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La nausea nel pensiero di Sartre

III. L’approccio filosofico al disgusto

4. La nausea nel pensiero di Sartre

In Sartre ci troviamo di fronte a un tipo di disgusto particolare, a cui però mi interessava fare accenno per offrire una panoramica, seppur sommaria, della varietà delle forme attraverso cui il pensiero filosofico moderno si è approcciato alla sensazione del disgusto. In Sartre, infatti, il disgusto è rivolto verso l’essere dell’ente in quanto tale. L’essere, per Sartre, si manifesta in due modi fondamentali: nel modo dell’“essere in sé” e nel mondo dell’“essere per sé”. Il primo modo è il dato che la coscienza trova davanti a sé, l’oggetto; mentre il secondo modo è la coscienza stessa, la quale attribuisce significati alle cose che si trova davanti, il soggetto.

151 Ibidem, P. 282 152 Ibidem, P. 283

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Per questo, Sartre chiama la coscienza “nulla”, non intendendolo come il contrario dell’essere, bensì come una potenza nullificatrice del puro dato, la quale è la fonte di tutti i significati attribuiti all’in sé. L’uomo, dunque, è coscienza ed è perciò libero, dal momento che può annullare la realtà risignificandola. Essendo libero, l’uomo è, però, responsabile di tutto ciò che gli accade e nulla può essere attribuito a una causa esterna a lui. La contingenza risulta esclusa dall’ontologia sartriana, poiché non si danno casi propriamente accidentali. Sarebbe più corretto, in realtà, dire che la contingenza è il vero e proprio ambito ontologico all’interno del quale si muove l’intera filosofia sartriana, ma in un contesto come questo, in cui non esiste alcuna realtà necessaria, anche la contingenza cessa di essere tale e si trasforma quasi nel suo opposto. Per Sartre, il per sé ha sempre la possibilità di scegliere e anche nel caso in cui può sembrare che la coscienza non abbia alcuna scelta, come nel caso di una guerra, si tratta di una convinzione ingannevole, poiché è, anche in questo caso, il per sé ad aver scelto di non scegliere. Nel caso specifico, il soggetto avrebbe potuto scegliere il suicidio o la fuga. Proprio la libertà, dunque, costituisce il perno sul quale si insidia un paradosso: l’uomo è libero per costituzione ontologica e quindi, in un certo senso, è condannato a essere libero, non è libero di essere libero. In primo luogo, infatti, la coscienza può scegliere che senso attribuire al suo essere e alle cose che la circondano, ma non può scegliere il suo essere stesso. La nausea è la reazione emotiva che scaturisce proprio dall’assurdità in cui la coscienza dell’individuo si vede gettata e, infatti, nel romanzo che porta il nome di questa sensazione, La nausea, Sartre scrive: «La Nausea non m’ha mai lasciato e non credo che mi lascerà tanto presto; ma non la subisco più, non è più una malattia né un accesso passeggero: sono io stesso.»153. All’inizio del romanzo essa era sopraggiunta come una sensazione improvvisa:

Allora la nausea m’ha colto, mi son lasciato cadere sulla panca, non sapevo nemmeno più dove stavo; vedevo girare lentamente i colori attorno a me, avevo voglia di vomitare. Ed ecco: da quel momento la Nausea non m’ha più lasciato, mi possiede.154

La trama del romanzo, che può essere considerato più che altro un diario filosofico, è presentata da Sartre stesso nella prima edizione del libro e la riporto qui sotto, poiché è utile per capire come Sartre parli della Nausea che colpisce il protagonista:

Dopo aver viaggiato a lungo, Roquentin si è stabilito a Bouville, tra feroci persone dabbene. Abita vicino alla stazione, in un albergo per commessi viaggiatori e scrive una tesi di storia su un

