano importanti differenze tra i diversi ospedali nell'utilizzo appropriato degli antibiotici77. Tuttavia, secondo la letteratura, fino al 50% dell'utilizzo degli antibiotici in ospedale rimane non appropriato78 ed è per questo che da anni viene raccomandato lo sviluppo di programmi di Antimicrobial Stewardship al fine di migliorarne l'uso79.

Volendo riprendere la definizione di Antimicrobial Stewardship (AS) data da Tamma et al.80 si tratta di un “programma o di una serie di interventi diretti al monitoraggio e all’orientamento dell’utilizzo degli antimicrobici in ospedale, attraverso un approccio standardizzato che sia supportato dall’evidenza al fine di ottenere un uso giudizioso dei farmaci”.

Questi programmi possono essere considerati come un elenco di interventi disegnati ed adattati sulla base della realtà ospedaliera locale81, che si pongono tre principali obiettivi d’azione (Figura 6).

Figura 6. Obiettivi dell'Antimicrobial Stewardship (Adattamento da Lawrence KL et al.82)

Antimicrobial Stewardship Combattere l'emergere di resistenze Migliorare l'outcome del paziente, riducendo gli effetti collaterali Controllare i costi sanitari

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Il primo obiettivo è quello di lavorare con gli operatori sanitari per far sì che ogni paziente riceva la terapia antibiotica più appropriata, con la giusta dose e durata. La cura ottimale di un paziente infetto equivale a trattarlo con l’antibiotico corretto e opportunamente dosato che abbia la minore probabilità di causare effetti collaterali. Un ulteriore vantaggio dei programmi che mirano ad ottimizzare l'uso degli antibiotici è che generalmente portano a risparmi sui costi, dal momento che in questo modo vengono usate un minor numero di dosi e scelti farmaci meno costosi a parità di efficacia. Solo negli Stati Uniti, i programmi istituzionali hanno dimostrato un risparmio annuo fra i $ 200.000 e i $ 900.00083-85.

Il secondo obiettivo è non solo quello di prevenire l’uso eccessivo degli antibiotici, ma anche il cattivo uso o addirittura l’abuso. Infatti accade spesso che vengano utilizzati quando non sono necessari, sia in ambito ospedaliero che ambulatoriale. Spesso gli antibiotici vengono somministrati a pazienti con infezioni virali, con affezioni non infettive (ad esempio il classico paziente febbrile con pancreatite), con infezioni batteriche che non richiedono antibiotici - come i piccoli ascessi cutanei che si risolvono incidendo e drenando - o addirittura a quelli con colonizzazione batterica - come nei pazienti cateterizzati e urinocoltura positiva. Gli antibiotici sono spesso utilizzati inappropriatamente come ad esempio nello scenario in cui si usano antibiotici ad ampio spettro in pazienti con infezione da germi multi-resistenti oppure quando non si modifica la terapia dopo i risultati delle colture cosicché il paziente viene mantenuto in un regime terapeutico a cui il microrganismo non è sensibile. L’abuso degli antibiotici è invece più difficile da definire, ma il termine può essere utilizzato per descrivere l'uso preferenziale, spesso indotto da un’informazione parziale, di un antibiotico rispetto ad altri72.

Il terzo obiettivo è quello di minimizzare lo sviluppo di resistenze. L’uso degli antibiotici modifica i modelli di suscettibilità sia a livello del singolo paziente che a livello comunitario: i pazienti esposti agli antibiotici sono più a rischio di diventare colonizzati o infetti da microrganismi resistenti86-88 (basti pensare che la causa più comune dello sviluppo della diarrea da C. difficile è l'esposizione agli antibiotici)89. La resistenza dei Gram-negativi ai carbapenemi e alle cefalosporine aumenta dalle 10 alle 20 volte con l'esposizione ad antibiotici ad ampio spettro90-92 e da una recente meta-analisi sulle prescrizioni ambulatoriali, l'uso dei comuni antibiotici è stato associato ad un significativo

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aumento del rischio di sviluppo di resistenza fino anche a 12 mesi dopo l'esposizione agli stessi (odds ratio 1.33, con intervallo di confidenza al 95% di 1.2-1.5)74.

Questi organismi resistenti possono venir trasmessi ad altri individui all'interno dell'ospedale o della comunità del paziente, causando un aumento sia dei costi ospedalieri che sociali93. Inoltre, è dato ormai accertato che la resistenza antimicrobica si associ ad un aumento della morbilità e della mortalità90,94.

Gli approcci e le tecniche per realizzare un programma di AS all’interno di una qualsiasi struttura sanitaria sono vari ed esulano da questa trattazione ma un buon programma79 può trovare applicazione in una serie di attività quali:

1. Creazione di gruppi di lavoro che comprendano almeno un infettivologo e un farmacista. Tali team dovrebbero avere una struttura più snella e "operativa" dei Comitati per le Infezioni Ospedaliere (CIO), che nella maggior parte dei casi si riuniscono solo ogni 2 o 3 mesi.

