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Il disgusto nell’estetica del Settecento

II. Dal gusto al disgusto

1. Il disgusto nell’estetica del Settecento

Il disgusto si è inserito nel dibattito settecentesco sul gusto, allo stesso tempo come suo limite, ma anche come sua condizione di possibilità. A partire dalla seconda metà del secolo, infatti, iniziò un vero e proprio dibattito teorico sul disgusto ed è perciò possibile affermare, con Menninghaus, che «così da parte sua, come termine, sfugge all’esclusione a cui è condannato come oggetto.»51 Il disgusto, infatti, è così rivoltante come oggetto da suscitare,

paradossalmente, il rifiuto di riflettere sulla sua esclusione. Nonostante ciò, come ritiene Menninghuas, una volta che lo si è definito dal punto di vista concettuale, esso si dimostra essenziale nell’articolazione della dinamica tra i campi dell’estetico e del non estetico. Per questo, quindi, a differenza di quanto succede con gli oggetti disgustosi che scatenano una reazione spontanea di rifiuto, il disgusto in quanto tale merita di essere preso in considerazione come strumento di indagine.

Un punto fondamentale del dibattito è costituito dalla Lettera sulla letteratura di Mendelssohn, il quale scrive: «Io oso osservare sempre più da vicino la natura del disgusto.»52. È da qui, infatti, che il dibattito teorico prende il via, anche se diventerà centrale

solo con il Laaocoonte di Lessing e la Plastica di Herder, per poi tornare ad essere marginalizzato da Kant. Con Mendelssohn vengono ad aprirsi due direzioni verso cui condurre il dibattito: una prima direzione rappresentata da ciò che scrive Schlegel nella prefazione al libro di Charles Batteaux, Les beaux arts réduits en un même principe, definendo il disgusto come il confine per eccellenza dell’estetica; una seconda direzione radica, invece, il disgusto in seno al concetto stesso di bello. La posizione cardine dell’estetica sostiene che la negatività emotiva che costituisce il disgusto non riesce, a differenza di ciò che accade con altre sensazioni spiacevoli, a essere trasformata, per mezzo dell’esperienza estetica, in qualcosa che possa essere definito esteticamente bello. Mendelssohn, invece, apre il discorso sul tema facendo riferimento al disgusto della bellezza e lo chiama disgusto per il piacere puro. Questo tipo di disgusto è prodotto dalla sovra- sazietà, il cui rimedio consiste in quella

51W. Menninghaus, Op. cit. P. 45

52 M. Mendelssohn, 82. Literaturbrief, in Gesammelte Schriften. Jubiläumsausgabe, di E. J. Engel, Frommann-

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che, in Mendelssohn, è definita teoria del sentimento misto, ossia una mescolanza di sensazioni piacevoli e sgradevoli. Scrive Menninghaus: «Si tratta di una teoria del complemento necessario: per essere bello e restare tale, il bello deve essere completato con qualcosa d’altro, qualcosa che non sia (soltanto) bello.»53 Ecco allora in che senso si può

sostenere che il disgusto non è solo un limite, ma anche una condizione di possibilità per il bello: senza di esso la bellezza incorrerebbe nella noia e finirebbe essa stessa per disgustare. Per Menninghaus, il piacere puro può essere inteso come dolcezza pura e questo ci fornisce un punto di contatto con quella dimensione sensitivo-palatale del disgusto che non può mai essere messa definitivamente da parte. Alla luce di quanto abbiamo detto, il disgusto non risulta escluso dalla teorizzazione estetica, poiché immeritevole di occupare un ruolo in essa, bensì perché esso sostiene la possibilità dell’esperienza estetica in quanto tale, essendo il suo opposto. Se smettessimo di percepire il disgustoso come tale, allora non ci sarebbe più limite alla saturazione esercitata dal piacere puro. Scrive Menninghaus:

Lo spazio dell’estetico si fonda su un presupposto del tutto enigmatico: il bello è in se stesso (tendenzialmente) il disgusto; per sua stessa natura è minacciato dal pericolo di rivelarsi all’improvviso

nauseante […] il disgusto è nello stesso tempo il limite inferiore e quello superiore, la controparte e la

peculiare tendenza del bello. Sebbene il dibattito vero e proprio sul disgusto discuta soltanto del suo carattere di controvalore estremo, il disgusto è invece doppiamente costitutivo del bello ed esattamente per la sua natura completamente estranea al bello.54

È come se fosse necessario fermarsi sempre un gradino prima di giungere alla fine della rampa di scale poiché, una volta varcata la soglia, il bello si trasforma in una sensazione spiacevole. Questo confine corre sempre il rischio di essere superato, poiché l’uomo è strutturalmente “affacciato” su un orizzonte trascendentale assoluto che lo porta a desiderare di spingersi sempre oltre, nessuno degli oggetti finiti sembra mai appagare completamente il desiderio, che per definizione è desiderio di qualcosa di infinito, ossia di non assimilabile. Ecco che allora, il disgusto agisce come una sorta di limite, ci ricorda che cosa succede a Icaro se si avvicina troppo al sole. Spesso nell’uso colloquiale si dice che qualcuno o qualcosa si è “bruciato”, in senso metaforico, quando, facendo troppo o volendo troppo, ha ottenuto l’opposto di ciò che stava cercando. “Il troppo storpia”, come sostiene un detto popolare. Questo, con tutte le differenze del caso, è un fenomeno simile: la bellezza può esprimere tutto il suo potenziale solo se non è satura. Il meccanismo della saturazione agisce anche per quanto

53 W. Menninghaus, Op. cit. P. 48 54 Ibidem, Pp. 52-53

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riguarda il soddisfacimento sessuale, laddove l’oggetto del desiderio, che ha già raggiunto il suo scopo, si offre per un’ulteriore consumazione. Menninghaus cita, a tal proposito, Spinoza, il quale sostiene che, appena cessa il godimento prodotto da una cosa che desideravamo e di cui abbiamo fruito, il corpo assume una nuova disposizione e comincia ad immaginare e desiderare altre cose. Se, a quel punto, l’oggetto della fruizione goduta si impone per una nuova consumazione, sorge un conflitto tra il desiderio passato e quello presente e si finisce per detestare ciò che prima si era desiderato.