153 J.P. Sartre, La Nausea, trad. it di B. Fonzi, Einaudi, Torino, 1990. P. 171 154 Ibidem, P. 33

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avventuriero del XVIII secolo, il signor de Rollebon. Il lavoro lo porta spesso alla Biblioteca municipale dove il suo amico Autodidatta, un umanista, s'istruisce leggendo i libri in ordine rigorosamente alfabetico. La sera Roquentin va a sedersi a un tavolino del "Ritrovo dei Ferrovieri" ad ascoltare un disco - sempre lo stesso: Some of These Days. E, a volte, sale in camera al primo piano con la padrona del bistrot. Da quattro anni Anny, la donna amata, è scomparsa. Pretendeva sempre di aver dei "momenti perfetti" e si sfiniva immancabilmente in sforzi minuziosi e vani per rimettere insieme il mondo intorno a lei. Si sono lasciati; attualmente Roquentin perde goccia a goccia il proprio passato, sprofondando sempre più in uno strano e oscuro presente. La sua stessa vita non ha più senso: credeva di avere avuto delle belle avventure, ma non ci sono più avventure, ha solo delle "storie". Si attacca al signor de Rollebon: il morto dovrebbe fornire una giustificazione al vivente. Allora comincia la sua vera avventura, una metamorfosi insinuante e dolcemente orribile di ogni sensazione; è la Nausea che vi prende a tradimento e vi fa galleggiare in una tiepida palude temporale: È stato Roquentin a cambiare? O è stato il mondo? Mura, giardini e caffè vengono bruscamente assaliti da nausea; altre volte Roquentin si sveglia in una giornata malefica: qualcosa è in putrefazione nell'aria, nella luce, nei gesti della gente. Il signor de Rollebon torna a morire; un morto non può mai giustificare un vivente. Roquentin si trascina a casaccio per le strade, corpulento e ingiustificabile. E poi, il primo giorno di primavera, capisce il senso della sua avventura: la Nausea è l'Esistenza che si svela - e non è bella a vedersi, l'Esistenza. Roquentin conserva ancora un briciolo di speranza: Anny gli ha scritto, la rivedrà. Ma Anny è diventata una cicciona greve e disperata; ha rinunciato ai suoi momenti perfetti, come Roquentin alle Avventure; anche lei, a suo modo, ha scoperto l'Esistenza: non hanno più nulla da dirsi. Roquentin torna alla solitudine, sprofondando nell'enorme Natura accasciata sulla città e di cui prevede i prossimi cataclismi. Che fare? chiamare in aiuto altri uomini? Ma gli altri uomini sono gente dabbene: si scambiano gran scappellate e ignorano d'esistere. Lui deve abbandonare un'ultima volta Some of these Days e, mentre il disco gira, intravede una possibilità, un'esile possibilità di accettarsi.155

Inizialmente, Roquentin ritiene che la Nausea provenga da qualcosa di esterno alla sua coscienza e scrive:

La sua camicia di cotone azzurro spicca allegramente sulla parete color cioccolato. Anche questo dà la Nausea. O piuttosto, è la Nausea. La Nausea non è in me: io la sento laggiù sul muro, sulle bretelle, dappertutto attorno a me. Fa tutt’uno col caffè, son io che sono in essa.156

Ma poi il protagonista si rende conto di essere lui stesso la Nausea e ciò spiega l’impiego della lettera maiuscola per caratterizzare questa sensazione: la Nausea è la coscienza stessa che si sente “gettata” in una condizione assurda, quella dell’esistenza, sulla quale non ha potuto prendere decisione di alcuna sorta. Scrive Menninghaus:

nel romanzo di Sartre la crisi della “nausea” offre una visione della “cosa stessa. Come nell’immagine di Nietzsche del mal di mare, la nausea indica anzitutto una violenta crisi della percezione ordinaria di sé e del mondo, di fronte a un terreno stabile che improvvisamente si sente venir meno, o meglio che viene ritratto: “Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare […]: ecco la Nausea. Attraverso il filtro dei “falsi argini e falsi sicurezze”, di inganni e di bugie, tutti i fenomeni appaiono nella loro pura casualità e insensatezza.157

155 Cfr. J. P. Sartre, La Nausea, Introduzione. 156 J.P. Sartre, La Nausea, cit. P. 34

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Come fa notare Menninghaus, il disgusto, nella filosofia esistenzialista, si esprime sempre come nausea. Essa, come accennavamo all’inizio, è rivolta verso l’esistenza stessa del soggetto che viene percepita come assurda. Gli elementi della topica del disgusto, come ad esempio i denti marci o le narici mostruose, non sono percepiti da Roquentin come disgustosi di per sé, lo divengono semmai alla luce della nausea che pervade il protagonista stesso. Questo risulta abbastanza chiaro considerando ciò che abbiamo detto all’inizio, ossia che per Sartre il dato e la realtà in sé non esistono, poiché sono sempre oggetto di una risignificazione da parte della coscienza.