2. Consulenza infettivologica. La fornitura di alcuni farmaci può essere vincolata alla consulenza, fin dall'inizio o entro le prime 48-72 h di terapia. La restrizione può comprendere i farmaci a maggior impatto sulle resistenze come i Carbapenemici, quelli da impiegare per i germi multi-resistenti come la Colistina e i più costosi come la Tigeciclina e la Daptomicina.

3. Servizio di Microbiologia "fast lab" in stretta relazione con il clinico. È ipotizzabile la creazione di laboratori di secondo livello, dedicati alle Unità di Terapia Intensiva (UTI) e a casi selezionati, in grado di operare h24 e con analisi personalizzate. 4. Adozione di linee guida locali di profilassi e terapia.

5. Monitoraggio del consumo di antibiotici e dell'epidemiologia locale delle resistenze microbiche con feedback periodici ai reparti.

6. Dosaggio plasmatico degli antibiotici, ad esempio Aminoglicosidi, Teicoplanina, Daptomicina e Linezolid.

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Potrà essere utile aggiungere ai punti precedenti il monitoraggio della qualità di cura attraverso indicatori che valutino retrospettivamente alcuni elementi misurabili della pratica clinica sui quali ci sia consenso. Nel contesto specifico delle IVU complicate, questi indicatori di qualità sono stati descritti per la prima volta da Hermanides et al.95. Partendo da 40 indicatori iniziali (vedi Tabella 15 in Appendice), è stato selezionato e validato un elenco di otto indicatori applicabili in un reparto di Medicina Interna e basato sulle attuali linee guida95. Tali indicatori, applicabili anche ad altre sindromi da IVU (come le urosepsi) vengono riportati nella Tabella 4.

Tabella 4. Elenco validato di 8 indicatori di qualità per la valutazione dell'appropriatezza terapeutica nei pazienti con Urosepsi.

Generali

1. Esecuzione urinocoltura.

2. Prescrizione di terapia empirica in accordo con le linee guida nazionali. 3. Uso di fluorochinoloni solo come terapia orale o a causa di allergia agli

antibiotici β-lattamici.

4. Modifica della terapia empirica dopo i risultati delle colture.

5. Variazione della terapia intravenosa in terapia orale dopo 48-72 h in relazione alle condizioni cliniche.

6. Durata della terapia antibiotica di almeno 10 giorni.

Pazienti con catetere urinario

7. Sostituzione del catetere entro 24 h dall’inizio del trattamento antibiotico.

Pazienti con insufficienza renale

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3. OBIETTIVI DELLO STUDIO

Obiettivo principale dello studio è stato quello di descrivere le caratteristiche cliniche e microbiologiche dei pazienti ricoverati all’Ospedale “F. Lotti” di Pontedera con diagnosi di urosepsi.

Un secondo obiettivo è stato quello di individuare l’incidenza delle urosepsi all’interno dell’ospedale e lo spettro di antibiotico-resistenza tra i microrganismi responsabili delle sindromi da IVU.

Infine è stato valutato il processo decisionale della prescrizione antibiotica e l’appropriatezza terapeutica nella gestione delle urosepsi che hanno fornito la base per la stesura di Linee Guida interne all’ospedale per tale affezione.

4. PAZIENTI E METODI

Selezione dei pazienti: Il presente studio, di tipo osservazionale retrospettivo, ha arruolato i pazienti maggiorenni con diagnosi finale di “Sepsi a partenza dalle vie urinarie” (DRG 416 e codice ICD-9 038.xx) ricoverati consecutivamente presso le due Unità Operative di Medicina Interna dell’Ospedale “F. Lotti” di Pontedera (PI) nel periodo tra Febbraio e Settembre 2016. In questi pazienti la diagnosi era stata posta in presenza di un quadro clinico settico (riferito ai criteri per la SIRS) con positività dell’urinocoltura e/o dell’emocoltura o comunque per la presenza di segni e sintomi riconducibili all’apparato urinario.

Inoltre, sono stati registrati i dati di tutti i pazienti maggiorenni - dimessi dagli stessi reparti e nello stesso periodo di tempo – con diagnosi di “Infezione delle vie urinarie” (DRG 320 e 321, codice ICD-9 599.0) o positività dell’emocoltura e diagnosi finale di “Sepsi medica a probabile partenza dalle vie urinarie” (DRG 416 e codice ICD-9 038.xx), che sono serviti per creare una banca dati interna alla struttura sanitaria sulle antibiotico-resistenze.

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Da entrambi i gruppi osservazionali sono stati esclusi i pazienti con prostatite (definita per la presenza di dolore all’esplorazione rettale62), epididimite e quelli con infezione da HIV; sono stati esclusi tutti i pazienti con comorbidità infettivologiche (es. colecistite acuta, polmonite, diverticolite acuta ecc.) e le pazienti in gravidanza.

Le due UO di Medicina hanno un totale di 82 posti letto con circa 320 ricoveri mensili (2336 ricoveri totali nel periodo oggetto dello studio).