Una possibile soluzione antiemetica è quella di rinviare la saturazione estetica all’infinito, attraverso l’infinita attività dell’intelletto che, grazie alla riflessione, può tornare infinite volte sull’oggetto della fruizione e riscoprirne sempre aspetti nuovi. Ecco perché gli organi più direttamente connessi con l’attività intellettuale, quali la vista e l’udito, sono valutati in modo più positivo rispetto a gusto, tatto e olfatto. Su questo si basa, secondo Menninghaus, anche la costruzione della Critica del Giudizio:

Da una parte il bello deve piacere senza interesse, dall’altra soltanto chi possiede un “interesse intellettuale per il bello” rimane immune dal pericolo di “futilità” e vuoto tipici dei “virtuosi del gusto” puramente estetico. “Da una parte il bello deve piacere senza concetto, dall’altra è posto in relazione a un concetto indeterminato e perciò infinitamente determinabile. Ovunque la disqualifica che Kant perpetua dichiaratamente contro la purezza, definita senza compromessi, del bello serve a garantire un incremento della capacità di giudizio estetica mediante la contaminazione.55

Ma riprendiamo quella che, all’inizio del paragrafo, abbiamo definito essere la posizione cardine del dibattito, ossia quella che vede il disgusto come limite invalicabile dell’estetica. La prima considerazione da fare è che l’esperienza del bello artistico richiede distanza, mentre il disgusto è una emozione connessa con la vicinanza. Questo fa sì che il disgusto non possa essere oggetto dell’imitazione artistica, ossia non possa essere trasfigurato grazie alle potenzialità dell’illusione estetica. Il potere che l’arte ha, di imitare, era stato teorizzato già da Aristotele, il quale riteneva che le emozioni negative come la paura, l’odio, la rabbia e la tristezza potessero essere trasfigurate esteticamente nella tragedia e producessero nell’osservatore un effetto catartico, attraverso cui liberarsi proprio di quelle emozioni negative. Secondo gli antichi, la bellezza della forma era tale da riuscire ad agire sul contenuto trasfigurandolo in qualcosa di positivo anch’esso. Il disgusto sembra non cedere al potere

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dell’imitazione, poiché la rappresentazione del disgusto risulta essere, a sua volta, disgustosa e rimanda alla realtà del contenuto che ci allontana dalla fruizione. Scrive Mendelssohn:

Le rappresentazioni della paura, del dolore, del terrore, della compassione eccetera possono suscitare soltanto dispiacere fino a che consideriamo la disgrazia reale. Queste rappresentazioni possono anche risolversi in sensazioni piacevoli attraverso il ricordo che si è trattato di una illusione artistica. La sensazione ripugnante del disgusto, invece; in virtù delle regole dell’immaginazione, segue alla semplice presentazione nell’animo, che l’oggetto sia tenuto per reale o no. Che cosa aiuta dunque l’animo offeso quando l’arte dell’imitazione si tradisce in modo evidente? Il suo dispiacere non proviene dal presupposto che il male sia reale. Le sensazioni del disgusto sono dunque sempre natura e mai imitazione.56

Con il disgusto viene meno la distinzione tra arte e realtà e, quindi, anche quella tra realtà e imitazione, la quale costituisce le condizioni di possibilità di una rappresentazione bella. Quello che manca è la mediazione intellettuale, per questo il disgusto è considerato una emozione violenta e immediata. Il disgusto apre, infatti, un dominio indifferenziato dell’immaginazione, a causa del quale la rappresentazione ha lo stesso effetto rivoltante dell’evento reale. Eppure, allo stesso tempo, costituisce quella condizione estrema attraverso la quale l’ideale illusorio del bello può essere garantito. Proprio sull’eliminazione della distinzione tra realtà e arte si fonda il legame del disgusto con la verità, di cui avremo modo di parlare più avanti nel corso della trattazione.

Le posizioni di Mendelssohn sono in parte riprese da Lessing, secondo il quale però, il problema appena affrontato può essere risolto facendo ricorso ad una doppia mescolanza: il disgusto può diventare un “ingrediente” dell’orrore e trasformarsi in una fonte del sublime oppure può essere coinvolto nel comico e suscitare il piacere del riso. Il sublime, per riprendere la teorizzazione che ne dà Kant, è legato alla rappresentazione dell’illimitatezza e questa implica, necessariamente, il riferimento non all’intelletto, ma alla ragione, che è la facoltà dell’incondizionato. In questo caso ci troviamo di fronte ad un sublime dinamico, che a differenza di quello matematico, che si rifà a ciò che è assolutamente grande, pone l’accento su ciò che è irresistibilmente potente. Gli aspetti dinamicamente sublimi della realtà elevano il nostro animo «al di sopra della mediocrità ordinaria, e ci fanno scoprire in noi stessi una facoltà di resistere interamente diversa, la quale ci dà il coraggio di misurarci con l’apparente

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onnipotenza della natura.»57. Nonostante questo, anche per Lessing, il disgusto puro rimane un elemento non assimilabile da parte dell’estetica.