A partire dalla fine del Seicento, l’assenza di legittimazione della propria esistenza e la sensazione di vuoto a essa connessa, come abbiamo visto anche in Kant, viene definita ennui e rappresenta un disgusto per saturazione di tipo particolare, poiché è causata dal troppo vuoto, dalla troppa insensatezza e non da una sovrabbondanza di caratteristiche positive. Scrive Roquentin:

Non ero sorpreso, sapevo bene che era il Mondo, il Mondo nudo e crudo che si mostrava d’un tratto, e soffocavo di rabbia contro questo enorme essere assurdo. Non ci si poteva nemmeno domandare da dove uscisse fuori, tutto questo, né come mai esisteva un mondo invece che niente. Non aveva senso, il mondo era presente dappertutto, davanti, dietro. Non c’era stato niente prima di esso. Niente. Non c’era stato un momento in cui esso avrebbe potuto non esistere. Era appunto questo che m’irritava: senza dubbio non c’era alcuna ragione perché esistesse, questa larva strisciante. Ma non era possibile che non esistesse. Era impensabile: per immaginare il nulla occorreva trovarcisi già, in pieno mondo, da vivo, con gli occhi spalancati, il nulla era solo un’idea nella mia testa, fluttuante in quella immensità: quel nulla non era venuto prima dell’esistenza, era un’esistenza come un’altra e apparsa dopo molte altre. Ho gridato: “che porcheria, che porcheria!” e mi sono scrollato per sbarazzarmi di questa porcheria appiccicosa, ma questa teneva duro, e ce n’era tanta, tonnellate e tonnellate d’esistenza, indefinitamente: soffocavo nel fondo di quest’immensa noia.158

Menninghaus fa notare che in Sartre avviene, però, un sovvertimento dei classici dispositivi dell’ennui, poiché casualità e insensatezza si trasformano in categorie positive, dal momento in cui consentono di mettere da parte le false attribuzioni di senso dietro a cui la coscienza cerca di nascondere l’assurdità della propria esistenza. L’insensatezza non è vuoto, bensì pienezza, dal momento che consente di prendere contatto con l’esistenza autentica. La nausea, e quindi il disgusto, si presenta come una sensazione ambivalente, così come lo era stata anche per Nietzsche. Essa costituisce, infatti, l’unico modo per stabilire un contatto autentico con la propria esistenza, ma allo stesso tempo rischia di far soffocare:

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Eravamo un mucchio di esistenti impacciati, imbarazzati da noi stessi, non avevamo la minima ragione di esser lì, né gli uni né gli altri, ciascun esistente, confuso, vagamente inquieto, si sentiva di troppo in rapporto agli altri. Di troppo: era il solo rapporto ch’io potessi stabilire tra quegli alberi, quelle cancellate, quei ciottoli. […] Ed io – fiacco, illanguidito, osceno, digerente, pieno di cupi pensieri –

anch’io ero di troppo. Fortemente non lo sentivo, più che altro lo comprendevo, ma ero a disagio

perché avevo paura di sentirlo (anche adesso ho paura – ho paura che questo mi prenda dietro la testa e mi sollevi come un’onda). Pensavo vagamente di sopprimermi, per annientare almeno una di queste esistenze superflue. Ma la mia stessa morte sarebbe stata di troppo. Di troppo il mio cadavere, il mio sangue su quei ciottoli, tra quelle piante, in fondo a quel giardino sorridente. E la carne corrosa sarebbe stata di troppo nella terra che l’avrebbe ricevuta, e le mie ossa, infine, ripulite, corticate, nette e polite come denti, sarebbero state anch’esse di troppo: io ero di troppo per l’eternità.159

La comprensione dell’assurdità dell’esistenza e del proprio essere di troppo, che inizialmente gettano il protagonista in un’estasi quasi piacevole, per essere entrato in contatto con la sua autentica esistenza, finiscono per disgustare, poiché il troppo è soggetto a saturazione, come abbiamo precedentemente visto.

Menninghaus, a questo punto, fa notare che tutte le declinazioni disgustose dell’essere di troppo dell’esistenza sono connotate in modo femminile e che anche in Sartre compare la figura della donna vecchia. Essa è la coscienza stessa, in quanto esistenza insensata e, quindi, disgustosa.

Va notato, inoltre, che anche in Sartre, così come era stato per Nietzsche e Freud, l’arte gioca un ruolo importante, poiché la bellezza artistica è ciò che sembra inevitabile e, quindi, necessario. Scrive Menninghaus: «Bellezza è, detto filosoficamente, torsione (illusoria) dell’arte in natura, della contingenza in necessità.». L’arte rappresenta, dunque, anche in questo caso, il migliore antidoto contro il disgusto per la propria esistenza, così come era stato per Nietzsche e prima ancora per Schopenhauer. Sartre, dunque, si muove sulla scia di Nietzsche, così come anche dello scritto fenomenologico di Kolnai, di cui aveva sicuramente una profonda conoscenza

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