Fonte dei dati: I dati sono stati estratti dall’analisi delle cartelle cliniche selezionate e suddivisi per comodità in tre campi:

- dati anagrafici (sesso, età, presenza di fattori di rischio per lo sviluppo di infezione, ecc.) e clinico-laboratoristici all’ingresso;

- dati microbiologici; - dati terapeutici.

Sebbene i dati siano stati raccolti in maniera anonima e retrospettiva, in ogni cartella era presente un consenso informato per l’utilizzo dei dati a fine di ricerca.

Analisi dei dati: I dati raccolti sono stati inseriti all’interno di un database in formato Access®, creato appositamente per lo studio, e analizzati con il programma Excel®.

Per il calcolo del filtrato glomerulare (GRF) sono state utilizzate le due equazioni CKD-EPI96 (Chronic Kidney Disease Epidemiology Collaboration) e MDRD semplificata (sMDRD) (vedi sotto) partendo dalle concentrazioni di creatinina sierica di ciascun paziente.

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40 EQUAZIONE MDRD semplificata:

I dati sull’utilizzo dei farmaci sono stati estratti dalle Schede Terapeutiche Uniche (STU) per ogni paziente. Come indicato dagli studi di Muller et al.97, il numero di grammi di ciascun antibiotico (DDDs) è stato convertito in base al numero di DDD stabilito dal sistema ATC/DDD98 nella versione finale del 2015: la DDD è stata definita dalla WHO come la “dose di mantenimento giornaliera media di un farmaco utilizzato per la sua indicazione principale nell'adulto”98.

Per correggere il valore sulla base della dimensione del nostro campione, è stata determinata la “densità d’uso” degli antibiotici espressa come DDDs per 1000 pazienti/die (tenendo conto del singolo antibiotico e della sua via di somministrazione). La formula viene riportata di seguito:

= × ° × °

× 1000

° × °

A partire dai dati sulle prescrizioni e sempre seguendo le indicazioni di Muller et al. è stato calcolato il numero di giorni di trattamento per ciascun antibiotico e il rapporto tra DDDs e numero di giorni di trattamento; la dose prescritta giornaliera media (in milligrammi) (PDD) è stata quindi stimata moltiplicando la DDD (definita dalla WHO) per il rapporto precedente97.

I dati medi sono stati espressi come NN (± DS), dove NN è la media e DS la deviazione standard.

Metodi di laboratorio: L’identificazione microbiologica e il saggio della sensibilità agli antibiotici sono stati eseguiti mediante il sistema automatizzato Vitek 2 e MALDI-TOF

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(bioMérieux, Marcy l’Etoile, France). Le concentrazioni minime inibenti (MIC) sono state classificate in base ai breakpoints stabiliti dall’EUCAST99.

5. RISULTATI

Nel periodo in studio sono stati raccolti i dati clinici e laboratoristici di 168 pazienti ricoverati in entrambe le UO di Medicina dell’Ospedale “F. Lotti” di Pontedera.

Si è trattato rispettivamente di:

- 95 pazienti con diagnosi di “Sepsi a partenza dalle vie urinarie”; - 45 pazienti con diagnosi di “Infezione delle vie urinarie”;

- 28 pazienti con diagnosi di “Sepsi medica a probabile partenza dalle vie urinarie”;

5.1. Caratteristiche cliniche dei pazienti con urosepsi

I pazienti che hanno rispettato i criteri di sepsi a partenza dalle vie urinarie sono stati in totale 95, con un tasso d’incidenza stimato di 4.15 casi/100 ricoveri.

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Grafico A. Distribuzione mensile delle urosepsi durante il periodo in esame per entrambe le UO di Medicina Interna.

Nel 49.5% si è trattato di donne, nel restante 50.5% di uomini. L’età media dei pazienti è stata di 80 (± 13.0) anni.

La durata media della degenza è stata di 9 (± 7.5) giorni, al termine della quale 8 pazienti (l’8.4%) sono deceduti e 87 sono stati dimessi con risoluzione clinica del quadro (“guarigione clinica”). All’interno di quest’ultimo gruppo, sono stati identificati 8 pazienti che hanno avuto una “guarigione microbiologica” perché l’urinocoltura e/o emocoltura ripetute durante la degenza sono risultate negative.

Il tempo medio intercorso tra l’inizio della terapia antibiotica e la defervescenza è stato di 3 (± 2.2) giorni; così come il tempo medio intercorso tra l’inizio della terapia antibiotica e la stabilizzazione delle condizioni cliniche del paziente (pressione arteriosa, frequenza cardiaca e SatO2) (3 ± 3 giorni): in questo caso i dati non sono stati sempre disponibili e pertanto sono stati raccolti solo per il 60% dei soggetti.

Durante la degenza, 4 pazienti sono stati trasferiti in Unità di Terapia Intensiva/Sub-intensiva per la comparsa di instabilità clinica.

Sei pazienti dimessi con diagnosi di “Urosepsi” e 4 dimessi con diagnosi di “Sepsi a probabile partenza dalle vie urinarie” avevano già un dato anamnestico positivo per un

0 2 4 6 8 10 12 14 16 18

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